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Alexander Langer - Lezioni Jugoslave

1.2.1993, Kommune 2/1993 - traduzione Clemente Manenti

La spaventosa guerra jugoslava si rivela sempre più come la sfida decisiva per la coscienza europea e il banco di prova della nuova Europa. La sua portata storica un giorno sarà forse considerata maggiore di quella della guerra civile spagnola negli anni Trenta. Come dovrebbero essere le forze sociali all’interno e all’esterno di una zona di conflitto, per contribuire a prevenirlo o risolverlo? Quale sostegno esterno a queste forze è possibile e necessario?

In un conflitto etnico (nazionale, razziale, religioso) non può esservi una soluzione giusta per una parte sola. La ricomposizione del conflitto è possibile solo grazie a iniziative comuni o almeno convergenti di parti diverse. Per questo il “Verona Forum for Peace and Reconciliation in Former Yugoslavia”, che riunisce circa 200 persone di rilievo di tutte le parti della vecchia Jugoslavia, o la cerchia della “Helsinki Citizens’ Assembly” raccolta intorno a Sonja Licht, e altri tentativi simili, sono tanto più significativi dei gruppi per la pace o per i diritti umani del tutto esterni alla Jugoslavia o con un ancoraggio in una sola delle parti in conflitto. I gruppi interetnici, o almeno i forum di dialogo, si dimostrano sempre più chiaramente come il solo approccio realistico (anche se non per ciò sempre efficace) per la soluzione dei conflitti – che si tratti di Israele/Palestina, del Sudafrica… o del Sudtirolo. Essi richiedono da tutti i partecipanti un certo grado di “tradimento” (non però il passaggio alla parte avversa!) e al tempo stesso di radicamento etnico: strade di pace possono essere aperte solo da persone e gruppi che siano ancora riconosciuti in qualche modo dalla parte cui appartengono, ma che siano anche capaci di remare contro la corrente del compattamento nazionalistico. Simili forze non hanno vita facile nella ex Jugoslavia, soprattutto in Croazia. Tanto più esse hanno bisogno dell’aiuto esterno: mezzi di informazione, contatti, valorizzazione del loro lavoro mediante le visite e la solidarietà, sostegno alle loro iniziative…

Il fatto che “l’Europa” – chiunque si voglia di volta in volta indicare con questa espressione – abbia praticamente abbandonato a se stesse queste forze (della cui esistenza si sa e si sapeva, e il sostegno alle quali è sempre stato invocato dalle minoranze critiche) è un fatto che pesa. I vasti compattamenti nazionalistici ne hanno tratto un significativo incoraggiamento. Le forze interetniche avrebbero dovuto essere coinvolte per tempo nelle trattative di pace (forse neppure oggi sarebbe ancora troppo tardi). Gruppi, partiti, giornali meno inficiati dal nazionalismo avrebbero avuto bisogno di sostegno politico e materiale, per guadagnare peso e prestigio nelle loro società di appartenenza. L’“altra” Serbia (che si è sempre riaffacciata con iniziative e manifestazioni), l’“altra” Croazia (che a dispetto della “omogeneizzazione nazionale” non è stata ridotta al silenzio) sono state lasciate completamente sole.

In cambio hanno ricevuto applausi e coperture le precipitose proclamazioni di indipendenza, decise unilateralmente e senza riguardo per i vicini o le minoranze interne. La situazione davvero insopportabile degli albanesi nel Kosovo è stata ignorata, quando forse sarebbero state possibili soluzioni negoziali. Oggi una soluzione senza prova di forza militare sembra sempre più inverosimile. 
La demonizzazione e la delegittimazione della costruzione di Tito di una Jugoslavia federalista, fondata su un relativo equilibrio tra le nazionalità, ebbero il sopravvento (anche all’estero) senza alcuna considerazione delle possibili alternative. I serbi sentirono ciò come una camicia di forza, rivolta a impedire la loro “naturale” posizione di preminenza e il loro sogno di una Grande Serbia, e furono i primi a rompere de facto il compromesso tra le nazionalità che impediva la loro agognata egemonia. Ai croati e agli sloveni fu fatto intendere (anche dall’estero) che contro i loro odiati fratelli “balcanici” avrebbero potuto semplicemente riconoscersi nell’Europa, e sarebbero stati accolti a braccia aperte, finché non se ne convinsero. Le istituzioni federali vennero affrettatamente definite un alibi e un paravento dei serbi – finché non lo divennero realmente. L’impossibilità della convivenza venne proclamata in mille modi – e quando ciascuno persegue il suo proprio stato, il più possibile “etnicamente puro”,  come fine irrinunciabile, e riesce a realizzarlo, non può meravigliare che esploda un conflitto accanito intorno alle regioni miste o abitate da altre etnie – fino alla sollevazione, alla secessione e alla proclamazione di stati autonomi, all’intimidazione, all’espulsione, alla pulizia etnica anche attraverso lo sterminio di massa o il genocidio. 

Il Sud più povero della Jugoslavia, dalla Bosnia alla Macedonia, ancora fino al 1991 era in realtà ben poco desideroso di secessione: i due presidenti Izetbegović e Gligorov avevano agito fino all’ultimo come fattori di bilanciamento all’interno della Presidenza federale che stava andando in pezzi. Il distacco del ricco Nord fu vissuto piuttosto come un divorzio voluto dal coniuge più benestante e come deplorevole restringimento dello spazio economico e vitale comune. Solo quando si videro abbandonati alla ormai schiacciante superiorità dei serbi, nella residua Jugoslavia, si risolsero alla dichiarazione d’indipendenza come via in qualche modo obbligata. I tentativi sloveni e croati per un nuovo modello confederativo (1989-1990) se presi sul serio e sostenuti internazionalmente avrebbero probabilmente offerto un’alternativa migliore della secessione.     
Oggi l’Europa si trova davanti alle rovine non solo della ex Jugoslavia, ma della propria capacità di agire. Ciò che si sarebbe dovuto e potuto fare non è più a portata di mano: l’allargamento della guerra al Kosovo, alla Macedonia e alla Voivodina, e dunque l’approssimarsi di una guerra balcanica che si proietterà sui Paesi vicini, allo stato delle cose sembrano inevitabili. Gli orribili crimini di guerra, la discriminazione sistematica, l’intimidazione, le espulsioni, gli stupri, l’imprigionamento, la tortura, l’assassinio di decine e centinaia di migliaia di persone hanno già provocato un incendio che non può più essere cancellato, e ferite destinate a ripercuotersi per generazioni.
Dopo le recenti elezioni in Serbia, perdute non solo da Panić, ma anche da tutta l’area moderata da lui rappresentata almeno di fatto, lo spazio per l’iniziativa politica si è ridotto ulteriormente, e il ricorso a interventi militari esterni sembra sempre più inevitabile (ciò che tuttavia non li rende né risolutivi, né di facile attuazione).

Probabilmente in stadi anteriori il nodo gordiano della convivenza si sarebbe ancora potuto sciogliere. Se oggi esso verrà tagliato con la spada e la dirigenza serba sarà costretta a fermarsi, ciò potrà forse mettere una fine provvisoria alla terribile guerra in corso, ma la ricostruzione rimarrà molto, molto lontana.   




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