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The broken childhood of Srebrenica” - Teatro Cristallo sabato 7 maggio ore 19

2.5.2011, AS

 Presenta il libro “The broken childhood of Srebrenica”, una  raccolta di nove testimonianze di ragazzi di Srebrenica, bambini durante l'assedio della città.

Qui la traduzione delle testimonianze di  Nermina Dautbašić e Azir Osmanović

 


Nermina Dautbašić: Allora e adesso

 

Osservo. Lapidi bianche. Innocenti testimonianze della cattiveria umana. Osservo. Taccio. Penso. Ma è possibile che sia tornata di nuovo qui a Potočari, a Srebrenica? È possibile che, dopo tutto, io sia tornata nel luogo in cui tutte le mie sofferenze hanno avuto inizio? È possibile ricominciare la mia vita accanto a quelle stesse persone che, tredici anni fa, avevano solo un obiettivo? Persone che negli occhi avevano solo il sangue dei mussulmani. Persone il cui successo veniva misurato dalla ferocia con cui uccidevano uomini, donne, anziani, bambini… Che cosa c’è adesso nelle loro anime? Adesso, la loro voglia di uccidere i bosgnacchi è soltanto tenuta repressa...oppure ...? Forse alcuni di loro si sono pentiti, ma gli altri...? Hanno paura della punizione divina oppure esultano alla vista dei bosgnacchi che sono riusciti a tornare, godendo ancora della propria ferocia per aver ammazzato loro un fratello, un figlio, il padre, il marito…?

Osservo le madri che hanno perso figli, mariti, e mi chiedo da dove prendano tutta questa forza. Forse, nella loro lotta per la verità, riescono a raccogliere anche gli ultimi slanci di forza per far in modo che giustizia sia fatta, almeno nei confronti dei maggiori responsabili dell’atroce genocidio compiuto sui bosgnacchi di Srebrenica. Forse il loro cuore è nero perché segnato dal dolore e dall’impossibilità di accettare di aver perso figli, mariti e padri… Mi chiedo se sono riuscite ad accettare veramente la perdita dei loro più cari oppure se, da vere bosgnacche, hanno soltanto accettato il loro destino e implorano il buon Dio che i loro figli, mariti e padri ritrovino la pace nel Memoriale di Potočari. Le ammiro. Spero che rimangano pazienti e forti, così che la verità possa conoscere la faccia della giustizia. Dodici anni dopo quel terribile genocidio, che ha segnato per sempre la mia vita, i miei pensieri sono tornati ad allora, come se in un certo senso stessi rivivendo le medesime sofferenze. Ho avuto davvero bisogno di molto tempo per trovare la forza di tornare nel luogo in cui la mia infanzia, le mie speranze, l'amore per mio padre, le amicizie, sono state stroncate per sempre.

In quei dodici lunghi anni ho cercato di conservare gelosamente il mio dolore, di reprimerlo, e nell’oblio ho cercato la salvezza. Però ogni volta che credevo di aver rimosso tutto, i ricordi riaffioravano a rammentarmi che da qualche parte dentro di me c’erano ancora e che mai e poi mai avrei potuto dimenticarli.

C’erano i ricordi, e le persone intorno a me a rammentarmi… Ricordo che al primo anno di università una mia amica mi disse: “Nermina, hai degli occhi così tristi. Non me la sento di dirti qualunque cosa perché ho la sensazione che, in ogni momento, tu possa metterti a piangere, oppure che tu abbia appena finito di piangere”. Io ovviamente dicevo che non era vero. Non so se sono riuscita a mentire agli altri o se mentivo solo a me stessa, perché gli altri riuscivano a cogliere la tristezza che mi inondava. Con tutta la mia forza ho cercato di dimenticare quello che è successo, non volevo vivere nel passato, volevo soltanto un’infanzia normale come tutti i miei coetanei. Però una cosa non riuscivo a capire; che la mia vita è segnata: è stata travolta da un enorme dolore e amarezza che né allora né adesso mi permette di avere una vita spensierata come i miei coetanei di quei paesi che non hanno vissuto le atrocità della tragedia di Srebrenica. Come se le mie sofferenze non fossero incominciate quando iniziò la guerra. Anche se siamo stati costretti a fuggire e non avevo più una casa e avevo fame, avevo però il mio babbo, la mia famiglia. Noi sei figli, con il babbo e la mamma eravamo sopravvissuti nei giorni della guerra ed eravamo contenti, per quanto era possibile, perché avevano l’un l’altro, ci supportavamo a vicenda e in qualche modo era più facile sopravvivere. Non so perché, però sono sempre stata più legata al babbo. Andava orgoglioso di me a scuola e quando tornava da un'udienza era sempre contento. Era orgoglioso della sua figlia più grande e anch’io ero orgogliosa che lui fosse il mio padre.

 

Adesso i ricordi di quei giorni riaffiorano come offuscati nella nebbia. Le granate, la fame, il nascondiglio, e i bambini che giocano nonostante tutto. Non vedevamo l’ora che venisse quell’estate del 1995. Infatti quell’anno c’era sia frutta sia verdura e anche la fame si faceva sentire di meno. Quello che ricordo di più sono i mirtilli. Ogni mattina insieme alle mie sorelle andavamo a raccogliere i mirtilli che erano la medicina della mamma, e in più ci si poteva fare anche la marmellata che a noi piaceva tanto. In quei giorni la maggior parte del lavoro casalingo era nelle mani del babbo, che lo svolgeva con disinvoltura per facilitare le cose alla mamma che era malata. Lavorava, cucinava, non si lamentava, tutto quello che voleva era fare al cento per cento quello che faceva la mamma. Adesso a pensarci bene mi sembra che quel ruolo gli piacesse, come se avesse avuto il presentimento che non sarebbe stato con noi ancora a lungo e per questo voleva lasciare la sua immagine il più possibile impressa nei nostri ricordi. Però una mattina, anziché essere svegliate dalla mamma, siamo state svegliate dagli scoppi delle granate che provenivano da tutte le parti. Avevano iniziato a lanciare le granate sulla città. Non c’erano più le nostre grida di gioia ma soltanto le urla di dolore e paura per quello che ci si aspettava; allo stesso tempo c'era anche la speranza e la fiducia che la comunità internazionale ci avrebbe protetto, aiutato e salvato. Nulla di tutto questo è successo. Questa Europa, la comunità internazionale e tutti quelli che ci potevano aiutare sono diventati sordi e sono rimasti da qualche parte, lontani, con le braccia conserte e senza neanche un briciolo di pietà.

Mentre cadevano le granate, noi fuggivamo nei nascondigli, con la speranza che qualcuno sentisse le grida d’aiuto di Nihad Nine Ćatići, l’unico che informava via radio da Srebrenica e che supplicava affinché qualcuno trovasse un po’ di pietà nell’animo per salvare i bosgnacchi di Srebrenica dai nemici, dai sanguinosi carnefici. Però nessuno lo ha ascoltato. Per sei giorni le granate sono cadute incessantemente e, quando pensavamo che tutto fosse finito, la mamma finalmente ci preparò il pranzo. Che profumo di pane bianco veniva dal forno. E noi bambini aspettavamo con impazienza che la mamma ci desse il pezzo che ci spettava. All’improvviso abbiamo sentito degli spari, come mai prima d’allora. Abbiamo solo sentito che dovevamo scappare perché i Četnici erano già arrivati in città e che anche UNPROFOR si stava ritirando. Noi siamo partiti, ma il pane è rimasto nel forno, nessuno lo ha mangiato. Siamo scappati ancora affamati e, mentre scappavamo, pensavamo al pane che avevamo lasciato. Siamo scappati non sapendo che stavamo andando incontro all’inferno. Abbiamo sperato nell’aiuto di chi invece ci ha tradito, delle anime vendute. So che quella notte ho dormito con i miei dalla sorella del babbo, e all’indomani… quel giorno non lo dimenticherò mai… la separazione dal babbo. Ancora non mi rendevo conto che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrei sentito il calore del suo sguardo e del suo abbraccio.

 

Nermina Dautbašić è nata il 20.09.1982 a Brezovica, nel comune di Srebrenica, dove ha vissuto dal 1993 durante l’assedio della città considerata “zona protetta dall’Onu”. Nel luglio 1995 fu costretta a fuggire da Srebrenica. Nel genocidio perse il padre e molti altri parenti. Tra il 1995 e il 2006 ha vissuto nel cantone di Tuzla con la madre, i fratelli e le sorelle. Dopo essersi laureata alla facoltà di Scienze Matematiche e Naturali di Tuzla, nel 2006 è torna a Srebrenica, dove tuttora vive e lavora. Dopo 13 anni dal genocidio è ancora alla ricerca delle ossa di suo padre.

 

(Traduzione Azra Fetahovic)

 

Storia di  Azir Osmanović: Io e il genocidio

La dichiarazione dei Diritti dell’infanzia riconosciuta dall’Assemblea delle Nazioni Unite nel 1989 ed entrata in vigore nel 1990, sancisce che tutti i bambini hanno il diritto al gioco, alla scolarizzazione, alla socialità e al divertimento. Hanno diritto ad essere difesi per primi e protetti qualora ne abbiamo bisogno. Hanno il diritto di crescere in un mondo di comprensione, amicizia, sicurezza e pace.
Sono parole scritte bene, ma io da bambino non ho mai goduto di questi diritti.

I miei genitori non ne hanno colpa. O forse sì, ma solo perché si chiamano Aziz e Ahmija e perché mi hanno cresciuto al confine con la Serbia. Mi hanno fatto nascere a Lješkovik, vicino a Srebrenica nel 1982 e lì abbiamo vissuto fino all’inizio dell’aggressione alla Bosnia Erzegovina.

Spesso mi chiedo se ho avuto un’infanzia. Non ho pensato a questi diritti quando è iniziata l’aggressione al nostro paese. Pensavo solo come sopravvivere dall’oggi al domani.

Le prime granate lanciate dalla Serbia (sì, avete letto bene, dall’odierna Repubblica di Serbia, vicino al Parco nazionale Tare) per me erano un fenomeno strano. Mentre gli aggressori serbi aggiustavano la mira, i nostri genitori hanno avuto il tempo per spiegarci che cosa era la guerra, che cosa era la granata e perché a qualcuno interessava sradicare da lì un popolo.

Per alcuni giorni le granate cadevano lontano dai villaggi, ma successivamente abbiamo dovuto nasconderci quotidianamente dai colpi di mortaio lanciati dalla Serbia, dalle granate che carri armati e obici lanciavano dal vicino colle, chiamato Jezero, dilaniando i villaggi e uccidendo civili.

Nel 1993 le forze serbe hanno catturato il villaggio e bruciato e distrutto tutto ciò che potevano distruggere. In quel periodo mio padre è stato ferito due volte. Siamo stati scacciati via dal villaggio, ci siamo diretti a Srebrenica, dopo una sosta di alcuni giorni a Pusmolići. Abbiamo proseguito dolo dopo che due miei cugini, di soli 15 anni di età, sono stati uccisi e mio fratello maggiore è stato ferito. Siamo andati a Srebrenica e abbiamo vissuto lì. Siccome da piccolo preferivo condurre una vita tranquilla e ritirata, senza rumori e casino, e siccome passavo molto tempo con il nonno, ho deciso di accompagnarlo al pascolo su di una collina sopra Srebrenica. Il nonno aveva un grande gregge e così papà gli ha dato in custodia anche i nostri animali. Sono rimasto con lui fino al 13 luglio 1995. Stavamo sul Kožlje, appena alcuni chilometri dalla base UNPROFOR, più esattamente a Zeleni Jadar e Boljega.
Mi sono molto spaventato quando è arrivata la notizia la notizia della presa di Zeleni Jadar da parte dei Serbi e che le milizie cetniche si dirigevano verso Srebrenica. Ho suggerito al nonno di lasciare lì gli animali e di andare in città poiché erano diversi giorni che non vedevo i miei genitori, i fratelli e le sorelle. Mi mancavano molto. Lui ha rifiutato categoricamente la mia richiesta. Ho visto un carro armato delle UN che si dirigeva con grande velocità dalla base Biljeg verso Srebrenica e che dalle posizioni dei cetnici si sparava in continuazione. Ho deciso di abbandonare il nonno.

Scappando in mezzo ai ruscelli, nascondendomi dai frammenti di granate che setacciavano tutto fino a Srebrenica, sono arrivato fino a Bibići dove tenevamo gli animali. Ho visto un carro armato delle UN che spaccava uno steccato di legno e poi dirigersi velocemente verso Srebrenica, lasciandosi dietro un grande numero di donne, bambini e anziani che vivevano in quella zona. Spaventati, sono partiti anche loro verso Srebrenica ma le truppe olandesi li hanno lasciati in balia degli aggressori. Sono andato verso la casa e ho aspettato. Il nonno è arrivato poco dopo ma non mi ha detto nulla.

Stavamo zitti e ci guardavamo l’un l’altro. Abbiamo passato un giorno terribile. Mi sembra di sentire anche oggi i fischi dei colpi sparati da diversi tipi di armi che ci passavano sopra la testa. I rami degli alberi tagliati dai proiettili mi sono rimasti ben impressi nella memoria.

Siccome il fronte dei cetnici era stato spostato più vicino a Srebrenica non potevamo rimanere in casa per la notte. Ci siamo spostati fuori, 300 metri più vicino alla città, sotto una quercia sopra Zabojna. Nella notte fonda abbiamo sentito qualcuno che si avvicinava. Mi sono spaventato a morte. Quando un cugino e uno zio ci hanno fatto cenno, era come se una enorme montagna si staccasse da me. Mi stavo rallegrando all’idea di tornare con loro in città, ma con mio grande stupore ho capito che non si poteva. Anche loro sono rimasti con noi fino all’alba. All’alba ci hanno svegliato i rumori e le grida degli animali. Hanno percepito anche loro che qualcosa di terribile stava per succedere. Il fronte della guerra continuav ad avanzare. La situazione diventava sempre più tesa.

Nel pomeriggio ho visto un gruppo di uomini che passava sul colle vicino. Ho detto al nonno che secondo me erano i cetnici ma lui era convinto fossero dei nostri. Quando questo stesso gruppo ha dato fuoco ad una stalla abbiamo avuto la certezza che fossero i cetnici. Spaventatissimo, sono scappato di nuovo dal nonno verso la città dove c’erano i miei genitori, i fratelli e la sorella. Da Kazan sono arrivato fino alla pompa della benzina. Il pianto e le urla che sentivo mi creavano terrore, io che avevo solo 13 anni. C’era una grande concentrazione di persone in uno spazio piccolo. Quelli che sono venuti dalle zone di periferia e dai villaggi volevano fermarsi lì. I miei allora vivevano nella parte bassa della città che era stata evacuata. Ho dormito dai parenti non sapendo dove era il resto della mia famiglia. Immaginando però dove trovarmi mio papà è venuto a prendermi la mattina presto. Avevano passato la notte all'aperto, davanti a casa. Lunghe colonne di donne e bambini si sono dirette verso Potočari, mentre gli uomini in forza sono andati verso sinistra, nei boschi. Mio padre e il mio fratello di sedici anni hanno recitato alcuni passi del Corano e piangendo ci hanno salutato lasciando Srebrenica. Da allora non li ho più rivisti. Molte persone si abbracciavano in lacrime nel salutarsi.

Quello che mi ha colpito di più sono state le lacrime dello zio di papà, Idriz. Lui era un hodža, un rappresentate religioso islamico, ed era uno degli uomini più rispettati in città. Quando andavo alla scuola islamica ero il suo cocco. Forse perché studiavo diligentemente. Separandosi dai figli piangeva come un bambino. Allora mi sono messo a piangere anch’io. Idriz voleva il perdono dai propri figli. Anche se ero solo un bambino, ho capito allora che eravamo ad un passo dalla morte. Con mia madre, mia sorella e il fratellino più piccolo ci siamo diretti verso la base UNPROFOR di Potočari. Con noi c’erano anche il nonno e la nonna. L’arrivo a Potočari è stato molto scioccante per me. Le urla, la confusione, il pianto e le grida dei bambini piccoli erano mescolati con i fischi dei cecchini provenienti dai colli circostanti. Ci siamo nascosti sotto una roulotte di un camion guasto perché nella cerchia della base UNPROFOR non c’era più posto. C’era la luna piena e sembrava fosse giorno. Ogni sguardo era visibile. Se fossi stato in un altro posto, in un altro contesto, avrei detto che era una magnifica notte. Mia madre era così preoccupata ed impaurita per noi che si è come persa. Ha cominciato a balbettare e a gemere. Abbiamo fatto fatica a calmarla e salvarla.

Diceva: “ecco, stanno bruciando i bambini, sentite come piangono, adesso massacreranno anche noi…”. Ero impaurito e non sapevo che fare. Adesso so che il tutto era la conseguenza delle storie che la gente raccontava di aver visto o vissuto. Allora, ho dovuto prendermi la responsabilità di occuparmi di mia madre, del fratello e della sorella. Era la follia totale. Proprio così. Non trovo un altro termine per descrivere quella situazione. Succede tutto in un unico momento: da qualche parte la vita comincia, da un‘altra si spegne; qualcuno nasce, altri muoiono; alcuni gioiscono, altri si rattristano; alcuni ridono, altri piangono.

Alla mattina del 12 luglio non avevamo nulla da mangiare. Verso le 10 sono andato con un mio cugino a cercare qualcosa da mangiare nelle case circostanti. Abbiamo trovato due galline. In quel momento sono passati due soldati serbi e ci hanno chiesto cosa stavamo facendo. Gli abbiamo risposto che stavamo cercando del cibo. Sono passate anche due signore vestite con le loro dimije, il tradizionale costume popolare bosniaco – musulmano, e i cetnici ci hanno ordinato di ritornare. Visto che il mio cugino indossava la maglietta della squadra di calcio della Jugoslavia, gli hanno chiesto per chi tifasse. Lui, tutto spaventato, ha detto: ”Per voi”.

Quando siamo ritornati, abbiamo sentito che alcuni gruppi di donne e bambini sono stati trasportati nella direzione di Tuzla. Insieme al nonno siamo andati da un signore anziano per ascoltare le notizie e lui era circondato da moltissime persone. Tutti volevamo sapere la stessa cosa: qual è il luogo dove ci stavano trasportando? Quando si è saputo che i primi camion e autobus con la popolazione evacuata da Potočari erano arrivati nei territori controllati dalla Federazione della Bosnia e Erzegovina, le persone si sono “accanite” per salire sugli autobus.

Per tutto il tempo i cetnici passeggiavano indossando gli elmetti dei Caschi Blu e smistavano le persone che sembravano loro sospette. Siamo rimasti ancora una notte a Potocari. L’indomani ho insisto con il nonno perché convincesse la mamma e la nonna a dirigerci anche noi verso i camion. In realtà gli stessi cetnici e l’Unprofor ci dicevano che dovevamo abbandonare Potočari e ci spingevano verso i camion. Quando ho sentito che separavano i ragazzi sopra i 12 anni mi sono impaurito molto. Il mio aspetto, con indosso una maglietta verde, mi faceva temere che non avrei superato il controllo. Sembravo più alto vestito così. Ho indossato allora un maglione, nonostante fosse luglio e facesse molto caldo, solo per sembrare più basso. Così siamo partiti verso la fila delle persone che era selezionata dai cetnici, a gruppi da dieci, con l'intento di separare i maschi e portarli alla fucilazione. Mio cugino, sua madre, le due sorelle, la nonna, il nonno, la mamma dello zio ed io siamo passati con il primo gruppo mentre mia madre con la sorella e il fratello sono rimasti ad aspettare il secondo gruppo. Dahma, un ragazzo solo di un anno più anziana di me, è stato fermato dai cetnici e portato via con gli altri uomini. E’ stato portato via anche mio nonno. Visto che avevo molta paura, ho preso sottobraccio la madre dello zio, che aveva più di 60 anni e si muoveva con fatica, e tutto gobbo a testa bassa, l’ho aiutata ad andare verso il camion. Gli autobus erano pieni. La nonna ha provato a riprendere il nonno, ma l’hanno minacciata di morte ed è stata costretta a rinunciare. .

Visto che gli autobus erano pieni, abbiamo dovuto arrampicarci su un camion senza la copertura cerata. Passando per il paese Hranča, i serbi ci lanciavano le pietre, ci insultavano e ci dicevano: “Ecco, ora andate dal vostro Alija!”. Quando siamo arrivati a Kravice, abbiamo visto un gruppo molto grande di uomini segregati. Erano stati catturati nei boschi circostanti mentre tentavano di fuggire.

In quel momento alcuni cetnici sono saliti impetuosamente sul camion imponendoci di consegnare loro tutti i soldi e l’oro che avevamo con noi. E dicendo che più avanti, a Lukama, ci avrebbero spogliato nudi e ci avrebbero tagliato le dita delle mani e dei piedi se trovano qualcosa. Abbiamo subito consegnato i pochi soldi che ci erano rimasti. Erano cifre minime perché chi aveva un po’di soldi lí aveva quasi tutti utilizzati per comprare un po' di pane. Poi abbiamo proseguito e mia sorella si è messa a piangere. Aveva infatti, nascosto nelle scarpe 30 KM che papà aveva dato alla mamma perché ci comprasse qualcosa da mangiare prima dell’arrivo a Kladanj. Lei ora aveva paura che ci uccidessero e allora ha buttato via i soldi in strada. Quando siamo arrivati a Lukama, nessuno ci ha perquisito. Mentre scendevamo dal camion, i cetnici ci hanno avvertito di non camminare lungo il ciglio della strada perché c’erano le mine. Solo adesso capisco completamente quell’avvertimento, allora l’avevo inteso così come l’ho scritto.

Sulla strada abbiamo incontrato una signora, già negli anni, completamente nuda e piena di sangue. Nemmeno ora so cosa le fosse successo. Mi chiedo spesso perché era ricoperta di sangue.

Il passaggio del tunnel e l’incontro con i soldati dell’Armata della Bosnia Erzegovina ha significato per noi la liberazione. Semplicemente, ricominciavamo a respirare.

L’accampamento vicino a Ravno ci è servito come momento di riposo per continuare il viaggio verso Dubrave, vicino Tuzla. Anche questa è stata una fermata provvisoria perché già l’indomani siamo stati trasferiti a Ðurđevik, vicino a Živinice.

Un’aula scolastica, per una cinquantina di persone, era la nostra nuova casa. Era il tempo dell’attesa. Avevo solo due domande nella testa: se papà e il fratello erano ancora vivi e se li avrei rivisti. Esattamente due mesi dopo la caduta di Srebrenica, ho rivisto papà, ma non mio fratello che non ho più riabbracciato. La tragedia familiare si è aggravata quando mio fratello più piccolo si è suicidato, a undici anni, per le conseguenze dei traumi subiti durante la guerra. Così, dei quattro figli dei miei genitori, siamo rimasti ora solo mia sorella ed io.

Le conseguenze della guerra si sono manifestate molto sulla mia salute fisica e psichica. Anche se a questa città mi legano i ricordi più terribili, ho deciso di vivere di nuovo qui.

Spero che i miei fratelli siano felici di questa mia decisione perché sono tornati nella città dalla quale loro erano stati cacciati solo perché si chiamavano Azmir e Alaga.

 

Azir Osmanović è nato il 3 giugno 1982 nel villaggio Lješkovik, nel comune di Srebrenica. Durante la guerra ha vissuto a Srebrenica assediata ino all’11 luglio 1995.
E’ sopravissuto al genocidio ma via ha perso numerosi familiari. Ha frequentato il liceo a Zavidovići e si è laureato in storia presso il dipartimento di Storia alla Facoltà di Filosofia di Tuzla. E' tornato a vivere a Srebrenica e lavora come storico al Memoriale di
Potočari.

E’ presidente del MDD “Merhamet” e vicepresidente dell’associazione comunale “Preporod” di Srebrenica.

 

(traduzione di Ajna Galicic)

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