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Anna Bravo: il filo rosso che unisce le destinatarie e i destinatari del premio Alexander Langer"

28.2.2007, Fondazione
Gli amici della Fondazione mi hanno chiesto un breve scritto che mettesse in luce il filo comune alle storie dei vincitori e vincitrici del premio Langer, al di là della matrice condivisa dell’impegno per la pace, la libertà, la salvaguardia dell’ambiente e delle specie. Se si ripercorrono gli 8 anni passati da quando La Fondazione ha istituito il premio, ci vengono incontro persone che avrebbero potuto essere compagne di strada di Alex, e in qualche caso lo sono state – persone che hanno il talento di saper viaggiare con la sua leggerezza, di costruire ponti fra realtà contraposte, di agire i conflitti con lo spirito della nonviolenza, di guardare con amore al mondo del senziente non umano.
Ma si tratta anche di persone molto diverse fra loro per inclinazioni politiche e religiose, collocazione sociale, professione, vicende personali, ruoli familiari: una scrittrice e politica algerina, una pediatra kosovara, una sociologa belgradese, un operaio del Petrolchimico di Porto Marghera, una giovane contadina e una medica ruandesi, la prima hutu, la seconda tutsi, tre docenti (un israeliano dell’università di Beer Sheva, un palestinese dell’università di Betlemme, una cinese dell’Università di Pekino), una biologa ecuadoregna, una fondazione culturale polacca, una psichiatra bosniaca. Qui di seguito, nelle motivazioni dei premi, potrete leggere della loro vita e delle loro lotte.
Non c’è da stupirsi di questa eterogeneità. Su come interpretare i comportamenti, in particolare le reazioni all’evento/spartiacque della Shoah, si sono confrontate la sociologia, la psicologia, le scienze della politica, in minor misura anche la storia. Ma non hanno portato lontano i tentativi di mettere a fuoco una “personalità autoritaria”, e, all’apposto, “altruistica”, oppure di individuare gruppi sociali, professionali, politici, caratterizzati da una maggiore presenza dell’uno o dell’altro “tipo umano”. E’ risultato quasi impossibile stabilire affinità sul piano dei percorsi e degli orientamenti di chi scelse di agire per il bene, oppure si trovò a farlo prima ancora di averlo deciso. Fra i grandi soccorritori degli ebrei negli anni 39-45, figurano Giorgio Perlasca, un commerciante ex volontario franchista nella guerra di Spagna, Wallemberg un aristocratico svedese, Schindler un affarista amante del lusso, André Trocmé, pastore protestante e leader spirituale del villaggio francese di Le Chambon, dove molte famiglie ebreee rimasero nascoste per 4 anni. A capire che i vecchi codici di comportamento erano inadeguati a una situazione in cui l'azione morale di aiuto era illegale, l'azione immorale era la legalità, spesso non furono persone di particolare moralità o cultura. Furono donne e uomini che si distinguevano per la forza dell’individualità, in qualche caso per un certo scetticismo verso il potere costituito, doti tanto preziose per preservare l’autonomia di giudizio e il senso della responsabilità personale, quanto rare. In Germania (ma anche nei paesi occupati), la maggioranza dei cittadini evitò di esporsi, e con vari gradi di compromissione e di acquiescenza si adeguò all’ordine nazista. Se non che, come scrive Hannah Arendt, dire di essere stati costretti o di aver obbedito agli ordini è un’argomentazione vuota, perché l’obbedienza è una categoria applicabile esclusivamente ai bambini. Gli adulti sono, se mai, indotti in tentazione.
Pur nelle differenze, mi sembra che fra i nostri premiati/e alcuni tratti comuni esistano. Innanzitutto, sono singoli/e, o “coppie”, non soggetti collettivi, tranne in un caso. Sono persone che inizialmente non avevano ruoli istituzionali nelle Ong, in organizzazioni assistenziali e di pace, né cariche amministrative e religiose, a volte neppure una precisa collocazione politica o un passato di militanza. Persone che hanno reagito alla violenza, all’ingiustizia, all’oblio dei crimini del passato, partendo dalla realtà che era sotto i loro occhi, e che per questo hanno spesso dato un nuovo corso alla propria vita. Penso a Ding Zilin, docente di filosofia, iscritta al Partito comunista, madre di un diciassettenne ucciso nei massacri di piazza Tiananmen, che lavora da 14 anni per restituire alle vittime un volto e un nome, stendendo un catalogo dei morti e un altro dei sopravvissuti rimasti mutilati e invalidi. Ai tempi del premio Langer era poco nota, oggi è ritenuta in tutto il mondo la figura più significativa del dissenso cinese.
Penso a Jacqueline Mukansonera, giovane donna di famiglia contadina, di etnia hutu, di religione cristiana, che, quando si è trovata davanti la tutsi Yolande Mukagasana, l’ha salvata a rischio della vita nascondendola nella propria casa - e quasi non la conosceva. A Gabriele Bortolozzo, che nel 1973 – tempi lontanti dalla sensibilità ecologista - venne a sapere che il Cvm è cancerogeno per le persone, oltre che devastante per l’ambiente, avviò una vera e e propria indagine sul campo costruendo liste di nomi di morti e di ammalati, e si trasformò in un esperto in grado di fornire alla magistratura il primo dossier sul petrolchimico. Natasa Kandic, che durante la guerra andava appena possibile a Pristina per salvare qualcuno portandoselo via in taxi, oggi dice: “In questo modo ho potuto costatare di persona quanto fosse importante per loro che qualcuno venisse da Belgrado, per vedere come vivevano e per stare con loro”. Irfanka Pasagic, nata a Srebrenica, dopo aver vissuto e visto nel 1993 le deportazione in una delle prime ondate di pulizie etniche, ha creato a Tuzla in tempi brevissimi il centro “Tuzlanska Amica”, che, grazie alle adozioni a distanza ha dato una famiglia a 800 bambini, ed è diventato anche uno dei pochi luoghi dove donne, bambini, disabili, uomini traumatizzati, possono ricevere aiuto psicologico, assistenza medica, sociale, legale. Sono conferme che le iniziative solidali non dipendono tanto da una inverificabile personalità preesistente, nascono piuttosto dall’incontro empatico con la vulnerabilità e il bisogno di aiuto di chi soffre, con gli effetti della devastazione, dell’ingiustizia, dell’ottusa banalità del male. E’ dunque la trasformazione di sé a partire dall’esperienza diretta una delle cifre comuni ai nostri premiati, che si intreccia al registro della cura, la virtù quotidiana cara a Todorov, la virtù di chi mette al primo posto le persone e le relazioni.
La seconda è l’importanza speciale che la memoria ha nella loro opera. Ce lo faceva notare nel 2002 Anna Segre, che aveva scelto per sé il ruolo complesso di candela della memoria, ricostruendo la storia dei suoi genitori durante la persecuzione contro gli ebrei. Gli esempi più eloquenti sono ancora Ding Zilin, che disputa il figlio all’oblio cui il regime cinese ha condannato lui e gli altri morti di Tiananmen; i figli di Gabriele Bortolozzo, che tramandano attraverso una associazione l’opera del padre; Yolande, oggi impegnata nello spettacolo teatrale Rwanda94: Tentative de réparation symbolique envers les morts à l'usage des vivants ; la fondazione Progranicze, che si dedica a far rivivere alcuni luoghi della cultura e della religione ebraiche, le tradizioni tzigane e delle minoranze ucraine e bielorusse. Ma anche Dan Bar On e Sami Adwan si confrontano con la storia dei loro popoli pesando con cuore vigile le ragioni delle diverse memorie, e così Khalida Toumi Messaoudi, la “portatrice di molti fardelli”, che incarna in prima persona, lei ancora giovane, i lunghi sforzi per salvare il ricordo della lotta di liberazione algerina senza farne un mito ideologico, e Esperanza Martines, che si muove fra memorie di comunità e paesaggi minacciati dagli insediamenti delle industrie petrolifere.
Il terzo punto comune mi sembra una concezione dell’indentità che si colloca al polo opposto delle immagini pietrificati, totalizzanti e totalitarie, proposte dall’etnia e dalla nazionalità. Una identità come costellazione di più elementi, mobile e fluida, aperta alla trasformazione. Non è una concezione nuova, ce l’hanno insegnato le scienze umane e sociali, lo verifichiamo nella nostra esperienza, a saperla ascoltare. Ma è molto difficile, e molto pericoloso, mantenersi fedeli a questa vocazione plurima quando ci si trova in situazioni di guerra civile o etnica, di oppressione, di semplificazioni forzate, di dominio della logica amico/nemico. Sentirsi interni a opzioni e mondi diversi può essere l’occasione di scontro più duro con la propria parte, con compagni di strada cui si può essere legati profondamente. Ma Khalida, condannata a morte dagli integralisti islamici e costretta a vivere semiclandestina per anni, non ha mai smesso di rivendicare la propria libertà di essere berbera e algerina, musulmana e razionalista. Vjosa Dobruna, che si definisce “donna, pediatra, kosovara, figlia di qualcuno”, che ha partecipato alla resistenza nonviolenta kosovara, e dalla sua crisi è stata spinta a chiedersi se in alcuni casi ci sia un’alternativa alla lotta armata, è un esempio altrettanto limpido di questa identità mobile – un rapporto con se stessi e gli altri che si calibra sulle situazioni senza rinnegarsi. Sospendere il corpo a corpo con la realtà, poter scegliere un modello di condotta o una linea poltica e attenercisi, forse per le nostre amiche e amici sarebbe un sollievo, una protezione dalla fatica del dubbio - ma un sollievo che non è nella loro corde ricercare.
Una ultima osservazione. Delle persone premiate, la maggioranza sono donne. Il che non vuole ovviamente dire che il genere femminile in quanto tale goda di una moralità superiore; suggerisce piuttosto che molte donne sono più esperte degli uomini nell’arte di negoziare con l’avversario, di non generalizzare impropriamente, di pesare il rapporto costi/benefici, di muoversi con duttilità di fronte all’imprevisto. Sono forme di azione e pensiero così presenti nell’esperienza delle donne che se le pratica un uomo lo si rimprovera di comportarsi in modo femminile, di sostituire ai principi la valutazione caso per caso, di aderire alla mutevolezza delle situazioni fino a cadere nella temuta “mancanza di oggettività”. Rispetto a moltissimi altri soggetti culturali, un merito che possiamo riconoscerci è la capacità di guardare più attentamente alle storie di donne e all’importanza delle relazioni fra donne. Un esempio che vale la pena sottolineare riguarda proprio il centro “Tuzlanska Amica”, che è nato nell’ambito del progetto “Ponti di donne tra i confini” creata nel 1993 dalle donne di “Spazio Pubblico” di Bologna insieme ad altre della ex Jugoslavia; ed è all’interno di questa rete di dialogo interetnico che Irfanka Pasagic ha collaborato con Natasa Kandic e Vjosa Dobruna, le destintarie del premio Langer 2000.

I testi cui si fa riferimento sono, in successione,
T.Adorno, E.Frenkel-Brunswick, D.Levinson, R.N. Sanford, La personalità autoritaria, Ed. di Comunità 1973, ed. or.1950
H.Arendt, Le origini del totalitarismo, Ed. di Comunità 1996, ed.or. 1951
H.Arendt, Appendice a La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1993 ed.or.1963.
A.Zamperini, Psicologia dell’inerzia e della solidarietà. Lo spettatore di fronte alle atrocità collettive, Einaudi 2001
T.Todorov, Di fronte all'estremo, Milano, Garzanti, 1992.

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