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Paola Milli: Srebrenica a 12 anni dal genocidio, i racconti delle donne bosniache

12.9.2007, Liberazione 12.9.2007
Tra ritorno alla normalità e la rabbia per una giustizia ancora negata «Perché questo mio dolore non ha più lacrime?». La memoria offesa delle sopravvissute di Srebenica 

A dodici anni dal genocidio di Srebrenica, in cui oltre 8mila mussulmani furono uccisi dall'esercito serbo di Bosnia, si è svolta in Bosnia Erzegovina una settimana Internazionale di dialogo dedicata alla memoria, all'interno del progetto "Adopt Srebrenica," voluto dall'associazione Tuzlanska Amica di Tuzla e dalla Fondazione Alexander Langer di Bolzano.

Ascoltando i racconti dei sopravvissuti e in particolare delle donne, non si può non prendere atto delle similitudini che le violazioni disegnano trasversalmente in territori lontani, dal Cile al Ruanda, da Sarajevo a Marzabotto, la violenza e l'abominio del terrore ha lo stesso volto e un'identica follia ne ripete la nota dominante. Liliana Radmanovic, serba di Belgrado nata in Istria, dice di sé: «Io non sono niente, non ho mai avuto un'identità, non comprendo cosa significhi essere croata, serba, bosniaca, ho sempre sentito la Jugoslavia come un'unità senza divisioni. Non potevo più vivere in uno Stato che esaltava i misfatti dell'esercito, respingendo qualsiasi forma di dissenso, mi chiamavano "ustascia" e mi consideravano una traditrice, allora me ne sono andata a Bologna con i miei due figli». Quando si diffuse la notizia degli stupri etnici alle donne in queste zone di guerra, Lalla, Cesarina e altre dell'associazione Orlando partirono da Bologna per la Bosnia, dando vita al progetto: "Ponti di donne attraverso i confini": Tuzlanska Amica nasce da qui. Il primo passo compiuto è stato l'ascolto perché, dopo simili violenze, spesso le donne negano se stesse per elaborare il lutto delle perdite.
La memoria del bene fa quasi più male della memoria del male perché nella catena degli eventi c'è anche il bene perduto. «Il mio dolore non ha più lacrime», dice Nura Begovic, dell'associazione donne di Srebrenica, «ma io non piango, voglio lottare, voglio dare a Srebrenica un futuro migliore, affinché questa città non muoia, divenendo soltanto un luogo celebrativo dove le persone non vivono più». Amèla si batte per la partecipazione attiva delle donne alla vita pubblica, per scongiurare la nascita di nuovi conflitti a cui la cessazione del dialogo e il sopravvento del pregiudizio, hanno chiuso le porte. «Con il nostro lavoro, con la nostra attività, noi teniamo vivo il passato, le perdite -afferma Nura Begovic- come in Cile le madri di Playa de Mayo, cerchiamo giustizia e verità e non l'abbiamo, girano ancora criminali di guerra qui e li riconosciamo». Maria Cea Paz Venturelli, figlia di un desaparecido cileno, è convinta che avere oggi una donna alla guida del Paese è il dato che fa la differenza; Michelle Bachelet ha conosciuto il carcere e le torture del regime di Pinochet. Cesarina racconta di essere tornata in Bosnia dopo sette anni per passione politica, per il desiderio di "condivisione". Amèla pensa alle prossime elezioni amministrative nella sua città (Bratunac), nel 2008 e spera in una presenza femminile molto forte negli incarichi governativi.
Dopo una guerra la gente non ha più fretta, lentamente ricostruisce, i vecchi narrano ai giovani l'orrore di quanto hanno vissuto, come monito a tenere lontano i conflitti attraverso le uniche armi che non recano morte e distruzione: la comunicazione, la comprensione. Il sogno di Amèla, che non ha riavuto le spoglie di suo fratello disperso, è quello di vedere realizzato quel ponte di cui Bratunac ha un bisogno vitale per essere facilmente raggiungibile. Tutte queste donne, le cui voci hanno rotto il silenzio, chiedono che la narrazione non si interrompa, che la Comunità internazionale sorvegli e aiuti una ripresa non certo facile ma indispensabile.
Occorre vigilare il lavoro non troppo zelante della Corte di Giustizia dell'Aia che non vuole perseguire i criminali di Serbia e Montenegro, aggressori della Bosnia Erzegovina, per i quali solo due giudici su tredici hanno chiesto condanne. Eppure è stato consegnato loro, dalle associazioni delle donne di Srebrenica, un dossier dettagliato su nomi, azioni criminose, luoghi, date. Senza giustizia non vi potrà mai essere riconciliazione, solo una ricostruzione che miri alla dichiarazione pubblica di colpevolezza da parte degli assassini, i quali dovranno spiegare al mondo intero le ragioni di tanta ferocia, il senso del male che hanno saputo infliggere a civili inermi. Ricordava Zlatko Dizdarevic, giornalista ed ex direttore di Oslobodjenje , coautore di "L'Onu è morto a Sarayevo," di quanto i Balcani siano da sempre un terreno a rischio, essendo abitati da una tale miscela di etnie, religioni, gruppi e popolazioni diverse. Quello che è determinante è il progetto politico che a fasi cicliche decide di costruire o distruggere: «Noi siamo così come siamo, serbi, croati, bosniaci, è la stessa cosa, è il potere politico che può decidere e pianificare la convivenza o la distruzione, che ci fa sentire uniti o ci mette gli uni contro gli altri, istigando l'odio e l'appartenenza etnica vissuta come esclusione dell'altro».

Far rinascere la fiducia, aiutare la ricostruzione i cui segnali possono anche apparire da un balcone pieno di fiori curati, questo è possibile. Ci si può accorgere di un piccolo miracolo, tra le molte case ancora lesionate, vedere una donna che siede tra i fiori e ascolta musica classica, mentre fa colazione e forse riesce a ritagliare un tempo e uno spazio sospesi, per qualche minuto, fuori dal dolore, non cancellato, che le cammina accanto. «Dobbiamo aiutare Srebrenica a far si che ogni balcone sia fiorito e la gente lentamente torni alla vita con momenti come questo», Bosiljka Schedlich, originaria di Srebrenica ma trapiantata a Berlino da venti anni, e Anna S. Brägger, svizzera che abita in Germania, autrice di un progetto artistico, hanno preparato una mostra che presenta la sorte dei numerosi profughi dall'inizio della guerra nel 1991. Attraverso la loro organizzazione "Ponte che supera" portano avanti una terapia di superamento del trauma per le vittime di abusi sessuali e di ogni tipo di violenza.

Molte sopravvisute soffrono di sensi di colpa nei confronti dei loro figli che non sono riuscite a salvare. Si contano 60mila vittime di stupri etnici in Bosnia Erzegovina, ma solo 20mila lo hanno denunciato; secondo Medica Mondiale, un'associazione che aiuta le donne di Srebrenica, non ci sono dati statistici quantitativi sulle donne decedute per patologie legate allo stupro, ma conosciamo quali sono tali patologie: cancro, la più frequente, malattie della tiroide, ictus. Yolande Mukagasana, sopravvissuta nel 1994 al genocidio in Ruanda dei tutsi per mano degli hutu, ha raccontato la sua tragedia nel libro "La morte non mi ha voluta." Yolande ha perso i suoi tre figli e suo marito, è stata posta in salvo da una sua vicina hutu e oggi vive in Belgio: «Non riuscivo a piangere, era come se portassi il corpo dei miei figli dentro di me». Nella pianificazione del genocidio si prevede anche come far si che la vittima accetti di essere tale; quando si può ascoltare l'assassino che narra il suo crimine, si può dire che la giustizia è cominciata. Il pericolo, sempre in agguato in questi casi, è quello di generalizzare: anche se il massacro dei musulmani bosniaci è stato commesso dai serbi di Bosnia non possiamo dire che tutti i serbi siano dei criminali.

Gli accordi di Dayton, del novembre 1995, prevedevano il rientro a Srebrenica e in tutta la Bosnia dei profughi e la divisione della Bosnia tra una Repubblica Serba e la Federazione croato-mussulmana, ma di fatto lo Stato unitario non ha mai funzionato. Il Memoriale di Potocari occupa solo un terzo delle vittime della zona di sicurezza, 2907 persone, oltre 5mila attendono di essere riconosciute. Oggi a Srebrenica vivono 7mila persone, prima della guerra erano 37tmila. Gli occupati sono 1200 circa, tutti in polizia o uffici governativi, 300 persone lavorano in miniera ma è lavoro senza contributi; poco o nulla è stato fatto per aiutare la ricostruzione, nonostante siano stati stanziati molti fondi. A conclusione della Settimana della Memoria, emerge il bisogno di verità sul genocidio; che tutte le vittime vengano riconosciute come tali, che i mandanti e gli esecutori vengano condannati nelle aule dei tribunali. Sono queste le condizioni perché sia possibile costruire una memoria collettiva del genocidio. Per combattere la congiura del silenzio e offrire alle vittime la possibilità di parlare pubblicamente e di essere ascoltate, mai più giudicate per l'appartenenza ad un gruppo etnico o religioso.


 

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