Franco Balzi, sindaco di Santorso: l'ho saput al bar!
La storia di Santorso, un piccolo comune del Vicentino con una lunga tradizione di presa in carico delle persone fragili, già impegnato da anni nell’accoglienza diffusa di richiedenti asilo, dove una mattina il sindaco scopre che sono stati collocati 90 immigrati in un albergo cittadino; un grande lavoro di rete con gli amministratori e l’importanza di aver introdotto la clausola di salvaguardia; la memoria della dolorosa emigrazione dei veneti, da recuperare. Intervista a Franco Balzi.
Franco Balzi è sindaco di Santorso, piccolo comune in provincia di Vicenza.
Da due anni sei sindaco di un piccolo comune dell’alto vicentino, alle prese, come tanti altri, con il fenomeno dell’immigrazione. Puoi raccontare la tua esperienza?
Santorso è un comune di circa seimila abitanti collocato all’interno di un territorio più ampio che chiamiamo alto vicentino e che aveva visto, in questi ultimi anni, una serie di amministrazioni iniziare a collaborare. A Santorso c’è anche una tradizione particolare di presa in carico delle persone fragili. C’è una struttura, Villa Miari, nata come centro riabilitativo per persone con grave handicap fisico dovuto a infortuni sul lavoro. Qui si è collocato anche il primo centro diurno Anffas per persone con disabilità intellettiva. Io ci ho lavorato cinque anni come educatore. È stata la mia prima esperienza professionale. E poi c’era l’Aias. Ecco, credo che queste presenze abbiano contribuito a far entrare nel dna di questa comunità una certa attenzione, anche solo per il contatto fisico con queste persone che comunque uscivano dalle strutture.
Io sono diventato sindaco nel maggio del 2014. Per me si è trattato di un triplo salto mortale nel senso che fino ad allora non avevo mai fatto esperienze di questo tipo. Lavoravo nella cooperazione sociale. Il comune era prima governato da un sindaco appartenente a una lista civica di centro-sinistra, arrivato ormai alla fine del secondo mandato. Sono stato quindi contattato da questo gruppo politico per verificare la mia disponibilità a partecipare alle primarie.
Questa scelta era stata motivata da due obiettivi da parte di chi mi aveva cercato: uno era quello di continuare a lavorare sulla rete sovracomunale costruita negli anni precedenti; l’altro riguardava la percezione che anche negli anni a venire il capitolo del sociale sarebbe stato una delle priorità. Su questo campo in effetti io potevo portare un’esperienza e una visione delle cose.
Al mio insediamento ho anche ereditato un’esperienza, partita quindici anni fa, di accoglienza dei richiedenti asilo. Quando all’epoca il Ministero aveva proposto, su base volontaristica, delle opportunità di questo tipo, Santorso era stato uno dei primi comuni in Italia a far proprio il modello dello Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), costruendo una rete di una dozzina di comuni che ancora oggi sono operativi.
Parlo di un modello di accoglienza diffusa che prevede piccoli nuclei di 3-4 persone con una dimensione quindi familiare, distribuiti su più comuni. Con questa formula le venticinque persone originariamente previste risultavano una presenza pressoché impercettibile rispetto a quel 10-12% di stranieri comunque presenti.
Questo modello con il tempo si è rivelato il più efficace anche sul piano dei risultati che non erano solo quelli dell’accoglienza ma anche dell’integrazione e inclusione. Certo con qualche fatica in più dopo il 2009 per gli sbocchi lavorativi, però senza alcun tipo di problematica relazionale.
L’accoglienza qui è sempre stata gestita bene, anche grazie a un ente nato proprio con lo scopo di occuparsi di queste persone; che non faceva altro e che continua a fare solo questo; una risorsa importante che nel tempo è stata in grado di mettere a disposizione un patrimonio di competenze anche per altri soggetti che si affacciavano. Insomma, tra i tanti banditi di cui abbiamo letto sui media, teniamo presente che ci sono anche realtà sane, che lavorano in maniera seria. Ecco, le premesse sono queste: seimila abitanti all’interno di un territorio più ampio dove si era costruita una sorta di abitudine a lavorare in rete sull’immigrazione, ma anche sulla sanità, sul sociale, sulle politiche giovanili...
Fino a quando, una mattina, dopo qualche settimana dal tuo insediamento...
Una mattina, mentre bevevo il caffè qui sotto, un cittadino mi dice: "Sindaco, ma le novanta persone arrivate all’albergo in zona industriale le ha fatte venire lei, vero?”. Era una domanda provocatoria: avendo io un passato nel sociale, questa persona era convinta ci fosse stato un mio ruolo in questa scelta. Invece eravamo rimasti vittime di un vero e proprio cortocircuito istituzionale. Sui centoventi comuni della provincia, il prefetto aveva trovato qui la prima soluzione applicativa del modello dei Cas, i centri di accoglienza straordinaria: strutture individuate appunto dalle prefetture, in convenzione con cooperative, associazioni e strutture alberghiere, secondo le procedure di affidamento dei contratti pubblici. Io non ero stato nemmeno preavvisato: l’ho saputo al bar!
Episodi analoghi si sono ripetuti nei mesi successivi in altre realtà del territorio.
La popolazione ha reagito con legittimo allarme, con comprensibile preoccupazione, oltretutto con quest’equivoco che associava impropriamente quell’episodio a una scelta della nostra amministrazione: "Siete quelli che accolgono tutti...”.
Io ho subito contattato il prefetto e gli ho manifestato la mia sorpresa, il mio disappunto, la mia totale disapprovazione per questa decisione. La consideravo folle, non solo nei confronti delle novanta persone arrivate: ci voleva poco a capire che così sarebbe stato impossibile integrarle; ma anche rispetto alla nostra comunità, al modo in cui era stato gestito il rapporto con l’istituzione comunale. Quella decisione stava mettendo a repentaglio tutto il lavoro di rete e sensibilizzazione faticosamente portato avanti negli anni. Devo dire che ho avuto l’impressione che dall’altra parte non ci fosse piena consapevolezza della portata di quello che sarebbe accaduto; prevaleva l’illusione che la situazione si risolvesse rapidamente: "Stia tranquillo, nel giro di qualche settimana li redistribuiamo”. In realtà nel giro di pochi mesi quei novanta sono diventati duecento, settecento e oggi, distribuite nell’intera provincia di Vicenza, ci sono 2500 persone.
In questo caso risultava evidente come il problema non fossero tanto i nuovi arrivati, che certo erano un numero significativo, ma il modo in cui era stata gestita la loro accoglienza. Questa modalità si è riprodotta anche in forme più pesanti: a Tonezza, un comune di cinquecento abitanti, hanno mandato novanta persone in un albergo nel centro del paese.
Ma il prefetto non è tenuto ad avvisare il sindaco in questi casi?
A onor del vero, va detto che il prefetto a febbraio del 2014 aveva interpellato tutti i centoventi sindaci della provincia e aveva chiesto la loro disponibilità a collaborare, come già accaduto qualche anno prima in occasione dell’emergenza Libia. Aveva ricevuto un secco no da tutti, destra e sinistra. Mi risulta questo sia avvenuto in tutte le province, tanto che a un certo punto il Ministero ha deciso di seguire la strada dei bandi: la prefettura ha contattato direttamente le cooperative e le associazione di albergatori e ha cercato delle disponibilità. Passando sopra le amministrazioni locali, trasformate in spettatori passivi. Devo aggiungere che Vicenza ha avuto un prefetto che almeno non ha voluto o potuto adottare soluzioni come quelle applicate a Padova o a Venezia, dove a Cona, duecento residenti, avevano messo 1.400 immigrati. Però anche qui si è seguita la strada di mettere le persone dove si trovava la disponibilità. Tuttavia, va riconosciuto che quelle novanta persone arrivate a Santorso erano anche il risultato del secco no di un’intera comunità. Fortunatamente, con il prefetto abbiamo subito condiviso la convinzione che un muro contro muro non avrebbe risolto nulla e un qualche dialogo è partito.
Il fatto che queste situazioni si moltiplicassero, anziché ridimensionarsi, mi ha dato anche una nuova credibilità davanti ai colleghi quando cercavo di convincerli che era una partita comune: "Guardate che questa minestra la mangerete anche voi. Proviamo a costruire una soluzione diversa”.
Sei stato promotore, assieme ad altri, di un protocollo con la prefettura per provare a gestire la situazione in modo diverso.
L’idea era quella di andare a recuperare gli elementi che caratterizzano lo Sprar, cioè piccoli nuclei distribuiti, perché anche quindici persone tutte insieme sono una soluzione sbagliata.
Nel settembre 2015, dopo più di un anno, siamo arrivati alla firma di un protocollo di intesa con la prefettura, che ho proposto in tutta la provincia ma che in realtà sono riuscito a sviluppare solo nella nostra Ulss Pedemontana, 32 comuni. Di questi, 24 alla fine hanno sottoscritto questo protocollo, che sostanzialmente recupera il modello Sprar estendendolo a questi nuovi arrivi che vedono numeri molto più ampi. Parliamo sempre di richiedenti asilo. Tieni conto che noi avevamo già 25 posti poi ampliati a 39.
Lo Sprar è uno strumento operativo predisposto dal Ministero. I richiedenti asilo c’erano anche vent’anni fa, ce ne sono sempre stati, solo che fino al 2013 erano poche migliaia di persone all’anno, oggi siamo arrivati quasi a duecentomila.
All’epoca, quando arrivavano nei Comuni, avevano già completato il percorso del riconoscimento nei centri di prima accoglienza; oggi arrivano due giorni dopo essere sbarcati a Lampedusa, con le assegnazioni che il governo fa in base alla popolazione delle varie regioni. Se ne sbarcano mille, il Veneto ne deve prendere una certa quota. A quel punto il prefetto di Venezia li ridistribuisce nelle varie province. Negli anni si è creata una situazione molto diversificata, con comuni che non hanno mai accolto nessuno, o perché non li hanno voluti e perché il prefetto non ha trovato in quel luogo un posto adatto. Questo è il modello della prefettura.
Lo Sprar prevede invece una base volontaria: cioè è il Comune che si rende disponibile. Il tema dell’obbligatorietà o volontarietà resta una questione aperta. Io nel protocollo avevo introdotto l’elemento quantitativo, proponendo ai colleghi di calcolare una presenza proporzionata al numero degli abitanti. Tieni presente che se tutti i 121 comuni della provincia accogliessero il due per mille, saremmo in grado di far fronte all’intero fabbisogno calcolato dalla Prefettura.
Il due per mille significa che in un comune di cinquemila abitanti non ne possono arrivare più di dieci. In questo modello inoltre il Comune torna regista dell’operazione e può entrare nel merito della scelta del soggetto che gestisce l’accoglienza, stabilendo il luogo e i tempi; un modo ben diverso di entrare nella partita. Con 24 colleghi abbiamo condiviso questa disponibilità ed è partito un percorso fatto di luci e ombre. Uno dei limiti dell’operazione è che c’erano comunque delle situazioni preesistenti che andranno sanate. Comunque i comuni che ci hanno creduto sono riusciti a fare un percorso assolutamente positivo. Breganze Villaverla, Zugliano, Lugo, Sarcedo, così come tanti altri comuni che ne hanno accolti chi cinque, chi venti, oggi possono testimoniare di un’esperienza efficace. Al di là di qualche manifestazione o di qualche articolo nel giornale, nel giro di poco tempo il fenomeno è rientrato all’interno di una dinamica ordinaria.
Anche il coinvolgimento di queste persone nei lavori di pubblica utilità ha aiutato: può sembrare una banalità, ma vedere questi ragazzi impegnati nella pulizia delle strade, nella manutenzione del verde, nell’allestimento della sagra paesana o all’ecocentro, avere l’occasione di fare due parole, beh, sono piccole occasioni importanti. Dopo un periodo di affiancamento alle squadre degli operai del Comune, ci possono essere dei tirocini da noi o presso qualche cooperativa o azienda del territorio. Talvolta nascono dei rapporti di lavoro già nella fase della presa in carico. Quando arriva il riconoscimento definitivo dello status di rifugiato, lo Sprar apre a un accompagnamento per alcuni mesi per mettere queste persone nella condizione di camminare sulle proprie gambe, trovare una casa, un reddito eccetera.
Questa è una grande differenza rispetto al modello della Prefettura che non prevede un vero accompagnamento.
Tornando allo Sprar, è una modalità volontaria finanziata direttamente dal Ministero; il rapporto quindi è tra Comune capofila e direzione centrale; il tutto nella logica dell’accoglienza diffusa, con piccoli nuclei e una responsabilità condivisa tra più realtà del territorio; l’ente gestore è scelto dal comune che attua un capitolato di interventi legali, sanitari, linguistici, formativi e occupazionali, che sono poi gli elementi che traducono l’accoglienza in un percorso di integrazione. È a tutto questo che servono i famosi 35 euro al giorno.
Ebbene, dopo due anni di disastri, il Ministero ha rilanciato e potenziato questa risorsa che in realtà faceva già parte del suo patrimonio. Anche questo fa pensare. Ora l’obiettivo è di travasare nello Sprar le formule emergenziali, affidandole direttamente ai comuni, facendo così scomparire i grossi centri. Ad agosto del 2016 è stato emanato un decreto che invita tutti gli ottomila comuni ad utilizzare questo strumento, diventando interlocutori diretti del Ministero.
Puoi spiegare cos’è la "clausola di salvaguardia”?
Il grande problema attuativo del nostro protocollo di intesa, che è stato uno strumento transitorio, è che mancava una garanzia del rispetto dell’elemento quantitativo del due per mille. Stava all’onestà, al patto che si era costruito tra prefetto e sindaco, rispettare l’impegno reciproco. Il prefetto infatti a volte ti diceva: "Sì, voi state facendo la vostra parte, ma io ne ho dieci, ho trovato un appartamento da voi e li metto lì”. Questo demotivava anche i comuni più aperti, disponibili e virtuosi.
Ebbene, la clausola di salvaguardia, introdotta in una circolare del Ministero dello scorso ottobre, assicura che nei comuni che aderiscono allo Sprar e soddisfano il vincolo quantitativo, i prefetti non potranno collocare altre persone. La clausola di salvaguardia in sostanza esenta i comuni della rete di protezione richiedenti asilo dall’attivazione di ulteriori forme di accoglienza.
È un principio buono, che rimette la governance in mano ai sindaci, che possono quindi tornare a decidere, assieme alla loro comunità, numeri, modalità e soggetti da coinvolgere per organizzare l’accoglienza sul territorio. Ora siamo in questa fase. Qualcuno dubita che il principio venga rigorosamente rispettato, però si sta andando in questa direzione.
Dicevi che questi arrivi non concordati hanno suscitato tensioni.
La decisione prefettizia che ha portato a quelle novanta presenze non concordate ha avuto come risultato che una parte della popolazione si è ribellata. Ci sono state delle manifestazioni che hanno visto l’arrivo di persone da tutta la regione, comitati "prima noi”, Lega, Forza Nuova e altri.
Intendiamoci, alcune preoccupazioni sono legittime. È difficile raccontare cosa succede attorno a questo tavolo quando si presenta un padre di famiglia che ti dice: "Sindaco, io ho esaurito gli ammortizzatori sociali, non so più come pagare l’affitto, ho due figli, dia anche a me dieci euro al giorno, non ne chiedo trentacinque...”. È imbarazzante rispondere che non hai quelle risorse a disposizione e sentirsi rispondere: "Sì ma a quelli glieli date”. Si rischia di alimentare una guerra tra poveri che poi viene strumentalizzata da chi ha tutto l’interesse a buttare benzina su questo fuoco.
Dopodiché è chiaro che non possiamo mettere in competizione disabili e minori o disoccupati e stranieri. Dobbiamo muoverci su tutti i fronti, certo con la consapevolezza che la coperta è corta.
Qui nel vicentino stiamo ancora pagando gli effetti della crisi del manifatturiero che era la locomotiva del Nord-Est. Oggi si fa fatica a creare occupazione per la gente giovane. A questo si è aggiunta la crisi delle banche, che hanno fatto disastri con i risparmi delle famiglie. Stiamo vivendo una situazione molto complicata nel Veneto e in particolare nel Vicentino.
Noi adesso stiamo cercando di transitare tutte le persone arrivate con la gestione prefettizia dentro lo Sprar. Il criterio che sembra circolare è quello del tre per mille. Se fosse così, Santorso dovrebbe accogliere al massimo diciotto persone. Bene, noi diciotto persone le abbiamo già. Comunque il problema non è diciotto o venti, l’importante è che non siano duecento e che non stiano tutti nello stesso posto.
Non mi illudo che ci saranno ottomila sindaci che dicono: "Venite faremo la nostra parte”. Ognuno farà le sue valutazioni.
Qui, fino al 2014 sono passate complessivamente più di quattrocento persone, con percorsi che duravano tre, sei, otto mesi, tutti conclusisi positivamente. Molti di loro, una volta avuto il riconoscimento dello status, sono andati all’estero; l’ambizione è ricongiungersi con i nuclei familiari o andare in luoghi dove ci sono migliori opportunità lavorative. Un altro dei mantra da smontare è che questa disponibilità porti a un accumulo nel tempo. Questo non succede: sono dei flussi, arrivano e ripartono. D’altra parte, se una persona parte dal Mali o dalla Nigeria non è che abbia come obiettivo di arrivare a Santorso.
Voi avete cercato di coinvolgere anche la popolazione nell’accoglienza.
Abbiamo interpellato la comunità per individuare gli spazi abitativi. Abbiamo fatto un avviso pubblico, per cui abbiamo chiesto a tutti indistintamente. Avevamo anche chiesto (ipotesi interessante ma complicatissima) se c’erano famiglie disponibili ad accogliere qualcuno in casa propria. Tre, quattro famiglie hanno detto di sì e una è partita: hanno accolto una mamma con un bambino. In realtà è un’esperienza nuova anche per l’ente gestore. È un capitolo di innovazione che andrebbe sviluppato. Certo è difficile pensare di poter portare uno sconosciuto in una famiglia; è preferibile che ci sia stata prima una presa in carico, l’insegnamento dei primi rudimenti linguistici. Per come l’abbiamo pensato qui, molto prudentemente è un po’ la parte finale del percorso. La novità potrebbe essere quella di mettersi in gioco direttamente.
Penso all’Erasmus: quando mio figlio andava in Germania e sei mesi dopo arrivava la ragazza che l’aveva ospitato e stava da noi; ecco era un po’ portarsi in casa l’Europa.
Tra l’altro con queste famiglie ospitali cosa succede? Che nel quartiere, tra i parenti, si apre una dimensione di conoscenza e partecipazione più diretta, più viva, che ti fa toccare con mano le storie di queste persone. Questa vicenda è fatta anche di questi percorsi che si stanno esplorando, è fatta dal coinvolgimento degli scout, delle parrocchie, degli alpini dell’ecocentro, della casa di riposo, della sagra, dei luoghi della vita quotidiana della comunità.
Tra i cittadini continua a esserci chi è favorevole, chi è contrario, chi ha paura e chi sta in mezzo e rischia di farsi trascinare. Diciamo che c’è una minoritaria disponibilità e apertura all’accoglienza e un maggioritario atteggiamento di preoccupazione, rifiuto, paura; poi c’è chi dice: "Non ce lo possiamo permettere, abbiamo altre priorità: dobbiamo prima pensare ai nostri giovani, ai nostri vecchi, alla crisi”.
Questo stesso livello di tensione, lo ritrovi anche tra i sindaci, tra chi responsabilmente ha detto: "C’è questa cosa, dobbiamo gestirla” e chi fa il gioco del cerino o della roulette russa per cui "Mi è andata bene! Li hanno piazzati a te!”. Dietro tutto questo ci sono anche visioni culturali e valori diversi.
Tu lamenti una perdita della memoria da parte di una popolazione che l’emigrazione in altri tempi l’ha conosciuta bene.
Anche questo, se vuoi, è motivo di sofferenza perché è un po’ triste che il Veneto venga veicolato all’esterno come un luogo ostile all’integrazione, all’accoglienza. In questo territorio c’è una vitalità spesso sotto traccia che bisognerebbe far emergere e rendere più visibile, dando voce alle tante realtà della cooperazione sociale, dell’associazionismo, del volontariato che praticano forme di solidarietà silenziosa, quotidiana.
Noi veneti conosciamo bene l’emigrazione. Mio nonno è andato in Argentina a cercare lavoro perché qui moriva di fame, e come lui tanti.
Io non credo che sia andata persa questa memoria. Più che mettersi contro chi oggi vuole chiudere la porta a chi fugge da guerra e fame, bisognerebbe dimostrare, con i fatti, la praticabilità di questi percorsi. Lasciamo pur stare chi cerca volutamente lo scontro, ma c’è tutta una fascia di persone che fa fatica e che pone una domanda che non possiamo eludere: ce lo possiamo permettere? Ecco, io dico che la risposta è sì perché la proposta sia ragionevole. Santorso non può accogliere trecento persone concentrate in un luogo, ma diciotto suddivise in piccoli gruppetti sì!
L’accoglienza diffusa è efficace e può persino succedere che, anziché togliere lavoro, queste persone in prospettiva possano crearlo. Capisco il disagio della gente. Il Veneto si è sollevato grazie allo spirito imprenditivo e a una grande operosità, ma col tempo siamo diventati più egoisti, più chiusi, più paurosi; abbiamo anche devastato il territorio. Purtroppo ci hanno abituato a costruire sempre più fortini e si è allargata la forbice tra chi ha sempre più risorse a disposizione e chi ne ha sempre meno. Forse questa esperienza può trasformarsi in un’occasione preziosa per pensare a un modello più sobrio, più giusto, più equo, per ripensarci come comunità.
Il mattino in cui ho scoperto che erano arrivate novanta persone, lo sconforto è stato grande. Così come era frustrante andare alle conferenze dei sindaci a spiegare che si poteva fare in modo diverso e sentire questa distanza, se non addirittura un’irrisione. Sono consapevole di non creare consenso elettorale con questo tipo di iniziative, però continuiamo ad andare controvento. La relazione con la gente è bella.
Nei momenti di sconforto guardo alcune foto. A maggio del 2016 è arrivato Messi con la sua mamma. Io ero a Vicenza a un convegno. Mi ha chiamato la prefettura dicendomi che ne avevano cinquanta in una corriera: "So che avete già i vostri, ma per favore prendetene qualcuno”. Ho contato fino a dieci e poi ho risposto: "Va bene”. Sono andato al piazzale e Messi, tre anni, non voleva scendere dal pullman. Erano sbarcati due giorni prima; ricordo ancora il volto di quel bambino terrorizzato, che aveva visto morire i suoi compagni di viaggio e che non voleva scendere dalla corriera... sono salito, l’ho preso in braccio e l’abbiamo riunito alla sua mamma, che oltretutto era incinta.
Ecco, ogni tanto per tirarmi su il morale guardo la foto di Messi la settimana dopo essere stato accolto, in cui ha un’espressione serena, sembra contento. Oggi frequenta la scuola, il padre sta facendo un percorso lavorativo, la mamma sta imparando italiano.
Poi ho la foto di mio nonno. Lui era di Montecchio Maggiore; era uno dei Ragazzi del 99, andato a combattere prima di compiere i 18 anni. Sopravvissuto alla guerra, due anni dopo è salito su una nave con la moglie e i loro piccoli, per cercare fortuna in Argentina. Arrivato a Buenos Aires ha trovato un posto alla Pirelli, a fabbricare pneumatici. Un paio di anni dopo mia nonna è improvvisamente morta, e lui non se l’è sentita di restare laggiù da solo, così ha messo insieme i pochi soldi che aveva, ha ripreso la nave ed è ripartito per l’Italia. Ecco io vedo questi fili...
(a cura di Barbara Bertoncin)