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Samir Galal Mohamed - I-migranti-sono-i-veri-contemporanei. Vivono-in-mezzo-ai-cambiamenti, senza-perdersi. Ricordando Alexander Langer.

3.9.2014, 29 Agosto 2014 . La Città nuova, Corriere della Sera, Milano

Vorrei fare un passo indietro e tracciare una linea che parta dalla volontà, da quella tendenza all’errare, fino ad arrivare all’elaborazione di pratiche culturali inedite attraverso le quali tornare a raccontare. L’individuazione del “chi” è però piuttosto complessa, complessa almeno quanto la ricognizione di nuove soluzioni formali. Chi, oggi, potrebbe farsi portatore di queste narrazioni?

C’è un aspetto che merita di essere di nuovo messo in luce: la nozione di contemporaneità. «La contemporaneità è, cioè, una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze […]». E ancora: «appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo. Coloro che coincidono troppo pienamente con l’epoca, che combaciano in ogni punto perfettamente con essa, non sono contemporanei perché, proprio per questo, non riescono a vederla, non possono tenere fisso lo sguardo su di essa.»

Ora, proviamo a leggere questa serie di definizioni – a prima vista oscure – redatte da Agamben, cercando di coglierne le implicite domande. Chiediamoci chi, per esempio, benché sia immerso in una società tecnologica (o ipertecnologica), mantenga con essa un legame consapevole ma distaccato, non del tutto aderente; chiediamoci chi, oggi, – non necessariamente per scelta – instauri una sorta di rapporto disgiunto con il proprio tempo; interroghiamoci su quanti siano non totalmente calati, ma risultino comunque partecipi di ciò che è stato chiamato «mondo, grande e terribile», qualcuno che ne condivida le tragedie, i suoi strappi esistenziali e sociali.

Intendo soffermarmi su un caso che può aiutarci a fare un po’ di chiarezza: i tweet delle primavere arabe non sono stati scritti da persone completamente calate nella realtà, o meglio, nel loro mondo digitale. Infatti, le rivoluzioni nate e sviluppatesi anche grazie alla diffusione virale di contenuti digitali, sono state – più o meno – attuate in Paesi dove le restrizioni legali al web, e non solo, sono più significative. È indubbio che gli egiziani, i tunisini, i turchi, ma anche i brasiliani e gli ucraini conoscano e sappiano utilizzare quanto noi (italiani) i social network, ma come sappiamo hanno operato in un universo digitale giuridicamente meno permissivo, meno libero del nostro. Essi hanno colto il distacco tra il cosa-voler-condividere e il cosa-poter-condividere. È presumibile che i loro 140 caratteri fossero, per così dire, più consapevoli: consapevoli dell’importanza e dei rischi che quella particolare comunicazione comportava. In pratica, si è verificata una presa di coscienza rispetto al medium utilizzato. In circostanze come queste, i new media – e i social – esprimono e rivelano compiutamente la propria carica sociale e politica. Il problema alla base è sempre lo stesso: articolare un discorso (letterario, artistico, politico ecc.) ed elaborare una riflessione critica rispetto alla sua veicolazione.

Torniamo in Italia e tentiamo di rispondere alle domande sollevate, cominciando ad avanzare alcune ipotesi: e se fossero proprio i migranti, migranti per necessità e simultaneamente per scelta, a intrattenere in questo senso un rapporto del tutto problematico con il tempo? Di fatto, non coincidono esattamente con esso: il loro tempo non è quello del paese di approdo, ma è già il tempo dell’arrivo a destinazione e di una nuova ripartenza. È un tempo vissuto dal di fuori, un tempo nel tempo. È, precisamente, un tempo a più velocità, e la sua speciale cadenza è l’assestamento incessante.

Le difficoltà di interazione, da quelle linguistiche a quelle socio-culturali, spesso consentono di erigere particolari distanze critiche che possono tradursi in dettati sorprendentemente originali. È evidente che qui il riferimento non è a quelle distanze che si realizzano nell’emarginazione più radicale, nella povertà o nella morte. Sarebbe del tutto insensato, infatti, condurre una ricerca estetica intorno a situazioni i cui protagonisti sono persone che si vedono negata anche la possibilità di soddisfare i bisogni primari. A ogni modo, qui il migrante non si fa solo portatore di nuove informazioni spaziali – noi ci riferiamo all’estraneo con pregiudizio soprattutto in relazione a una privazione di spazio –, ma contiene anche una sconosciuta nozione di tempo. Pensiamo, per esempio, alla mescolanza fra tempi linguistici (non solo tra quelli verbali, ma anche tra quelli di elaborazione e modulazione), che si risolve con l’introduzione di differenti modi intellettuali e, in qualche modo, spirituali. Oppure, proviamo a riflettere sulla totalità della ricchezza di tradizione che il migrante porta con sé. Che cos’è la tradizione se non patrimonio temporale in divenire? Tradizione che percepisce e ne afferra un’altra; tempo che afferra tempo.

Seguiamo le ancora presenti questioni poste da Alexander Langer: «che dire, allora, degli zingari, popolo mite e nomade, che non rivendica sovranità, territorio, zecca, divise, timbri, bolli e confini, ma semplicemente il diritto di continuare a essere quel popolo sottilmente “altro” e “trascendente”, rispetto a tutti quelli che si contendono territori, bandiere e palazzi?» Una collettività che «[...] a differenza di tutte le altre ha imparato a essere leggera, compresente, capace di passare sopra e sotto i confini, di vivere in mezzo a tutti gli altri, senza perdere se stessa, e di conservare la propria identità anche senza costruirci uno stato intorno!» Se è vero che questa definizione appare per certi versi superata, tuttavia essa non ha perso il suo significato più autentico e stringente:

una comunità sprovvista di spazio è una comunità fatta di solo tempo.

Ed è in seno a questo scarto che quella contemporaneità si disvela. Allo stesso modo, anche un soggetto che non ha diritto a uno spazio, un soggetto al quale è stato sottratto, brutalmente conquistato, oppure al quale è stato assegnato ad interim (penso ai CIE), è un soggetto esclusivamente temporale. Così, l’essere (che) è tempo, quel «progetto gettato», è forse il solo a poter raccogliere la sfida della contemporaneità. D’altronde, il farsi tempo può anche affermarsi come risvolto del nostro istinto di sopravvivenza. «La distruzione inesorabile di un mondo conviviale, dove [era] possibile comunicare, scambiare, lavorare, visitare, migrare senza dover ricorrere ai moduli pre-confezionati compatibili con le esigenze dell’industria e dell’amministrazione, ha tolto agli ‘zingari’ il loro ambiente naturale: non si può togliere l’acqua ai pesci e poi stupirsi se i pesci non riescono più a essere agili, gentili e autosufficienti come una volta.»


Lui chi è?

Alexander Langer è nato Sterzing/Vipiteno nel Tirolo del Sud, il 22 febbraio 1946. Giornalista, insegnante, traduttore ed eurodeputato, si è tolto la vita il 3 luglio 1995, all’età di 49 anni. Riposa nel piccolo cimitero di Telves/Telfes (BZ) accanto ai suoi genitori. «Lentius, profundius, suavius»: il lascito di un ambientalista e pacifista

 

Ringrazio la Fondazione Alexander Langer Stiftung per la collaborazione

tratto da:


http://lacittanuova.milano.corriere.it/2014/08/29/i-migranti-sono-i-veri-contemporaneivivono-in-mezzo-ai-cambiamentisenza-perdersi/

 

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