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ANDREA LOLLINI: UN SOLO SUDAFRICA...

19.7.2007, UNA CITTÀ n. 149 / giugno/luglio 2007

A quattro anni dalla fine dei lavori della Commissione per la Verità e la Riconciliazione, e con una Corte costituzionale all’avanguardia, che promuove la partecipazione dei cittadini, il Sudafrica ha iniziato il suo nuovo corso. La consapevolezza del rischio di un’apartheid, non più su base etnica, ma socio-economica; la variabile impazzita dell’Aids. La figura straordinaria di Albie Sachs. Intervista a Andrea Lollini.

Andrea Lollini insegna diritto costituzionale comparato all’Università di Bologna. Ha pubblicato Costituzionalismo e giustizia di transizione, il ruolo costituente della Commissione sudafricana verità e riconciliazione, Il Mulino 2005.

Vorremmo fare un po’ il punto sul Sudafrica del post-apartheid. Nel 2006 si sono festeggiati i 10 anni della nuova carta costituzionale e sono passati 4 anni dalla fine dei lavori della Commissione per la Verità e Riconciliazione. Possiamo ripercorrere questo periodo così intenso per questo Paese?
Le prime udienze della Truth and Reconciliation Commission (Trc) risalgono al 1996 e i lavori sono stati ufficialmente conclusi nel 2003. La Commissione incarna uno dei tanti elementi del patto costituente del post-apartheid; un patto molto articolato raggiunto dopo molti negoziati, in cui si sanciva che le forze politiche che appartenevano alla black majority, guidate dall’Anc, erano disposte a rinunciare a un’idea di giustizia in senso strettamente retributivo (la pena come prezzo per i crimini commessi) quindi a un’idea di vendetta giudiziaria, incassando però una serie di elementi “positivi”.
Tramite le confessioni pubbliche di tutti coloro che avevano commesso crimini durante il regime segregazionista, si otteneva infatti non solo una consacrazione manifesta dell’illegittimità del regime dell’apartheid per bocca stessa di quelli che l’avevano posto in essere, ma anche un volume di informazioni sul passato maggiore a quello che si sarebbe potuto ottenere coi processi penali. Apro e chiudo una parentesi per ricordare che il meccanismo processuale attuato in Sudafrica, essendo un paese ex Commonwealth, quindi a tradizione di common law (sebbene con molti correttivi di civil law, per effetto della dominazione olandese), risponde alla formula anglo-americana, il cosiddetto processo adversarial-accusatorio. In sintesi amnistia in cambio di maggiori verità e di un riconoscimento della illegalità e criminalità della fenomenologia del governo segregazionista.
Già durante la fase negoziale, i rappresentanti politici del National Party (il partito segregazionista) posero però come condizione che confessassero anche coloro che avevano commesso crimini dalla parte dei resistenti, del Black Liberation Movement. Quindi anche alcuni dei cosiddetti freedom fighters, per ottenere l’amnistia, furono costretti a confessare pubblicamente.
C’era un ulteriore patto che stabiliva che chi non avesse ricevuto l’amnistia -per via di una confessione non completa, non veritiera, o perché si era sottratto o ancora perché il crimine non rientrava in quelli di competenza della Trc- sarebbe stato giudicato dopo, con un regime non più transitorio, straordinario, bensì di giustizia ordinaria.
Ecco, per iniziare a introdurre un primo elemento di criticità, va detto che a tutt’oggi nell’ufficio del procuratore deputato a seguire tutta questa materia, risultano pendenti decine e decine di faldoni. La Commissione infatti ha trasmesso gli atti a questa special unit, che ha i fascicoli per eventuali processi e alcuni di questi, almeno un paio, sono partiti, ma certo non è stata realizzata in pieno la seconda parte del patto che reggeva la Trc e il processo costituente, ovvero processare chi non ha giocato lealmente.
Quali erano i crimini di competenza della Commissione?
Quattro: tortura (torture), rapimento (abduction), trattamenti inumani e degradanti (severe ill treatment) e omicidio (killing).
Sono quattro fattispecie già previste dal codice penale in vigore durante l’apartheid, quindi non è stato violato il principio di “non reatroattività” della legge penale, come invece è successo a Norimberga o in altre situazioni, quando si sono introdotte categorie non “positivizzate” durante il periodo in cui furono commessi i crimini, in nome di principi quasi di “legge naturale” invocati ex post. I crimini assimilabili a queste quattro categorie devono essere stati commessi in uno spazio temporale compreso tra il 1960 e il 1994, quindi 34 anni. I crimini devono inoltre essere stati commessi con finalità politiche, nel quadro della lotta tra il regime e la galassia dei movimenti di liberazione nazionale. Questi stessi crimini commessi fuori da un contesto di comprovata finalità politica non sono amnistiabili; così come non sono amnistiabili crimini commessi con uno spirito di “personal gain”, di vantaggio strettamente personale o con “malice”, con particolare cattiveria, crudeltà ingiustificata. Questi ultimi sono tutti demandati alla giustizia ordinaria. Altra cosa: sono esclusi tutti i crimini di carattere sessuale, che quindi non sono amnistiabili, ma anch’essi demandati all’autorità giudiziaria ordinaria alla fine dell’attività della Commissione.
Qui ora il problema rimanda a una decisione politica che in qualche modo sblocchi il meccanismo e apra la possibilità di processare tutti i crimini che non sono di competenza della Trc. Anche perché va detto che su 7200 individui che hanno fatto formale richiesta di amnistia, solamente poco più di un migliaio l’ha ricevuta. Fermo restando che per ogni persona che si è presentata alla Commissione i crimini possono arrivare anche a diverse decine. Quindi il numero di violazioni commesse da 7200 persone è esponenzialmente più alto.
Questo è il primo cono d’ombra. Il secondo è quello delle riparazioni. L’altra parte del patto costituente riguardava appunto una forma di risarcimento per le vittime. Ora, l’idea contenuta nel testo che istituisce la Commissione era quella che potevano ottenere riparazione tutti quelli che rientravano in una speciale “lista chiusa” di vittime. In particolare, venivano definiti “vittime” tutti quelli che si erano recati a testimoniare nella prima parte del lavoro della Commissione, quella relativa alla violazione dei diritti umani, svolta da un comitato che ha raccolto quasi 22 mila statements, ovvero la versione, il resoconto fattuale di atti criminali compiuti dal regime segregazionista…
Una volta chiusi i lavori della Trc, il governo di Thabo Mbeki su questo punto è stato molto evasivo e in qualche modo ha delegittimato il senso della “closed list” pensata con l’idea di privilegiare le vittime che con un atto di responsabilità si rendevano alla Commissione e partecipavano al procedimento -e non i neri in quanto tali. Tale ambiguo comportamento è stato denunciato più volte, anche con contenziosi. In conclusione lui ha fatto pressioni affinché i soldi di questo Fondo destinato alle vittime venissero invece spalmati su tutta la black people come forma di riequilibrio di carattere socio-economico, cosa che ha disturbato molti e che comunque ha tradito le finalità della Trc.
Per effetto di questa dinamica, i risarcimenti di carattere prettamente monetario sono stati molto limitati. Preciso che il meccanismo della riparazione è anch’esso molto articolato; sono stati previsti anche risarcimenti non direttamente in denaro, come pensioni integrative, scolarizzazione…
Queste, in estrema sintesi, sono le due “disfunzioni” che depotenziano un po’ il grande portato innovativo della Commissione.
C’è un’ulteriore critica, più di fondo, che denuncia come lo stesso tipo di “competenze” assegnate alla Trc abbia svelato una particolare fenomenologia del regime segregazionista occultandone un’altra. In sostanza si è svelato l’aspetto della violenza sul corpo, ma si è quasi completamente trascurata la privazione dei diritti socio-economici. Cioè si è descritto un apartheid violento e si sono però occultati decenni di privazione della cittadinanza, cioè di esclusione dai meccanismi che abilitano le persone a partecipare al mondo del lavoro, alla distribuzione economica, ai processi sociali… Ecco, tutto questo, anche se non volontariamente, è stato tenuto da parte dalla Trc. Ci sono state alcune udienze speciali dedicate a questi temi, ma in generale la Commissione non se n’è occupata. E’ una questione importante perché oggi il Sudafrica resta segnato da un’asimmetria tra bianchi e neri nella ridistribuzione delle risorse economiche, come se appunto l’apartheid si fosse spostato dalla matrice razziale tout court a un ambito socio-economico.
D’altro canto c’è una fascia di black middle class che sta emergendo. E poi bisogna ricordare che nel 2004 hanno festeggiato i 10 anni dalle prime elezioni democratiche, nel 2006 i 10 anni della costituzione… parliamo di tempi brevissimi. Per riuscire a far sì che crescano generazioni skilled, ovvero dotate degli strumenti necessari a entrare nel mercato del lavoro contemporaneo, ci vuole un sacco di tempo, massicci investimenti finanziari, scolarizzazione di base… Insomma non sono cose che si risolvono in 10 anni. Per creare una nuova generazione ci vogliono almeno 25 anni.
La qualità e l’entità delle informazioni raccolte dalla Commissione hanno fornito una lettura molto più complessa, meno manichea, del regime e dei suoi oppositori…
Come dicevo, la Commissione ha raccolto una incredibile quantità di informazioni e questo effettivamente ha permesso di avere un quadro molto articolato, senza adottare gli schemi tipici delle transizioni post-naziste e post-fasciste in Europa, in cui le guerre di liberazione vengono semplificate in un’unica macrodinamica.
Ora, premesso che l’Anc lottava contro un regime assolutamente indifendibile, la Commissione ha svelato anche quella che è stata chiamata la “black on black violence”, ovvero la violenza endogena, per ragioni di potere, tra le varie anime del movimento di liberazione, ma anche appunto tutte le azioni criminali, talvolta gratuite, commesse durante la fase violenta e sanguinosa di guerra al regime, con gli attentati consumati ai danni di obiettivi militari che spesso coinvolgevano anche civili, i cosiddetti danni collaterali.
Nonostante le critiche e i limiti, tu continui a ritenere l’esperienza della Commissione fondamentale…
Io ricordo ancora come all’indomani della fine del regime molti paventassero un rischio di genocidio dei neri sui bianchi… Beh, non è accaduto. Potrebbe ancora accadere, certo, non lo sappiamo. Però non è accaduto, è accaduta invece una sperimentazione politica che ancora oggi è inarrivata nel mondo. C’è stato uno straordinario processo di negoziazione tra vecchie entità politiche, quindi oppressori, e combattenti per la liberazione, che ha portato alla costruzione di un sistema istituzionale innovativo. E’ stata promulgata la costituzione, un testo giuridicamente all’avanguardia. E poi c’è la Corte costituzionale che si sta affermando tra le più importanti del mondo per la sua capacità di interpretazione e innovazione nei meccanismi di argomentazione giuridica… Il Sudafrica è inoltre un paese che cresce economicamente, certo con handicap enormi. Ecco, la Trc è una parte fondante di questa storia, in cui non erano possibili altre scelte…
Poi certo, è vero: fa impressione pensare che queste persone che hanno commesso atroci delitti poi rientrino nella società… Su questo tra l’altro sappiamo poco; è difficile misurare, anche sociologicamente, un sentimento di gradimento o meno. Dalle varie ricerche emerge un grande puzzle di esperienze individuali. Del resto la stessa Commissione non aveva finalità legate all’idea di perdono o del pentimento, era fatta di atti anche molto meccanici…
Ad ogni modo, esperienze di vendetta successive a me non risultano, comunque non vengono annoverate in letteratura… Rimane un’eventualità: rientri nella tua comunità stigmatizzato e ci pensa la gente a far giustizia da sé…
Ed è indubbio che tornare tra la gente che sa è una pena grossissima. In ogni caso, ex post, io non vedo possibili altre opzioni. Resto dell’idea che fosse l’unica scelta naturale che aveva il paese.
Mi sembra anche un esempio di straordinaria attualità se si pensa a contesti politici di grande delicatezza, il Medio Oriente ecc.
Quali sono stati gli elementi fondanti, di riuscita, di questo esperimento?
Per creare un corpo politico unitario erano fondamentali due scelte politiche di fondo. Uno: si vive in una medesima terra, per cui non si innestano circoli viziosi e perniciosi di suddivisione del territorio e si evitano processi centrifughi, di partizione della terra. Questo disinnesca immediatamente un ciclo, una catena di conflitti pazzeschi, pensiamo al Medio Oriente, ai Balcani, ecc. Insomma c’è un solo Sudafrica, unitario, e poi c’è una sola cittadinanza; quindi una stessa terra e un corpo politico unitario. Due decisioni gigantesche e controcorrente, frutto di una storia lunghissima che si alimenta di culture diverse. Ricordiamo che lo stesso African National Congress è stato per decenni impregnato di idee che vengono dal gandhismo; la Freedom Chart era un mix di costituzionalismo liberaldemocratico, gandhismo e tratti anche di marxismo, tutta una serie di dati culturali che assieme hanno creato questa sorta di fede politica.
Parliamo di decisioni che per essere rese operative necessitano evidentemente di un sacco di tempo, energie, soldi, senza contare i sabotatori, interni ed esterni. Però restano decisioni “grandi”.
E’ un modello esportabile a tuo avviso?
Mi viene chiesto spesso, anche a lezione. L’idea che mi sono fatto è che è esportabile in presenza di queste decisioni politiche di base. Ovvero le decisioni fondanti per una nuova comunità e un nuovo Stato: viviamo assieme in una medesima terra. Se si decide questo, ormai sono a disposizione tutti gli strumenti giuridico-costituzionali affinché minoranze con interessi e valori anche molto lontani possano operare in un medesimo quadro istituzionale. Ci sono mille alchimie, forme di governo e di Stato che possono far sì che le minoranze vivano assieme. Però bisogna prima prendere la decisione fondamentale, che è quella: noi siamo sudafricani…
Di Commissioni per la verità e la riconciliazione ne esistono ormai a decine; nessuna però -mi sembra- ha riprodotto le procedure e i meccanismi giuridici e politici di quella sudafricana… Cioè una transition of justice che è parte del processo costituente, anzi i due coincidono:la creazione della nuova costituzione, del nuovo Stato, e il dealing with the past, il fare i conti con il passato.
La Corte costituzionale, uno dei pilastri del Sudafrica post-apartheid, è da subito diventata una delle più attive e innovative nel panorama mondiale. Puoi parlarne?
La Corte costituzionale sudafricana si è distinta fin dall’inizio per il coraggio dei suoi giudici, e per la loro indipendenza, non solo dal potere politico, ma anche nei confronti delle icone… In passato ci sono stati procedimenti per legittimità costituzionale che hanno coinvolto il governo dello stesso Mandela. E devo dire che Mandela ha avuto parole di grande apprezzamento quando è stato costretto, come presidente della repubblica, a presentare gli affidavit davanti alla corte che metteva in discussione la costituzionalità di alcuni suoi atti.
Tra le prime sentenze della Corte costituzionale c’è la cancellazione giurisdizionale della pena di morte. Durante i negoziati politici nessun partito aveva avuto il coraggio di portare questa questione e fu la seconda sentenza della Corte costituzionale a cancellare la pena di morte. Quindi un grande coraggio, una corte che non ha paura di intraprendere azioni impopolari.
Senza parlare del grandissimo ruolo di una giurisprudenza attivissima per il riconoscimento dei diritti fondamentali sanciti dalla costituzione, fino a elementi di grande innovazione più tecnici, che interessano molto chi come me si occupa di diritto costituzionale comparato.
Per dire, la carta costituzionale sudafricana è la prima al mondo, all’art 39, a prevedere una clausola che consente ai giudici costituzionali, nel momento in cui interpretano il Bill of Rights, cioè la lista dei diritti fondamentali, di far appello anche al diritto straniero, al foreign law. Quindi di interpretare la propria costituzione nazionale anche alla luce della giurisprudenza emessa da altri giudici costituzionali, proprio perché si riconosce l’esistenza di un gap congenito in un paese che crea un sistema liberale, democratico, dal nulla e ha quindi bisogno di porsi fin da subito negli standard internazionali. Così la giurisprudenza della Bundesverfassungsgericht (Corte Costituzionale tedesca), o della Corte suprema canadese, o ancora della Corte europea dei diritti dell’uomo, penetra direttamente in quella sudafricana. La stessa Corte suprema statunitense, dove ci sono forti pressioni a che finalmente il sistema si apra al diritto internazionale o comunque straniero, ha visto aspre opposizioni, quando si è trovata a citare la Corte europea dei diritti dell’uomo nel dichiarare illegittima una norma del Texas che puniva penalmente l’unione carnale omosessuale. Corti avanzatissime, che sono i santuari del costituzionalimo moderno, come quella statunitense, dal punto di vista delle prassi si trovano sorpassate dall’esperienza sudafricana. Altre corti molto moderne, come quella canadese, grandissima giurisprudenza sui diritti fondamentali, praticavano già da tempo questa possibilità, ma non in modo così ampio… Quindi la Corte costituzionale è un grande esempio di innovazione. E poi ci sono tanti aspetti simbolici: la corte ha sede a Johannesburg, nella Constitution Hill, costruita su una ex prigione, con una operazione architettonica che tiene insieme tradizione e modernità del continente...
Altro tratto distintivo è il sistema di partecipazione pubblica alle udienze, possibile in tutti i sistemi, ma che in Sudafrica è molto ampio. Durante le udienze in cui i giudici dovevano decidere della costituzionalità di atti del governo in merito alla protezione dei farmaci antiretrovirali e alla distribuzione degli stessi, l’aula era piena di militanti della Treatment Action Campaign (Tac), la Ong di Zackie Achmat, di rappresentanti della società civile e tutti avevano la famosa maglietta “Hiv positive”. Insomma una grande pressione popolare che portava l’istanza costituzionale al giudizio davanti alla corte…
Ci sono tante forme di partecipazione pubblica, tra cui la possibilità di istituire i cosiddetti Amicus Curiae, figura caratteristica del diritto processuale della Common law che consente -con il permesso del giudice- l’intervento in giudizio di un terzo per offrire al giudice pareri su questioni di fatto o di diritto; si tratta di individui o più spesso di gruppi che intervengono in un processo la cui decisione può avere riflessi che vanno al di là del solo interesse delle parti in causa; consente ai vari gruppi di pressione di prospettare il loro punto di vista in controversie in cui si dibatte di libertà civili, sindacali ecc. Anche i tribunali ad hoc lo prevedono, però lì è stato sperimentato davanti alla Corte costituzionale.
Tra i giudici della Corte costituzionale, c’è Albie Sachs, la cui storia ha attraversato quella del Sudafrica. Puoi parlarcene ?
Innanzitutto preciso che Albie Sachs è un bianco a conferma che non ci sono stati solo freedom fighters neri… Fin da giovanissimo, ma già avvocato, si affilia all’Anc. La polizia lo arresta due volte dopodiché gli fa capire che è meglio che lasci il paese. Va in Inghilterra per un certo periodo, dopodiché torna in Africa, questa volta in Mozambico, dove insegna e si impegna in vari progetti. E’ un uomo molto noto ai ricercatori e studiosi del continente africano degli anni 70, quando c’erano tanti laboratori, in Tanzania, in Mozambico, quando ancora si guardava all’Africa con grande speranza… Ora questa pagina dell’Africa ai più giovani può sembrare quasi aneddotica. Io stesso nasco come ricercatore osservando il baratro dell’Africa, ma per i miei maestri l’Africa per un certo periodo è stata una grande speranza. E quindi Albie Sachs, insieme ad altri ricercatori, professori e attivisti era parte di questo movimento… Il suo impegno era fortissimo e nel 1980 rimase vittima di un attentato dinamitardo a Maputo ad opera dei servizi di sicurezza segreti, il security branch della polizia sudafricana; misero una bomba nella sua auto e nell’esplosione lui rimase gravemente ferito, perse un braccio e un occhio. Questo però non ha assolutamente fermato la sua idea di lotta di liberazione secondo canoni democratici… un’idea molto diversa da una mera attività di opposizione di stampo eversivo o di contrapposizione violenta. Albie Sachs ha tenacemente portato avanti la convinzione che la pace e la nascita di una nuova società comportano determinati presupposti, che sono ineliminabili, cioè l’istruzione, i meccanismi giurisdizionali, i principi del diritto costituzionale…
Altrimenti si resta a un quadro con delle identità che si scontrano. Albie è rientrato in Sudafrica all’indomani della revoca della messa al bando dell’Anc, diventando uno dei membri fondamentali del National Executive Commettee dell’Anc, negoziatore della costituzione e infine giudice costituzionale della corte sudafricana. Insomma da freedom fighter a giudice costituzionale e quindi deputato all’interpretazione e applicazione di questo grande progetto politico e giuridico che è la costituzione. Oggi ha più di 70 anni, ma resta una persona rara e straordinaria, con il senso di una vera missione civica... Per venire a Bolzano si è fatto due voli intercontinentali durante il weekend per poi essere a lezione lunedì mattina a Cape Town.
L’Aids, in tutto questo, rischia di essere la vera variabile impazzita...
Anche qui entriamo in un piano scivoloso. Il Sudafrica viene stigmatizzato come il paese con il più alto tasso di sieropositivi al mondo. Ora, intanto va detto che è l’unico paese -esclusi quelli del G8- in cui si fanno test in maniera sistematica. Della situazione di molti altri paesi non si sa quasi nulla e ricordiamo che in Africa, come in Asia, America Latina, si sospettano tassi inquietanti. In Sudafrica sicuramente, trattandosi di una popolazione numericamente limitata, si vedono molto bene gli effetti destabilizzanti della pandemia.
Ovvero, distruzione del tessuto sociale-familiare, quindi orfani abbandonati al loro destino; grosse difficoltà di pianificazione socio-economica, ma anche di investimento nelle strutture educative, dato che la morte è precoce. Insomma, una realtà di devastazione che ha come corollario altissimi tassi di criminalità. I governi di questi anni hanno fatto tanti tentativi di ridistribuzione, housing, creazione di servizi, ecc. ma i soldi sono limitati e le difficoltà sono enormi. Direi che mettendo insieme tutti questi dati -che vanno letti globalmente- alla luce della crescita economica, della stabilità, del tempo trascorso (pochissimo), il paese ha ottenuto anche dei grandi risultati.
Devo dire che la candidatura di Zackie Achmat al premio Alexander Langer nasce non solo dall’ammirazione per il personaggio, ma soprattutto per il pragmatismo con cui ha informato la sua campagna e che è poi anche il tratto distintivo dell’intera battaglia all’Aids ingaggiata dal Sudafrica. Voglio dire che l’approccio è stato fin dall’inizio molto pratico: c’era un problema molto concreto, il prezzo dei retrovirali, che andava risolto, punto. Come? Nel 1998 il Sudafrica si è appellato a norme previste nei trips del Wto. Già questo mi sembra straordinario. Cioè si è cercata -e trovata- la soluzione proprio nella tanto vituperata Organizzazione Mondiale del Commercio. E questo è stato possibile proprio perché l’intera strategia è stata di muoversi all’insegna delle norme e delle istituzioni; con l’idea che anche le entità internazionali più discutibili vanno comunque conosciute nei loro meccanismi per capire come funzionano e come potrebbero funzionare meglio, ed eventualmente essere piegate a fini positivi…
La trovo una grande lezione anche per noi; in Italia, in Europa, talvolta le barriere di tipo ideologico sono un freno grossissimo; lo spirito antagonista rischia di rendere miopi e comunque poco efficaci.
Qui il problema era la contrapposizione tra principi, tra la protezione del copyright (che ha comunque una sua funzione) e il diritto alla salute. Ecco, nel Wto, ci sono norme che vincolano il copyright, specialmente nel campo farmaceutico. Ebbene, nel 1998 il Sudafrica, di fronte a quella che era oggettivamente una pandemia, ha fatto una legge che avrebbe consentito anche lo sviluppo di farmaci generici. Le multinazionali farmaceutiche si sono ovviamente opposte e si è innestato così un contenzioso giuridico in cui la Treatment Action Campaign si è inserita come Amicus Curiae. Il processo si sarebbe dovuto aprire a Pretoria, ma dopo una grande ondata mediatica, che stava producendo un danno d’immagine enorme all’industria farmaceutica, c’è stato un arretramento delle case farmaceutiche, che hanno deciso di negoziare con il Sudafrica. A quel punto, però, il governo sudafricano di fatto non ha mantenuto l’impegno in merito alla distribuzione gratuita dei farmaci negli ospedali pubblici. Di qui un secondo contenzioso, che ha visto sempre protagonista la Tac, contro il governo che non dava attuazione a norme costituzionali di protezione della salute pubblica. Si è così finiti davanti alla Corte costituzionale, che ha sancito una serie di provvedimenti per dar seguito alla difesa dei principi costituzionali della salute pubblica, del diritto alla vita, alla cura, alla dignità. Morale della favola è che questa grande attività, che ha prodotto degli effetti molto concreti, è passata attraverso meccanismi istituzionali, utilizzo di norme, organismi, nazionali e internazionali. Un grande pragmatismo per arrivare all’obiettivo di un bilanciamento tra principi tutti riconosciuti nelle costituzioni moderne: il diritto alla protezione dell’iniziativa economica, da un lato, e la tutela, dall’altro, di altri principi fondamentali, come la dignità umana, il diritto alla vita, alle cure, alla salute pubblica.
Ora lo stesso contenzioso è esploso in Brasile, in Thailandia; c’è poi il caso Novartis in India. Ho l’impressione che di questo asse negli anni a venire torneremo a parlare. Per quanto riguarda il Sudafrica, l’accesso alla cosiddetta triterapia o “cocktail di farmaci” è evidentemente di straordinaria importanza, come pure il farmaco che impedisce la contaminazione infraparto e protegge durante tutta la finestra dell’allattamento. Zackie poi -in linea con il suo approccio pragmatico- ha centrato l’intera campagna sul test. La politica della Tac è chiara: come primo atto, fate il test; un gesto di responsabilità verso se stessi e immediatamente verso chi ci sta vicino. Questo è stato possibile, oltre alle nuove possibilità di cura, anche grazie a una sorta di rivoluzione politico-culturale contro la stigmatizzazione di chi era Hiv-positivo. Zackie Achmat, gay dichiarato, si è molto speso contro tutte le forme di discriminazione, specie in quelle comunità che vivono ancora secondo regole tradizionali. E’ stato anche tra i partecipanti alla grande assise gay e lesbiche per far entrare nella costituzione sudafricana il divieto di discriminazione per l’orientamento sessuale.
Ora, la nuova frontiera è quella delle tubercolosi. La Tac ha avviato una grandissima campagna perché la ricerca su questi farmaci è ferma da decenni, mentre la malattia continua a mietere vittime; è questa la nuova grande questione.

Intervista di Barbara Bertoncin

per www.unacitta.it 

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