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Massimo Cacciari: Profezia e politica in Alexander Langer

27.4.2004, UNA CITTÀ n. 120 / aprile 2004
C’è una domanda drammatica che corre lungo tutti gli scritti e la vita di Alexander Langer: non è che stiamo distruggendo tutte le nostre possibilità di convivenza? Relazione tenuta a Cesano MAderno.

La convivenza però contiene due aspetti: la convivenza tra di noi -quindi tra culture, lingue, tradizioni- e la convivenza tra noi e la natura. Ma quest’ultima non è la convivenza con un altro, è la convivenza con la nostra stessa dimensione naturale. Questo è l’atteggiamento che distingue radicalmente Langer da un certo ambientalismo, che continua a considerare la natura come una cosa che sta di fronte a noi. No, la natura è “noi e la natura”, “noi e le cose”. Non vi è “l’uomo e la natura”.
Allora, anche quando commettiamo le peggiori nefandezze, non sono degli extra-naturali a commetterle, ma quelle componenti della natura che noi rappresentiamo, perché il nostro cervello, la nostra mente, la nostra anima, esattamente come il nostro corpo, fanno parte integrante della natura. E quindi quando questa mente, questo cervello, quest’anima, distruggono la natura, è una parte della natura stessa a distruggersi.
E’ evidente allora che bisogna armonizzare e far convivere queste nostre due dimensioni. La nostra malattia consiste infatti nel volerle distinguere e separare. Ma mentre distinguerle è un esercizio di analisi che può diventare positivo, separarle astrattamente, porre una morta separatezza tra le due, è micidiale, distrugge e mente e corpo e anima e natura.
Nel caso di Langer, perciò, io non parlerei di ecologia e di ambientalismo, ma userei un termine più forte: “etologia”, che comprende quell’aspetto che noi colloquialmente e approssimativamente definiamo ambiente. L’ethos quindi inteso come il nostro dimorare nella natura, il nostro caratterizzarci come elementi della natura, che vivono armonicamente con gli altri elementi naturali.
Per Langer dunque la vita è fondamentalmente intesa come convivenza. Laddove tu non sai convivere, non sai nemmeno vivere, perché vivere è convivere. Ed è questa visione del mondo che non definirei semplicemente ambientalismo o ecologia, ma, appunto, etologia, un termine senz’altro più forte e carico di conseguenze anche a livello pratico-politico. Laddove, infatti, un semplice atteggiamento ambientalistico può correre il rischio di cadere in una sorta di “fondamentalismo”, l’atteggiamento etologico considera le nostre pratiche, il nostro carattere, il nostro ethos come funzione ed elemento dell’insieme della natura, in tutta la contraddittorietà di questo rapporto ma anche in tutta la sua necessità. E non ci sono scorciatoie: è un problema che va assolutamente affrontato. Detto in altri termini, l’etologia, nel pensiero di Langer, si caratterizza come una scienza, o forse come un’arte, del convivere, dell’abitare, del dimorare, dell’aver casa insieme ad altri, nella natura, con la natura, come natura.
Langer era anche animato, come si vede dai suoi scritti, da un certo disincanto ma anche da una grande speranza. Ed è difficile dire se questa sua speranza, contemporaneamente fondata e disincantata, possa ancora avere la possibilità di realizzarsi; la nostra storia -gli ultimi avvenimenti lo stanno tragicamente dimostrando- va veramente in una direzione, ahimé, completamente diversa. Credo che Langer stesso avvertisse con crescente drammaticità la distanza fra le sue speranze e la realtà, e non soltanto per quanto riguarda le tragedie che stiamo vivendo, e che minacciano di distruggere ogni reale convivenza tra popoli e culture, ma anche nei nostri rapporti con la cosiddetta natura.
Che cosa intendo dire? Che così come pare sempre più difficile realizzare una reale convivenza tra uomini, tra culture, tra linguaggi, tra tradizioni, tra religioni, parimenti stiamo vivendo -e non è un caso- il nostro rapporto con la terra, intesa proprio come Gaia, come limite e prigione. E anche qui c’è un perfetto parallelismo di cui Langer è ben consapevole.
Certo si dirà: è la cultura occidentale, quella europea. Ma ci piaccia o no, la cultura europea, la cultura occidentale, sono assolutamente dominanti nel mondo contemporaneo. Certo, potremmo fare riferimento alle statistiche: siamo seicento milioni su sei miliardi. Ma non c’è alcun dubbio che l’Occidente, le sue idee, la sua tecnica, la sua scienza, siano dominanti. Ed è con questo primato che occorre fare i conti.
E questa cultura, che sente la terra come limite e prigione, si sta muovendo impetuosamente, voracemente, febbrilmente -febbre intesa proprio nel senso di insania, di malattia- verso l’utopia, verso l’illusione, verso il sogno, verso l’incubo -chiamiamolo come vogliamo- non tanto di una sempre più onnivora trasformabilità della natura, ma proprio verso una sorta di neo-natura, con la creazione di una “sua” natura. E infatti, tutto il dibattito che Langer aveva seguito sulle biotecnologie sta diventando ogni giorno più febbrile e ingovernabile: accanto ad una dimensione che conserva una parvenza di scientificità, di comprensibilità, che usa un metodo, dei concetti, dei parametri che ci possono sembrare usuali, si viene sempre più prepotentemente elaborando un’idea della terra intesa come limite, come ostacolo, come prigione da superare. Stiamo andando proprio verso una neo-natura. Ed è, questa, una corrente impetuosa, che non possiamo non sentire, una corrente sempre più autoreferenziale, che si misura sempre più sul suo successo. La sua verifica è: l’ho realizzato, ho avuto successo, quindi significa che è possibile. Diceva Paul Valery: “L’uomo è quell’animale che, prima o dopo, statene certi, realizzerà sempre ciò che sogna”. Profezia preoccupante, ma certamente fondata, perché finora si è realizzata. Abbiamo realizzato ciò che abbiamo sognato: miraggio, incubo, delirio, meraviglioso sogno, ad ognuno secondo i suoi gusti.
E oggi cosa stiamo sognando? La convivenza? L’armonia, nel senso forte -non sentimentale- che gli aveva dato Langer? O stiamo sognando di trasgredire questa prigione, questa terra così pesante? In altezza, in profondità, in abisso. Ma che fastidio, che limite avere questa superficie, questa radice! Muoviamoci! Non è, appunto, l’epoca dell’universale Mobil ist Gut, muoversi è tutto?
Questi sono il dramma, il conflitto. Ma questa è anche la difficoltà della sfida che personalità come quella di Langer ci hanno lanciato. Perché è facile fare prediche, fare i sentimentali e i retorici sull’ambiente, sulla tolleranza e sul rispetto reciproco; Langer infatti se ne guardava bene. Più difficile è capire se questi obiettivi sono declinabili in modo realistico, compatibile cioè con una cultura generale, proprio nel senso antropologico del termine. Comprendere se queste idee sono coerenti e compatibili con la cultura generale che si sta affermando, forse non in tutto il mondo, ma in quel 10% del mondo che ne determina i destini. Perché certamente i futuri destini non saranno certo determinati dal Tibet o dall’Iraq, ma, anzi, da quel 10% del 10% costituito dagli Stati Uniti d’America.
Abbiamo quindi una grande responsabilità. Il titolo di questo incontro parla di politica e di profezia. Non so se il termine sia coerente, corretto, ma certamente il profeta è essenzialmente colui che chiama alla responsabilità, che si rivolge a tutti noi dicendo: “Rispondete!”. Questa è la Verantwortung, la responsabilità.
“Oh? Ce l’hai la risposta?” . “Devi cercare di rispondere!”
Adesso, ad esempio, c’è una grande retorica sull’ascolto. Sembra che un politico sia bravo quando ascolta. Adesso ascoltiamo, facciamo un sondaggio… No, un politico è bravo quando risponde.
Allora il profeta è qualcuno che dovrebbe ascoltare “una voce”, più che la nostra, e trasmetterla. A prescindere dalla dimensione propriamente religiosa, che non è certo astraibile dall’idea di profezia, il profeta è essenzialmente colui che ti chiama ad essere responsabile, a cercare disperatamente di dare una risposta. Ma l’appello alla responsabilità è un appello di straordinaria pregnanza e difficoltà, perché chiama davvero ad una rivoluzione culturale, ad un nuovo ethos, ad agire affinché questa nostra cultura dominante possa trasformarsi. E senza prediche, appunto.
Io credo che le due cose in Langer vadano di pari passo: il suo l’appello alla responsabilità per la convivenza fa davvero tutt’uno con la testimonianza propriamente ecologica, ambientalista. Sono davvero due facce della stessa medaglia. Certo, forse a noi oggi appare più impellente la domanda sulla convivenza. Langer veniva dall’esperienza in Sudtirolo, ma per quanto lì i problemi fossero -e restino- estremamente difficili, è chiaro che i problemi all’interno delle regioni e delle nazioni europee sono stati spesso più drammatici. Langer è stato tra l’altro uno tra i primi a porre la questione dell’ “Euroregione”, un’importantissima questione praticamente scomparsa dalla bozza di Costituzione europea di cui stiamo discutendo, e sulla quale anch’io mi sono invano battuto; cioè che all’interno della Costituzione europea ci fosse l’idea, non soltanto di un “assemblaggio” degli Stati, ma una larga possibilità delle regioni europee di dar vita ad accordi, ad organismi, a forme organizzative trans-regionali, trans-nazionali e trans-frontaliere. E la Val d’Aosta o l’Alto Adige-Südtirol sarebbero state terre formidabili per la sperimentazione di forme che abbattessero i confini di quelli che Nietzsche chiama “i gelidi mostri”, gli Stati nazionali. La Costituzione europea che si andrà, speriamo, ad approvare, non tocca assolutamente queste questioni davvero innovative, che sono alla base di un nuovo e autentico federalismo. Langer fu uno dei primi a porre in questi termini anche la questione di una nuova Costituzione europea, nel senso reale e non giuridico/formale del termine.
Quindi per noi oggi sono più importanti queste questioni di convivenza. E il modo, filosofico e culturale, in cui le poneva Langer, è per me di grande interesse. E anche qui Langer non si nascondeva la difficoltà, come fanno invece, spesso, i politici con qualche battuta retorica, con qualche “facciamoci coraggio, e avanti, e i problemi scopiamoli sotto il tappeto che nessuno li veda”. Come l’ubriaco che canta di notte per farsi coraggio. Da un lato l’idea di convivenza può reggersi soltanto su una dialettica di riconoscimento reciproco. Se manca questo, se manca una qualche speranza di reciprocità, hai voglia di praticare l’arte della convivenza! Ma d’altra parte, guai ad intendere l’arte della convivenza come un’ammucchiata, una sorta di reductio ad unum in cui tutti noi perdiamo i nostri luoghi per ritrovarci in una terra di nessuno, in una cultura di nessuno, in una melassa indistinta in cui ognuno perde il proprio carattere. Questa è una prospettiva di omologazione universale, una traduzione secolarizzata delle religioni naturali, che non sono mai esistite, se non nella testa di qualche filosofo, e mai ci saranno.
Quindi da un lato reciprocità del riconoscimento, dall’altro identità. Questo è il grande problema della convivenza oggi: mantenere insieme e armonizzare identità e riconoscimento dell’altro. Guai a dimenticarsi l’una o l’altra cosa: tutto sembra diventare semplice, ma è falso e, alla lunga, impraticabile. E questa è di nuovo una lezione di realismo e di profezia laica di Langer. Langer usa delle espressioni, dei termini molto felici per indicare questo gioco, quest’arte. Ma arte nel senso più forte del termine, nel senso di ars, che è la stessa radice di armonia. Quando parla dei soggetti di confine, mi pare usi il termine Grenzgänger, gli esploratori di frontiera, ossia coloro che mantengono il loro carattere, la capacità di stare tra i confini, di trasgredire -per usare un termine evangelico- la compattezza etnica, senza tenere la propria identità come una proprietà gelosamente chiusa. L’identità è tale nella misura in cui riconosce in sé, per sé, la necessità della relazione con l’altro: io sono davvero me stesso quando trovo necessario, per definirmi, la relazione con l’altro da me; il dialogo con l’altro da me è necessario affinché io possa definire la mia identità. Non sarei me stesso senza questo rapporto, senza questa relazione, senza passare costantemente, da Grenzgänger, dalla parte dell’altro. Ascoltare le ragioni, mettermi in discussione con lui, affrontare questo pericolo, ben sapendo che ogni contatto è un pericolo.
Un filosofo di confine, Langer. Un uomo di cultura di confine, un politico di confine. Ma che cos’è il confine? E’ quella linea immaginaria che ci deve essere sempre. Tutti noi abbiamo un confine, possiamo dimenticarcelo? Possiamo fare un discorso assurdo, caramelloso e buonistico, dicendo che non ci sono confini? Ma come possiamo farlo se siamo confinati noi per primi? Non è forse un confine il mio corpo?
Il problema, certo, è riconoscere il nostro confine, capire che il confine è precisamente quel punto estremamente pericoloso in cui io tocco l’altro, entro in relazione con lui, corro il pericolo di toccare e di essere toccato, di ferire e di essere ferito. Il confine è il cum. Non è la barriera che mi isola: è quella linea che mi mette cum, “insieme”. E’ quell’istante, quella linea grazie alla quale io sono con l’altro. E quindi, da questo punto di vista, Langer è uomo di confine, perché riconosce, è consapevole, che la propria identità è proprio lì dove tocca l’altro, dove lo riconosce, dove avviene la presenza dell’altro. E’ lì, in quell’evento, nella presenza dell’altro, che io sono me stesso.
Tutto ciò è molto importante, ma nello stesso tempo estremamente difficile, difficile anche da pensare, non solamente da praticare. Certo, però, che se non lo pensiamo non lo praticheremo mai. Quindi dobbiamo pensarlo, ma dopo dobbiamo pensare anche che è estremamente difficile praticarlo. Praticarlo significa andare controcorrente. La corrente fondamentale è quella che vede il confine come ciò che ci separa e ci divide, e l’identità come un nostro possesso, egoistico, chiuso, geloso. La corrente fondamentale è quella che vede Gaia, la natura, la terra come un ostacolo, come un impedimento, come qualcosa che dobbiamo, ahimè, sopportare perché chissà quando riusciremo a colonizzare l’universo! Questi sono i sogni che stiamo sognando. Quindi è un pensiero difficile da pensare,e ancora più difficile da praticare. E credo davvero che sull’enorme difficoltà di tutto ciò che Langer aveva pensato e cercato di agire, si sia anche consumata la sua esperienza, non soltanto di uomo di cultura, ma anche di uomo.


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