Alexander Langer Alexander Langer Racconti e ricordi

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Umberta Biasioli: la nonviolenza di Alexander Langer

1.1.1996, da "Azione nonviolenta", gennaio-febbraio 1996
"Sappiamo che, nella realtà, è raro poter attribuire a un'unica semplice causa i gesti suicidi. Sono sovradeterminati. Il presente oppressivo (interpretato come oppressivo) e il passato mai dimenticato, le circostanze "esterne" e le disposizioni "interne", la scelta premeditata e gli impulsi improvvisi, si combinano tanto intimamente che è difficile, per chi sopravvive, pretendere di sapere perché un uomo si è ucciso. Si cerca una causa, una chiave: se ne trovano troppe. Il campo è aperto alle ricostruzioni interpretative". (Jean Sarobinski, La spada di Aiace, 1968, 1978).

Credo anch'io che, di fronte alla scelta di Alexander, l'unico atteggiamento corretto sia l'accettazione e il rispetto. E il silenzio. Ma non posso condividere la lettura che ne è stata data da Stefano Benini, Mao Valpiana e Michele Boato in due articoli, comparsi, l'uno su Azione nonviolenta dell'agosto/settembre scorso, l'altro su il Manifesto del 10 ottobre. Gli autori leggono nel suicidio una scelta di violenza, quella violenza che Gandhi preferiva comunque all'ignavia e che Alexander aveva proposto anche per la ex-Jugoslavia in varie occasioni. "Allo stesso modo, piuttosto di accettare passivamente lo smarrimento, la solitudine, la disperazione, nella quale si sentiva precipitato, ha preferito scegliere la dolorosa strada della violenza. Con drammatico coraggio ha fatto violenza a se stesso: il coraggio del nonviolento quando è costretto, dai limiti umani, alla violenza".

È vero che Alexander Langer rifiutava la "neutralità disarmata" dell'Europa nei confronti della guerra nazionalista ed etnica; che aveva auspicato, con sofferta angoscia, un intervento militare per porvi fine. Come "donne in nero" l'abbiamo spesso incalzato su questo punto, per la consapevolezza del danno irrimediabile, delle lacerazioni, delle sofferenze inutili che l'uso delle armi comunque comporta, consapevolezza maturata "sul campo", attraverso il nostro lavoro in quelle regioni, i legami profondi che da tempo ci stringono alle donne che là si rifiutano di esserne vittime, lavorando in mille modi contro la guerra. Pur rimanendo sulle sue posizioni, Alexander ci ascoltava. Ma proprio nei giorni in cui mi confessava, ritornato dalla manifestazione a Cannes, nel giugno scorso, di essere precipitato in un baratro profondo, in un abisso, pur se il documento presentato ai Capi di Stato là riuniti chiedeva il riconoscimento di aggressori ed aggrediti, di criminali e vittime, il testo da lui diffuso e pubblicato subito dopo, Morire o rinascere a Sarajevo, non parla di intervento armato, ma di altri modi concreti con cui l'Europa può contribuire a fermare le ostilità e favorire il ritorno alla convivenza: l'offerta di integrazione nella propria Comunità, il sostegno a chi decide di dialogare, alle reti organizzate che ricostruiscono legami, alla prevenzione di ulteriori conflitti, per concludere con l'auspicio di un corpo civile europeo di pace, formato da coloro che già lavorano in questo senso e per il quale si era anche pronunciato il Parlamento Europeo il 18 maggio. tutto questo mi sembra, alle soglie della decisione ultima di Alex, con l'angoscia che aveva in cuore, un concreto rifiuto della violenza, anche di quella che i miei interlocutori definiscono "nonviolenta".

Ma non intendo polemizzare. Rifiuto soltanto di vedere nel gesto di un amico una disperata scelta di violenza contro se stesso. Per questo vorrei che si tornasse a leggere, nella sua lingua, l'ultimo messaggio da lui lasciato: "Ich derpacks einfach nimmer" "semplicemente non ce la faccio più". A me sembra solo una confessione di stanchezza, di stanchezza infinita. Che veniva da lontano. Parlando di Petra Kelly parlava di sé, come ammetteva, confermando una mia lettura di quell'Addio. E aggiungeva, poco tempo dopo: "Vivo una situazione di bancarotta interiore, e di dolore...che mi sta portando al limite della sopportazione. Non so se sarò capace (avrò la grazia?) di venirne fuori...chiedo comprensione e perdono, e rinuncia. Non so ancora come sistemare i miei impegni "politici", persone e cause che "rappresento" e che non devono risentire della mia tristezza profonda". Anche con il suo ultimo gesto Alex ci chiede comprensione e perdono: "Bitte verzeiht mir alle auch diese Art des Weggehens" "vi prego di perdonarmi tutti anche il modo in cui me ne vado". Un modo, quello da lui scelto, segno di una disperazione senza ritorno: "So gehe ich weg als verzweifelter, der nicht mehr kann" "così me ne vado, disperato come più non si può". Del modo orribile con cui ci significa la sua disperazione, il modo orribile con cui se ne è andato ci chiede perdono, non del tradimento che vi legge Mao Valpiana: "Una corda e un albero per liberarsi dal peso dell'esistenza ricordano fin troppo la morte dell'apostolo che aveva tradito. E con quei tre biglietti lasciati alla moglie Valeria e agli amici, nei quali chiede ripetutamente "perdono", Alex ci vuol forse far capire che era cosciente di tradire la vita". "Anche", forse perché pensava che avessimo tutti qualcosa da perdonargli, lui che era sempre gravato da molteplici sensi di colpa. La disperazione che ci ha lasciato come ultimo gesto spesso era eco della disperazione degli altri che, a poco a poco, è finita per diventare la sua. Disperazione e, forse, rimpianto: "Vorrei essere quello di ieri, ingenuo e innocente, ma non si può". Forse, più che al racconto evangelico, io penserei a una pagina del Werther, appassionata e commossa giustificazione del suicidio come esito naturale di una malattia mortale dell'anima. O a Morselli, per il quale, se "la felicità non è un lusso", ma il sale della vita, il suicidio è la rinuncia ad una vita che ne è priva.

Alexander aveva descritto la fatica di questi ultimi suoi anni come la traversata di un deserto, un bianco, e freddo, deserto di neve. Un'immagine che compare sul finire dell'estate del '93, e che segna una sorta di frattura, il momento di una scelta nella cui radicalità, il deserto appunto, lui fidava, ma che non è riuscito a gestire. Deserto e corazze: "purtroppo vivo in un tale incrocio di dolori che non riesco né a dare né a ricevere quel che vorrei, ed ho deciso di usare e rispettare più di prima le corazze difensive del caso". Ha chiesto una lontananza rispettosa, dalla quale nessuno di noi è più riuscito a porgergli una mano. Pochi giorni prima, al telefono, mi ha detto tutta la sua angoscia; di fronte alla quale lui stesso mi aveva reso impotente. Lui, costruttore di ponti, uomo di confine, contrabbandiere che ha traghettato da una sponda all'altra tante diverse ricchezze, ha fatto del suo dolore una fortezza inaccessibile; e ne è stato vinto. Forse è vero che "il personale è politico", che quello che pratichiamo nella vita "pubblica" dovremmo accettarlo anche dentro di noi. Alexander, uomo dalle mille relazioni, non ha voluto "condividere" il suo male.

Chiedeva comprensione e perdono, e rinuncia. Ha finito per imporcela. Ci ha imposto di rinunciare a lui, al suo aiuto, alla sua comprensione, al suo ascolto, alla sua voce. Non è un tradimento; è una scelta unilaterale di solitudine definitiva. Ma, sottraendosi a noi, ci chiede di continuare in "ciò che era giusto", quindi di sentirlo vicino. Vorrei salutarlo con i versi che Auden avrebbe potuto scrivere anche per lui.

We, till shadowed days are done
We mast weep and sing
Duty,s conscius wrong
The Devil in the clock
The goodness carefully worn
For atonement or for luck;
We must lose our loves,
On each beast or bird that moves
Turn on envious look

Noi, finché i giorni d'ombra son maturi
noi dobbiamo piangere e cantare
del dovere il sopruso consapevole,
il Diavolo nell'orologio,
la bontà portata attentamente
per espiazione o per nostra fortuna;
Noi i nostri amori li dobbiamo perdere
volgendo uno sguardo invidioso
ad ogni animale o uccello che si muove.

traduzione di Gilberto Forti
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