Alexander Langer Alexander Langer Racconti e ricordi

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Gian Antonio Stella: da Lotta Continua alle battaglie contro i demoni dell'intolleranza

5.7.1995, dal "Corriere della Sera"
"Meglio un fascista, almeno è un nemico che puoi riconoscere". Quando parlava di Alexander Langer il vecchio Silvius Magnago, leader messianico dei sudtirolesi, faticava a trattenere l'odio.

Perché, a parte l'onestà intellettuale e la testarda moralità, che avevano entrambi spiccatissime, quel ragazzo magrissimo e occhialuto coi dentini sporgenti da topolino e i pesanti maglioni peruviani da montanaro sessantottino, rappresentava l'esatto opposto di tutte le cose in cui credeva. Lui vendicava il peso di quel cognome italiano con una riaffermazione ringhiosa della propria appartenenza al popolo tedesco, l'altro se ne infischiava delle generalità tedesche per rivendicare la volontà di stare a calvallo delle due culture. Lui aveva dedicato la vita a dividere le due parti etniche della mela altoatesina, l'altro a ricomporle.

"Meglio un crucco vero, almeno è un nemico che puoi riconoscere", faceva eco sull'altra sponda il vecchio Pietro Mitolo, il federale da sempre a capo della roccaforte missina di Bolzano. Perché anche lui, che pure col passare degli anni sarebbe arrivato a riconoscere che Alex gli era "diventato perfino simpatico", vedeva in Langer il più insidioso degli avversari. Quello che, tentando di demolire il muro creato tra l'uno e l'altro gruppo linguistico, rischiava di togliere ai nazionalisti italiani la stessa ragione di esistere: l'odio.

Alexander Langer, del resto, non poteva che essere così. Perché il rifiuto del nazionalismo e la vocazione a proporsi come uomo del dialogo, prima ancora di essere una scelta politica maturata lungo un percorso che lo aveva visto partire da Lotta Continua per approdare ai Verdi, dei quali sarebbe diventato uno dei leader europei, ce li aveva nei cromosomi stessi. Ci scherzava, con quell'accento che non era riuscito a correggere neanche lavando in Arno il suo elegantissimo italiano: "Zono di puro zangue meticcio".

Figlio di un medico viennese ebreo e di una farmacista altoatesina cattolica, era nato nel 1945 a Vipiteno (che i tedeschi chiamano Sterzing), l'ultima cittadina in territorio italiano prima del Brennero. Cresciuto sotto l'influenza della madre, che nel 1939 era stata tra i protagonisti della battaglia contro le opzioni, cioè la scelta (l'esodo in Germania o l'italianizzazione) imposto ai sudtirolesi dallo scellerato patto tra Hitler e Mussolini, era stato mandato con scandalo dei compaesani all'asilo italiano. Seguito dalle elementari e dal liceo classico in tedesco e infine dall'università (giurisprudenza a Firenze, dove avrebbe trovato la moglie Valeria Malcontenti) in italiano. Nell'una e nell'altra lingua, sempre il migliore.

Uomo di buone letture, grande generosità, straordinario fascino intellettuale, aveva dedicato l'esistenza a ricucire queste due parti del suo mondo e di se stesso. Lui fece il primo giornalino scolastico bilingue al liceo dei francescani, lui volle un'edizione di Lotta continua in tedesco, lui fondò la nuova Sinistra-Neue Linke, lui fece conoscere per primo in Italia il movimento dei Verdi dandogli una forte caratterizzazione interetnica, lui rifiutò per primo di dichiararsi tedesco o italiano al censimento e infine cercò inutilmente di candidarsi a sindaco di Bolzano, bocciato da una legge ignobile che impone la dichiarazione d'appartenenza.

Battagliero sostenitore della nonviolenza, aveva dedicato gli ultimi mesi a una infaticabile missione di pace nella ex Jugoslavia e in particolare nel Kosovo. Avanti e indietro, avanti e indietro. Sempre a battere e ribattere, cocciuto, sul tema centrale della sua vita: la pacifica convivenza. L'unica in grado di dare una patria a un uomo felicemente senza patria.
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