Giorgio Mezzalira: Democrazia senza confini
Era il gennaio 1996 e sulle pagine dei maggiori quotidiani locali campeggiava la questione del cosiddetto “disagio degli italiani”. Questione che continuò a tenere banco per alcuni mesi. Ieri, come oggi, a fare da sfondo c’era la nascita del “partito degli italiani” lanciata da Holzmann. Quella volta, però, a tenere a battesimo la costituzione di quel nuovo soggetto politico, dovevano essere tutte le forze del Polo. Oggi, invece, a contendersi gli “italiani disagiati” a destra sono in molti. Insomma, ieri come oggi, il tema del disagio degli italiani può diventare un’ottima piattaforma, da cui far partire processi di aggregazione e riaggregazione politica in un centrodestra locale in ebollizione.
Tutto ciò non toglie assolutamente centralità al tema del cosiddetto disagio, perché quand’anche si trattasse di esclusivo “vittimismo”, il problema rimarrebbe tale e quale. In una realtà come la nostra dove diversi gruppi linguistici devono convivere e particolarmente vulnerabile sul piano degli equilibri (demografici, sociali, culturali) anche la sola percezione del disagio, cioè il “sentirsi” penalizzati, è causa “vera” di malessere sociale e terreno di cultura di possibili chine etnocentriche.
Chi ha posto all'ordine del giorno il disagio degli italiani ha inteso ed intende interpretare le ragioni dell’insofferenza e della disaffezione nei confronti delle strozzature dell'autonomia in chiave di riscatto etnico, facendo forza sul recupero di una dignità di ruolo e di partecipazione tutta calata nella logica del “gruppo”. Il postulato su cui si regge una simile visione del problema è che il territorio dell'etnia coincida con il territorio della democrazia e che per poter essere considerati cittadini di questa terra e poter esercitare i propri diritti democratici, si debba difendere e rivendicare fino in fondo la propria appartenenza etno-culturale. Non crediamo che ci sia bisogno di essere genuinamente italiani, nel significato etno-culturale, per essere considerati cittadini e per diventare dei buoni cittadini; come non crediamo che il processo di radicamento degli italiani debba rimanere prigioniero di visioni culturali anguste e da trincea. La scommessa che questa terra sta giocando per dimostrare che i valori dell'autonomia affondano stabilmente nei principi di equità e di giustizia e che sostanziano il comune desiderio di una pacifica convivenza tra i gruppi, merita di essere giocata su un terreno diverso da quello della difesa delle soglie etniche. Si dovrebbero semmai innalzare le soglie di partecipazione civile e democratica, affinché tutti i cittadini, al di là delle loro appartenenze, si sentano pienamente attori e protagonisti della costruzione dell'edificio autonomistico.