Alexander Langer Alexander Langer Racconti e ricordi

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Federico Faloppa: Alexander Langer, non per il potere

3.7.2020, pagina facebook
 

Avrei voluto scrivere qualcosa di nuovo, per ricordare Alexander Langer a 25 anni dalla morte, il 3 luglio 1995. Ma non ho potuto farlo come avrei voluto: con la giusta attenzione, il giusto impegno, la giusta cura. Riprendo quindi una piccola vecchia cosa, scritta tempo fa: la mia introduzione a "Non per il potere", un'antologia di suoi scritti che curai nel 2012. In quelle poche righe cercai di raccontare perché Alex avesse per me quell'importanza, quell'originalità, quell'esemplarità. E perché risultasse così vivo, attuale, presente - con le sue idee e con le sue domande - anche a chi, come me, non lo aveva mai conosciuto.

Perché oggi (da "Non per il potere", 2012)

Ho la sensazione che un termine come «antipolitica», nel vocabolario di Alexander Langer, non sarebbe mai entrato. Non per una forma di snobistico diniego. Ma perché la politica era tutto (e tutto era politico). E non prevedeva un suo contrario, una sua negazione: neppure nelle sue forme più protestatarie, più radicali. Era cosa troppo seria, la politica, per generare
vuoti di idee e prospettive. E la sua lettura, troppo aperta, e complessa, per ridursi a sprezzanti arroccamenti da un lato, sbeffeggianti controcanti dall’altro.
Chi faceva politica come lui viveva di politica, per la politica, con la politica. Senza imprigionarsi in rigidi paradigmi, sul piano della riflessione. E senza risparmiarsi, sul piano dell’impegno.
Era, la politica, una scelta continua, vitale, necessaria. O almeno questa è la prima impressione (forte, persistente) che si ha quando ci si avvicina – attraverso i suoi scritti, attraverso le testimonianze delle persone che lo hanno conosciuto – a una figura come quella di Langer.
Personalmente, credo di ricordare quando mi sono «avvicinato» ad Alexander Langer. Dovevano essere gli anni Novanta: durante la guerra nella ex-Jugoslavia. Come molti, ascoltavo con un misto di incredulità, indignazione e rabbia le notizie provenienti dalla Bosnia. E – come molti – mi informavo, andavo a dibattiti, discutevo (tra amici, nei collettivi all’università, in famiglia). Leggevo, soprattutto. Tutti i giornali e le riviste che potevo. Non tanto per capire (come si poteva «capire» una carneficina, e l’indifferenza dell’Europa nell’assistervi?), quanto per sapere. Volevo obbligarmi a sapere. Fu così – credo – che incontrai per la prima volta il nome di Alexander Langer: leggendo uno dei suoi accoratissimi interventi a proposito di quella maledetta guerra.
Ho poi ritrovato il nome di Alexander Langer qualche anno dopo, quando acquistai, quasi per caso, una breve ma densissima antologia dei suoi scritti: La scelta della convivenza. Mi incuriosiva in particolare il testo da cui la silloge prendeva il titolo: quei Dieci punti per la convivenza interetnica in cui spunti e proposte, stilati proprio negli anni dei massacri in Bosnia (e frutto di esperienze politiche e umane reali, non di opachi accademismi), avevano la forza e l’urgenza del manifesto, in un’Europa che non poteva accettare la barbarie, e che doveva superare un concetto stagnante di identità, cercare il proprio principio costitutivo non nella distinzione dall’altro, ma nella relazione con l’altro.
A volerlo sfogliare, quel libretto permetteva anche a chi, come me, poco sapeva di Alexander Langer, e del contesto in cui si era formato e aveva militato, di cogliere, tramite una brillante narrazione autobiografica (quei Minima personalia che compaiono anche qui), un profilo che poteva apparire (stranamente) eterodosso sul piano politico, ma (straordinariamente) vicino sul piano delle sensibilità, delle inquietudini, delle domande fondamentali.
Da quelle letture, e dalle riflessioni seguite negli anni, è nata l’esigenza di proporre, con questa antologia, una traccia che possa dare a chiunque la possibilità di ricostruire, seppur parzialmente, una storia e – soprattutto – un modo di riflettere, di agire, di vivere politicamente. Un modo singolare, unico, irripetibile per scelte, rigore, coerenza, ma anche esemplare per la passione che accompagnò – lontano dai riflettori dei media, e dalle lusinghe del potere – Langer e tanta parte della sua generazione.
Certo, la selezione proposta in questo volume è necessariamente incompleta. Per fare due esempi, mancano qui brani dedicati al bilinguismo e alla situazione politica in Alto Adige (temi a cui Langer dedicò molte energie, e da cui trasse spunti fondamentali per l’elaborazione del suo pensiero: si pensi alla polemica sulla «schedatura etnica», o all’idea di plurilinguismo come pratica di convivenza), e si intuisce appena quel febbrile spasmodico attivismo «pacifista» – una vera e propria «alta febbre del fare», per citare il titolo di una silloge poetica di Pietro Ingrao del 1994 – che caratterizzò spesso il suo lavoro e la
sua vita tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta.
Si è cercato tuttavia di mettere quanto più possibile in luce sia la varietà degli interessi sia la qualità degli interventi di Alexander Langer. Una varietà e una qualità di contenuti, innanzitutto. Ma anche di linguaggio (un linguaggio non succube del discorso egemonico, anzi capace di promuovere nuove parole chiave), di stile (non da oratore ad effetto o da imbonitore in cerca di facile consenso, ma da competente interlocutore, che all’analisi faceva seguire la proposta, e che alle platee televisive preferiva il lavoro “sul campo”) e di metodo: un metodo «aperto», adogmatico, con cui tentare di integrare tutte le articolazioni di un pensiero critico che non faceva sconti a nessuno (tantomeno al suo artefice), in un percorso etico prima ancora che morale.
Perché la lezione di Alexander Langer – se soltanto di «lezione» si può parlare – è sì nei singoli contenuti (si prenda il grido d’allarme contro il «demone dello sviluppo», in tempi in cui la decrescita non era ancora di moda nei salotti della gauche caviar italiana; o la sincretica «conversione ecologica», che lungi dal vaticinare eco-dirigismi o dictat scientifici, implicava un coinvolgimento personale ed esistenziale profondo), e nel modo di interrelarli, presentarli, argomentarli: senza inutili orpelli retorici, con una sintassi chiara, con esempi comprensibili. Ma è anche nella visione d’insieme. Una visione d’insieme che non fosse generalizzazione, astrazione; piuttosto, l’acquisizione e comprensione dei casi particolari, della vita concreta, delle esperienze, nel tentativo di unire tensioni individuali a spinte e rivendicazioni collettive, all’interno di un’azione di largo respiro in cui ogni lotta potesse essere vista come il frammento di un quadro più nitido, di un progetto più ampio, di un’ambizione più alta. E dove alla politica non si chiedesse soltanto di amministrare, in silenzio, lo status quo, ma di scuotere le coscienze, di scuotere dall’incoscienza. E di rappresentare, chiedere, osare. Porsi e offrire una prospettiva. Con uno sguardo rivolto al futuro, e non schiacciato sul presente: come strumento del possibile, non (grigio) funzionario dell’utile. Ma c’è dell’altro. A (ri)leggere i suoi scritti, a volersi avvicinare alla sua biografia – così appassionatamente e riccamente ricostruita, tra l’altro, da Fabio Levi in In viaggio con Alex – il profilo del Langer politico si fonde con quello del Langer cittadino, la sua azione di militante alla sua indignazione (e al richiamo della dignità) di uomo: l’intensità e la forza della sua motivazione al timore di essere insufficiente, impotente di fronte all’incombenza delle sfide (e dei drammi) del pianeta («Io sono in grande e profonda crisi – scrisse di sé nel 1993 – ho davvero seminato troppe promesse ed acceso troppe speranze: non riesco a mantenere, sento l’angoscia dell’inadempienza ormai invincibile».
Tra le tante cose che – mi pare – Alexander Langer aveva intuito c’era infatti anche la consapevolezza che i fardelli non possono essere portati singolarmente: che le responsabilità, come le speranze, vanno sempre condivise, altrimenti se ne esce schiacciati,
«inadempienti». Che l’agire collettivo non è il traguardo: è semmai il mezzo per non stare a guardare, per «costruire ponti», per coltivare – e la concretezza della metafora non è casuale – l’utopia. Perché una società di persone sole, di consumatori bulimici, di spettatori assuefatti, dagli orizzonti corti e frammentati non soltanto è più fragile, più controllabile, più egoista e iniqua. È anche molto più triste. E se questo era vero per lui, lo è ancor di più per noi, per questo nostro tempo.

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