Maria Silvia Parolin: Euromediterranea, abbondanza e ricchezza d'umanitÃ
Tra tutti i sentimenti depositatisi con il passare dei giorni dal nostro viaggio, il più resistente è : sono contenta di averla fatta, questa esperienza così intensa. Contenta è l’aggettivo più adatto ad esprimere quel che provo e che non si lascia del tutto analizzare né afferrare. C’è della gratitudine, dell’energia, ma anche qualcosa di simile all’umiltà. E c’è il piacere.
Il piacere degli incontri, di quelli più brevi e di quelli che si sono nutriti del quotidiano trovarsi, mangiare asieme, parlarsi. Nella ricchezza delle diverse età.
Mi sembra che la durata, il tempo di dieci giorni che ci è stato dato, sia stato fondamentale per consentire all’ esperienza di farsi VITA. Certo grazie anche alla consapevole presenza che ciascuno di noi, con le proprie motivazioni, ci ha messo e che si percepiva nell’attenzione, nella partecipazione a tutti i momenti. Come se a monte, nella decisione di venire, ci sia stato il dirsi: questo viaggio mi riguarda, la sua meta, le sue ragioni mi riguardano e devo farlo non solo per conoscere, ma per comprendere dal vivo qualcosa anche per la mia esistenza e solo facendolo potrò capire cosa e perché. Per chi non è in sé pacifico (ed è facile che succeda ), le motivazioni ad impegnarsi nelle mutevoli, difficili, non ideologiche ragioni e condizioni della pace, sono un lungo lungo percorso.
Poi c’è il piacere che mi viene dal bisogno, non appagato ma riconosciuto e affrontato, di comprendere i fatti, la storia, e dunque il presente . Per me c’era il desiderio di posizionarmi meglio, a distanza di tempo, rispetto ad eventi – le guerre nella ex Jugoslavia– che allora, quando accaddero, per varie ragioni personali e per il modo in cui i media ne parlavano, avevo vissuto sì con inquietudine ed angoscia, come qualcosa di inaudito e quasi incomprensibile nelle sue origini, qualcosa che aveva la natura dolorosa di un roveto, ma in fondo e forse proprio per questo, come qualcosa di “distante”. Come dice P. Rumiz in”Maschere per un massacro”, i “ Balcani” come luogo immaginario, mitico della crudeltà, della barbarie, del primitivismo sono sempre più in là di dove siamo noi. L’inquietudine non si è lasciata addomesticare dal tempo, ha invece lavorato a farmi sentire e a convincermi sempre più che come Europa si debba ritornare e ripartire da lì, da quel rimosso.
Ho apprezzato e preso molto dagli incontri con i protagonisti, dai loro racconti, dalle loro analisi; molto anche dalle spiegazioni e preziose introduzioni fatte in pullman, dalle visite ai luoghi, al museo. Andare nei luoghi stessi dei fatti (Tuzla, Sarajevo,la casa ed il cimitero con zijo, Srebrenica) lo sento e lo credo indispensabile, quando è possibile. I luoghi informano in altro modo, conservano tracce, sostengono con la loro concretezza l’immaginazione, che può posarsi e sostare in ascolto.
Tale è stato lo stimolo che ho ricevuto da tutta questa esperienza, che mi sono quasi tuffata in letture sulla storia, la geografia, la cultura della Bosnia e poi sul pensiero, le esperienze di Alexander Langer, che conoscevo superficialmente e che sento utilissimo. Ho ripreso Ivo Andric.
A proposito dei giorni a Tuzla, dedicati alla Lezione bosniaca con il meeting, lì mi è rimasta l’unica insoddisfazione: troppo poco il tempo previsto per i laboratori ( parlo del mio, sul decalogo), poco intrecciato alle esperienze , alle conoscenze reali dei partecipanti.
Mi spiego. Durante l’andata Edi – con uno stile personale ma che immagino essere anche una scelta precisa di cura delle relazioni, uno stile credo della Fondazione Langer – aveva fatto circolare attraverso le presentazioni e le autopresentazioni non solo i nostri nomi e le provenienze, ma anche gli interessi, le motivazioni, le competenze o le esperienze di ciascuno o di alcuni in rapporto ai temi e agli argomenti che Euromediterranea 2015 ed il viaggio proponevano. Mi pare che il tempo e la parte dedicata ai relatori “locali”, per quanto ricca di punti di vista e preziose informazioni, abbia avuto parzialmente una connotazione “ufficiale” ( così in genere sono strutturati i convegni ) ed abbia in questo senso condizionato anche il laboratorio. Mi chiedo se la mia insoddisfazione è condivisa, se si poteva dargli una impostazione diversa e più tempo, se ci sia un modo di raccogliere, valorizzare, far circolare e fruttare meglio le singole esperienze ( dove singole può riferirsi ad n gruppo) . Forse una iscrizione precoce potrebbe consentire di conoscere meglio il target e quindi di armonizzarne le aspettative con quelle degli organizzatori? Forse un altro metodo? Non so, non so. Mi piacerebbe che ci lavorassimo insieme, su quel decalogo, mi piacerebbe proporlo all’attenzione e alla riflessione per esempio della mia associazione “Cittadini/e per la pace” o comunque di persone interessate, qui a Castelfranco. Metterlo in rapporto a situazioni locali concrete.
Tornando allo “stile” organizzativo, ho apprezzato molto anche il procedere alternato e sinergico tra fare esperienza (con le persone, i luoghi),e le narrazioni,le riflessioni. Dei relatori, di Divjak, di Zijo, Nemanja… ma anche quelle avvenute o sollecitate in pullman.
E’ stato interessante ascoltare in pullman, durante il ritorno, le impressioni, i vissuti di chi aveva partecipato alla marcia ( a cui avevo mestamente dovuto rinunciare, vieillesse obblige almeno con il caldo). E non è stato male che sia stata espressa (da ?) una perplessità per avvertire che l’intera esperienza, gli aveva lasciato quasi un sentimento “contro i serbi” (non ricordo le parole esatte..) . Giustamente commentata e corretta da Andrea con la precisazione di quale e quanto fosse stato all’epoca il divario delle responsabilità della/nella guerra, nei massacri e con il ricordare che molte delle persone impegnate in iniziative verso un processo di ricostruzione della convivenza (Irfanka, Divjak, Nemanja) sono serbe.. Interventi ambedue opportuni secondo me, se si vuole attenersi alla complessità e al fatto che la maturazione del giudizio, in questo caso, passa per un processo di chiarificazione anche soggettiva.
Ancora : il piacere dei luoghi. La bellezza della Drina con il suo ampio letto, le sue sponde ora erbose ora in pendio o a dirupo, ora alberate ora abitate da case; un fiume amico, dove qualcuno nuotava pacifico. Le tortuose montagne a “gheriglio di noce” ( o a “ meandri del cervello”, com’era stata la mia prima immagine. Se fosse pensante, che cosa mai penserebbe di noi umani la “Natura ognor verde “? “…..caggiono i regni intanto, passan genti e linguaggi, ella nol vede e l’uom d’eternità s’arroga il vanto”. Non più però, dopo la consapevolezza ecologista ). Insomma la bellezza del Creato nel suo aspetto non distruttivo, da preservare.
Le città: Tuzla con i suoi nuovi edifici e grattacieli, incongrui, costosi, di dubbia funzione. Sarajevo ancora ferita, meritevole di un soggiorno più lungo per poterla vivere camminandoci. L’ergersi dei minareti qua e là tra i piccoli villaggi, il profilarsi di piccoli cimiteri non recintati, quasi come “orti dei morti” vicini ai grumi delle case. Uno, in particolare, sul pendio opposto alla finestra della camera in casa di Zehta, a Srebrenica.
E Srebrenica, la meta finale, il luogo del dolore e della vergogna. Da non dimenticare, da non intorbidire. A cui trovare un posto nella storia collettiva, quanto meno dell’Europa; un posto che dica “C’è stato questo!” e ricordi la necessità della giustizia.
E’ possibile sentirsi contenta per aver assistito, partecipato alla cerimonia di commemorazione e sepoltura nel memoriale di Potocari? Che “qualità” ha questa contentezza quieta che pure, a posteriori, posso riconoscere?
Giusto aver predisposto, da parte della Fondazione, incontri di preparazione e conoscenza e di averci fatto arrivare a Srebrenica ancora mercoledì 8. Bene poter entrare senza ressa, senza altre interferenze emotive nella desolazione del compound, nella vastità del cimitero. Essere insieme, seduti vicini a guardare ed ascoltare quel video di vent’anni prima. Così, stare seduti il sabato per 4 ore sul pendio del memoriale, in prossimità di un albero, assieme ad un gruppo di donne e uomini bosniaci (lo erano?), ha acquistato un po’ alla volta un suo preciso senso, che è divenuto chiaro e definitivo quando, a due passi da noi, i familiari hanno accolto, benedetto e sepolto i resti identificati di un uomo, di cui non ho scritto il nome, nato nel 1946. Un mio coetaneo. E’ stato bene essere stata lì a raccogliere quella data: “Lui c’è stato”, come ha scritto Francesco.
Ripensando molto più tardi a quel momento, al lavoro di Adopt Srebrenica e della Fondazione, ad alcune osservazioni , mi si è affacciato il pensiero che non sarà male, una prossima volta, pur nella giusta proporzione e con i dovuti modi, provare a soffermarsi un momento anche sulla tomba di qualche vittima serba. Come ci parlerà?
Alcuni flash.
Zijo, di fronte agli assassini della sua famiglia “ Certo ero scosso, ma mi sono detto “Non voglio odiare”. Separarsi dal dolore dell’odiare, rinunciare al dolore dell’odiare, alla sua brama potente di distruzione e annientamento.
Divijak “ ho 78 anni, sono innamorato. Della vita”.
Alexander Langer nella foto di copertina della sua biografia, tracolla e sacca di cuoio in mano, mi richiama irragionevolmente ma con forza una foto di Simone Weil con pastrano e basco. Viaggiatori la cui leggerezza apparente è inversamente proporzionale alla profondità , alla “pesanteur” delle tracce che ci hanno lasciato.
L’importanza assolutamente decisiva di aver sempre goduto di interpreti dal serbo croato. Grazie Andrea, Giulia
Abbondanza e ricchezza di umanità.