Luigi Maria Vignali: Il corridoio
Un modello, quello del corridoio umanitario, nato dalla società civile: migranti vulnerabili, perlopiù donne, bambini e malati, che vengono individuati nei campi profughi e, dopo una preparazione fatta di corsi di lingua e formazione, partono, in aereo, e vengono accolti e smistati in piccole comunità che li aspettano; l’obbiettivo di una formazione anche professionale, in collaborazione con le aziende, in vista di un ritorno. Un modello replicabile?
Intervista a Luigi Maria Vignali.
Luigi Maria Vignali è direttore centrale per le politiche migratorie del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.
La scorsa primavera è atterrato nel nostro paese un primo gruppo di migranti arrivati attraverso un "corridoio umanitario”. Di cosa si tratta?
Si tratta di un’iniziativa nata dalla società civile. Tale prima importante caratteristica li differenzia da analoghe esperienze che esistono in altri paesi, per esempio in Canada, Germania, o negli stessi Stati Uniti, dove peraltro si rivolgono specificamente a dei rifugiati. I corridoi umanitari, così come sono stati ideati e in parte realizzati dall’Italia, riguardano invece migranti vulnerabili, indipendentemente dal fatto che siano dei rifugiati o dei migranti economici.
All’origine di questo esperimento, la Comunità di Sant’Egidio, la Tavola valdese e l’Unione delle chiese evangeliche hanno unito i loro sforzi, anche finanziari (utilizzando parte dei proventi dell’otto per mille), per organizzare i corridoi e provvedere ai successivi meccanismi di integrazione, che si sono rivelati particolarmente efficaci. I migranti sono stati distribuiti in varie realtà territoriali, dal sud al nord, dalla Puglia fino al Trentino Alto Adige, in famiglie e comunità preparate ad accoglierli.
I primi gruppi sono venuti dal Libano, dove hanno potuto beneficiare di corsi di lingua, con una vera e propria preparazione al viaggio. Il Ministero degli Esteri e il Ministero dell’interno hanno dato veste istituzionale all’iniziativa, in particolare attraverso uno screening degli arrivi e rilasciando i visti. Ma, ci tengo a sottolinearlo, resta un’iniziativa della società civile. Non è lo Stato italiano (come in Canada, Germania e altri Paesi) a immaginare e poi in qualche modo "imporre” questo meccanismo. È nato dalla società civile, noi lo abbiamo coadiuvato e in qualche modo regolamentato laddove per rispondere a requisiti di sicurezza e a determinate previsioni di legge.
Le modalità dei corridoi si sono rivelate appropriate soprattutto nella prospettiva della successiva integrazione.
Sappiamo come, non solo in Italia, i flussi di migranti economici possano provocare reazioni sociali, fenomeni di intolleranza o addirittura di vera e propria xenofobia. Il cittadino europeo, di fronte a ondate migratorie importanti, potrebbe valutare con preoccupazione l’impatto di una cultura diversa, di usi diversi, di etnie diverse. Ma conoscendo direttamente i migranti, l’atteggiamento cambia. Vi sono delle ricerche che hanno dimostrato come per esempio si tenda a parlare male dei migranti ma non di quelli che si conoscono direttamente, con cui si lavora, che ci aiutano in casa: "brave persone”, rispetto a generici "migranti” da guardare con sospetto.
Ecco perché l’iniziativa dei corridoi umanitari sta avendo successo. Perché, provvedendo a un’integrazione diffusa sul territorio, non concentrata nei grandi centri di accoglienza, spaventa meno, mettendo in diretta correlazione i migranti in quanto individui con i cittadini italiani. Questa è una caratteristica molto importante.
Diceva che i corridoi umanitari si rivolgono a gruppi particolarmente vulnerabili di migranti.
Parliamo di famiglie, donne e bambini in primis, qualche disabile, qualche anziano. Sono stato ad accoglierli ed effettivamente è emozionante veder scendere dalla scaletta dell’aereo donne e bambini che non sono stati costretti ai rischi mortali di traversate nel Mediterraneo.
Le persone più bisognose vengono individuate in collaborazione con l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni e l’Unhcr, l’Alto commissariato per i rifugiati. In questa prima fase, abbiamo lavorato soprattutto in Libano, dove vi sono enormi campi profughi nati per rispondere all’emergenza umanitaria costituita soprattutto da coloro che fuggivano dalla Siria. Non ci sono solo siriani in questi corridoi umanitari, vi sono anche cittadini iracheni o di altre nazionalità mediorientali. Sono stati quindi individuati i nuclei familiari con donne e bambini particolarmente bisognosi, che avessero l’Italia come destinazione del loro viaggio e accettassero di seguire un percorso di preparazione.
Prima di partire quindi i migranti sono stati "preparati” al viaggio. Come?
Hanno frequentato corsi di italiano, poi sono stati preparati anche sulla loro futura vita in Italia: devono sapere dove vanno a vivere, ovviamente diverso è ad esempio essere ospitati al sud o al nord.
Subito dopo l’arrivo, vengono distribuiti sul territorio, partono con dei pullman o verso le varie località e vengono ospitati da famiglie o dalle strutture messe a disposizione dalle realtà territoriali. Quindi è un meccanismo che su certi numeri gestibili funziona molto bene.
La Comunità di Sant’Egidio, insieme con Tavola valdese e unione delle chiese evangeliche, si è occupata di questi aspetti, anche con operatori in loco, che hanno cooperato con le organizzazioni internazionali.
Come dicevo, il primo nucleo è arrivato dal Libano, ma ve ne sono già altri in preparazione da diversi paesi. Potrebbe esserci presto un’iniziativa dal Marocco. È prevista, vediamo se riusciremo a realizzarla. Il Marocco ha altre rotte migratorie, i migranti provengono dall’Africa del Sahel.
Sembra possibile una prospettiva di corridoi umanitari dall’Etiopia, un paese di transito in particolare per due nazionalità che fuggono da guerre e da una situazione di grave violazione dei diritti umani, ovvero Somalia ed Eritrea.
Bisognerà procedere per fasi successive, con un processo di preparazione e con numeri sostenibili per il reinsediamento in Italia. Noi in questo momento stiamo già fronteggiando un’emergenza migratoria con afflussi assai elevati, dall’Africa sub-sahariana, che devono essere accolti e gestiti.
Di che numeri parliamo?
Alla fine del 2016 la cifra complessiva sarà superiore ai 170.000 migranti arrivati in Italia. Attenzione, non è una cifra troppo diversa rispetto al 2015 e 2014. La differenza è che rispetto agli anni precedenti non è seguita una distribuzione sul territorio europeo. L’Italia non è dunque più un paese anche di transito, ma in questo momento è un paese solo di destinazione e tale situazione porta a un impegno nuovo nel gestire numeri così rilevanti.
I corridoi di cui parliamo, ovviamente, non sono intesi per grandi numeri, ma per dare una risposta a situazioni umanitarie di particolare gravità.
I corridoi umanitari hanno un costo.
Non è un processo a costo zero, perché bisogna provvedere alla preparazione, come dicevo, e poi al viaggio… I gruppi viaggiano con voli charter o di linea, in parte sono stati sponsorizzati e in parte pagati con i fondi messi a disposizione dagli enti confessionali che citavo prima. Una volta in Italia vi sono poi costi relativi all’accoglienza nelle comunità locali, che includono istruzione per i piccoli, corsi di formazione professionale, corsi di italiano, ecc.
Va tenuto presente che le migrazioni hanno un impatto duplice. Nel breve periodo costano, perché bisogna provvedere appunto all’accoglienza, alla gestione dei flussi, all’integrazione. Nel medio e lungo periodo però portano vantaggi economici importanti. Ricordo sempre che in Italia, secondo uno studio della fondazione Moressa, 640.000 pensioni l’anno sono pagate da stranieri. Ciò che viene versato da questi contribuenti, fra l’altro molto giovani, contribuisce al mantenimento del sistema previdenziale italiano. E contribuisce anche all’economia in misura rilevante, perché i lavoratori migranti pagano l’Irpef, le tasse, alimentano i consumi; c’è insomma un’economia che beneficia dei flussi migratori.
È molto importante tenerlo presente davanti a una popolazione europea che invecchia.
In Europa oggi siamo circa 700 milioni, nel 2050 saremo, sempre più o meno, 700 milioni. Gli africani sono grosso modo un miliardo. Nel 2050 saranno due miliardi e mezzo se le stime vengono confermate. Immagini che tipo di impatto si prepara; noi dobbiamo prepararci a gestire questo fenomeno in termini di sostenibilità anche sociale, di accettazione culturale. È questa la vera sfida. E per far questo i corridoi umanitari possono servire. Perché i numeri certo sono limitati, ma l’esempio di meccanismi virtuosi, di un’accoglienza che funziona può favorire anche l’integrazione di numeri più grandi. Può avere effetti emulativi.
Quanti migranti sono arrivati fino a oggi con i corridoi umanitari?
I primi sono arrivati in primavera, a oggi sono entrate circa 500 persone, dovrebbero diventare mille nella primavera del 2017 possibilmente raddoppiando a 2.000 e prevedendo di lanciare un nuovo programma per altri 1.000-2.000 provenienti dall’Africa sub-sahariana.
Stiamo parlando di un massimo di 2.000-4.000 migranti che sono molto limitati rispetto a i 170.000 l’anno, però ricordiamoci che sono migranti che rispondono a esigenze appunto umanitarie e che in qualche modo sono già pronti a essere integrati, proprio grazie alla fase di preparazione e inserimento di cui dicevo.
Credo che il valore di questo modello stia anche nell’incoraggiare altri soggetti a promuovere progetti analoghi. In questa primissima fase l’iniziativa è stata gestita da associazioni confessionali, ma anche altre realtà come Ong, Fondazioni, soggetti anche bancari, aziende, potrebbero coinvolgersi nel programma dei corridoi umanitari.
Non a caso ho citato le aziende, perché una prospettiva importante è quella dell’inserimento professionale. Il lavoro è, dopo la lingua, uno degli strumenti più importanti per l’integrazione. Dando prospettive professionali, aiutando le persone ad accrescere le loro competenze, si può anche immaginare una migrazione di ritorno.
Noi abbiamo già delle proposte da parte di aziende che vorrebbero far venire migranti in possesso di determinate qualifiche iniziali, formarli e poi inserirli in piccole o medie attività professionali nei luoghi d’origine. Si tratterebbe in questo caso di corridoi sia umanitari che professionali, nonché di un tentativo di avviare concretamente quella migrazione "circolare” che rappresenta il futuro dei fenomeni migratori.
Le migrazioni non sono solo una sfida per i paesi di destinazione, sono anche un grosso impoverimento per i paesi d’origine, perché le energie migliori, giovani, i più preparati, quelli che riescono a vedere oltre, se ne vanno. Il giovane africano del villaggio sperduto in condizioni di estrema povertà neanche sa che esiste l’Europa o che esiste qualcosa d’altro. In genere chi emigra proviene da realtà più sviluppate, spesso rappresenta una sorta di investimento familiare, gli si affidano i risparmi di una vita per farlo arrivare in Europa e spedire indietro rimesse. C’è una fuga di cervelli anche dall’Africa insomma.
Certo, oggi vi sono paesi, come la Siria, l’Eritrea o la Somalia che non possono garantire condizioni di sicurezza e rispetto dei diritti umani. Però gran parte dei migranti vengono per ragioni economiche, non perché scappano da guerre e persecuzioni, quindi una possibilità di reinserimento nei paesi d’origine c’è.
Bisogna però investire in quei paesi: un paese come il Senegal riceve ogni anno dalla sola Italia 220 milioni di euro di rimesse. Non è semplice prevedere programmi di cooperazione tali da coprire un ammontare così ingente di rimesse. Si può però attivare il settore privato, attraverso flussi di investimenti garantiti dall’Ue; questo è il fulcro del piano di investimenti europeo che è stato recentemente lanciato.
Diceva che quest’anno il problema è il mancato ricollocamento di chi arriva nel nostro paese.
Quando parliamo di ricollocamento, parliamo di rifugiati che hanno uno status ben definito, anche dal punto di vista giuridico, non sono migranti economici. Purtroppo, in particolare i paesi dell’Est sono riluttanti ad accogliere i rifugiati.
Vi è anche un aspetto prettamente tecnico e che però ha delle ricadute importanti. Oggi possono essere ricollocati solo coloro il cui tasso medio di riconoscimento dello status di rifugiato è pari al 75% in Europa. In Italia gli eritrei soddisfano questo requisito. Tuttavia vi sono immigrati di altri paesi che hanno uno status di rifugiato pieno, ma il cui tasso di riconoscimento in Europa non arriva al 75%, perché da quei paesi insieme ai rifugiati propriamente detti arrivano anche migranti economici. Ripeto, parliamo di persone che hanno passato uno screening molto severo per poter accedere allo status e che sono a tutti gli effetti dei rifugiati. Ecco, se un sudanese è rifugiato, se un gambiano è perseguitato, perché non deve essere collocato? È evidente che se possiamo ricollocare solamente eritrei e siriani si pone un problema.
Ripeto, è un aspetto molto tecnico, che però dà l’idea di quanto sia importante che ci sia una solidarietà europea, fatta anche di una condivisione delle soluzioni. Non riteniamo possibile che l’Europa si divida fra quelli che sono disponibili ad accogliere e quelli che rifiutano aprioristicamente l’accoglienza. Ad ogni modo, per i motivi che dicevo, fino a oggi solo 1.400-1.500 rifugiati presenti in Italia sono stati accolti in altri paesi. Quasi lo stesso numero che prevediamo di accogliere attraverso i corridoi umanitari.
Avete già dei riscontri rispetto ai migranti arrivati con i corridoi?
È in corso un processo di monitoraggio per identificare le migliori prassi ma anche i problemi che possono insorgere. Il fenomeno dei corridoi umanitari è relativamente recente. I primi sono arrivati in primavera e stiamo elaborando un quadro compiuto sull’impatto. Le indicazioni che ci arrivano dalle comunità di accoglienza sono estremamente positive, ciò non esclude che emergano dei casi di minor successo. Dobbiamo valutare la situazione e su quella costruire i prossimi corridoi umanitari.
L’accoglienza nelle famiglie sembra funzionare, ma anche perché le famiglie stesse erano preparate, sapevano ciò cui andavano incontro, non c’è stata un’imposizione.
Ovviamente la famiglia è solo uno dei tasselli, poi ci sono i corsi di lingua, la preparazione professionale, ecc. Laddove c’è un coinvolgimento anche del migrante, pur se particolarmente vulnerabile, nei processi vitali della società civile, le cose funzionano meglio.
Uno dei problemi maggiori di cui abbiamo purtroppo prova oggi con i richiedenti asilo, con i migranti, è che non riescono a dare un loro contributo. Attendere la concessione dello status di rifugiato o di altre forme di protezione internazionale senza poter lavorare, senza poter dare appunto un apporto concreto, destabilizza sia loro (che si sentono in qualche modo "mantenuti” e quindi perdono stimoli, spirito di iniziativa) ma anche la società di accoglienza.
Per poterli integrare nel mercato del lavoro vi sono tutta una serie di aspetti non semplici da valutare. Stiamo riflettendo, assieme alle altre istituzioni, su un coinvolgimento delle associazioni sindacali e datoriali per studiare un possibile modello di integrazione professionale. Non dobbiamo creare evidentemente categorie contrattuali minori, né prefigurare un abbassamento dei livelli di protezione garantiti ai lavoratori europei. Non possiamo fare due categorie diverse di lavoratori, però si potrebbero individuare delle forme contrattuali innovative, magari temporanee, per far sì che in attesa della decisione definitiva queste persone preservino la loro dignità.
È un’ulteriore sfida che dobbiamo affrontare. Senza ovviamente abbassare le difese, su questo voglio essere molto chiaro, né introdurre meccanismi di indebolimento delle protezioni sociali esistenti. Si tratta ovviamente di competenze del Ministero dell’Interno, del Lavoro e di altre amministrazioni, ma noi seguiamo queste riflessioni con grande interesse.
Uno dei nodi che andranno sciolti è appunto come passare da una fase di passivizzazione a una fase in cui queste persone possano dare un loro contributo attivo al benessere della società.
Sul versante invece dei grandi numeri cosa si può fare?
Dobbiamo intanto dialogare con i paesi di origine e di transito per trovare delle soluzioni comuni, un terreno d’intesa, che in prospettiva consenta a questi paesi di beneficiare di flussi di investimento sostitutivi delle rimesse. E sostitutivi anche delle reti di traffico dei migranti, che hanno un impatto economico molto rilevante. Bisogna far sì che le soluzioni vengano condivise e che i migranti possano attivare dei circuiti di migrazione legale che poi si trasformi in una migrazione circolare.
In una prospettiva ideale vediamo dei circuiti di migrazione legale che contribuiscano al benessere della società europea e che, al contempo, permettano loro di formarsi per poi riportare queste competenze nei paesi d’origine.
Nel frattempo i flussi vanno regolati per evitare fenomeni di intolleranza e xenofobia. Se si riuscissero effettivamente a distribuire su tutto il territorio europeo, l’impatto sarebbe in fondo poco significativo. Dobbiamo offrirgli delle opportunità, delle alternative diverse dalla migrazione e soprattutto dal viaggio della morte nel deserto e nel Mediterraneo. Queste opzioni però richiedono un flusso d’investimenti adeguato. Il corridoio è una strada modello di integrazione, di protezione per gruppi particolarmente vulnerabili e di coinvolgimento attivo della società civile, senza imposizioni dall’alto. È una "migliore prassi”. È chiaro che, volendo fare una metafora, stiamo parlando di un modello fuoriserie, di un’auto dalle prestazioni elevatissime. Però a volte le innovazioni introdotte nelle auto di fascia alta vengono poi adottate anche dalle auto di serie. Ecco, lo stesso vorremmo che accadesse per i corridoi umanitari, che diventassero un modello in qualche modo applicabile anche per numeri più elevati.
(a cura di Barbara Bertoncin)