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Paolo Bergamaschi: LA MOBILITAZIONE IN BIELORUSSIA E IL PRECEDENTE ARMENO

28.8.2020, La Gazzetta di Mantova - Il Commento

Saranno i carri armati inviati da Mosca nelle piazze di Minsk come invocato da Lukashenko a risolvere la crisi bielorussa? Possibile ma improbabile. Per Putin sarebbe uno smacco in termini di reputazione internazionale oltre che di immagine sul piano della propaganda. L’autocrate russo dispone oggi di altri strumenti meno dirompenti e più sofisticati per fare valere le sue ragioni come le campagne mirate di fake news, i battaglioni di troll sguinzagliati sulle reti sociali e i finanziamenti più o meno occulti alle truppe dei partiti sovranisti del vecchio continente. La situazione in Bielorussia sembra ormai fuori controllo. Aleksandr Lukashenko è riuscito ancora una volta a vincere le elezioni truccando il risultato delle urne ma ha perso nelle piazze e nelle fabbriche e anche le strutture dello stato cominciano a mostrare le prime crepe del dissenso. Per capire quello che potrebbe succedere bisogna fare un passo a ritroso di due anni spostandoci in Armenia, un’altra delle sei ex repubbliche dell’Unione Sovietica che fanno da cuscinetto fra Federazione Russa e Unione Europea. Tre di queste, Georgia, Moldavia e Ucraina, hanno intrapreso un percorso di integrazione sociale, economica e politica con Bruxelles pagando, però, con conflitti intestini telecomandati da Mosca la scelta di liberarsi del giogo dell’ingombrante vicino. L’Armenia cinque anni orsono aveva deciso di fare altrettanto negoziando con l’Ue un accordo di associazione che l’avrebbe incamminata sulla stessa strada. Fu Putin allora ad obbligare il presidente Serzh Sargsyan, l’uomo forte al potere a Erevan, a fare retromarcia pena pesanti ritorsioni. La sicurezza dell’Armenia, che occupa militarmente il venti per cento del territorio del vicino Azerbaigian, è nelle mani della Russia. Fra le innumerevoli missioni di osservazione elettorale di cui ho fatto parte ricordo, in particolare, quella in Armenia del dicembre 2017. Sono stato testimone di voti comprati davanti ai seggi, autobus di elettori trasportati in gita premio, condizionamenti pesanti all’atto del voto. Il Partito Repubblicano, quello di Sargsyan, vinse a mani basse. Sargsyan, però, non riuscì a sopravvivere politicamente alla rivoluzione di velluto della primavera successiva. La gente scesa in piazza lo obbligò a cedere il potere. Anche allora Putin fu di fronte a una scelta: intervenire e ristabilire con la forza il regime dell’alleato fedele o assecondare la piazza assicurandosi che il cambiamento non mettesse a rischio la lealtà geopolitica di Erevan a Mosca. Sono state elezioni libere ed eque quelle ripetute che hanno portato Nikol Pashinyan ai vertici dello stato armeno nel dicembre del 2018. Il regime di Sargsyan è caduto ma la collocazione internazionale dell’Armenia non è mutata. Il Paese rimane nell’Unione Economica Euroasiatica a guida russa e fa sempre parte dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, l’alleanza militare controllata da Mosca. Sul piano politico l’Armenia ha adottato sostanziali riforme in linea con gli standard europei ma sul piano economico e della difesa ha mantenuto gli stessi impegni che la allineano alla Federazione Russa. La mobilitazione cui assistiamo oggi a Minsk non ha precedenti. La società civile di quel paese si è improvvisamente svegliata da uno stato letargico che durava da trent’anni. La Bielorussia si sta liberando dagli arresti domiciliari. Anche se ci riuscisse, però, resterebbe in libertà vigilata. Impossibile sfuggire alla presa del Cremlino senza bagni di sangue. Troppa è l’importanza che riveste dal punto di vista strategico per Mosca. La Bielorrussia è condannata ad un esercizio limitato della propria sovranità. I dittatori non si amano ma si cercano, si annusano e si trovano al momento del bisogno. Se Lukashenko uscirà di scena per evitare colpi di coda violenti avrà bisogno di garanzie di immunità e impunità che solo Putin può offrire oltre ad una sorta di Sant’Elena dove trascorrere il resto dei suoi giorni. A meno che anche il presidente russo, che con un referendum costituzionale si è appena garantito, di fatto, il potere fino al 2036, sia vittima a sua volta di una rivoluzione di piazza. Ma questa è fantapolitica

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