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Riccardo Dello Sbarba: Reggersi in bilico su di un cippo di frontiera

26.11.2005, Decalogo per la convivenza- euromediterranea 2005

Cercherò di scavare dentro alcune parole chiave del “Decalogo della convivenza” scritto da Alexander Langer nel 1994. Interetnicità è un termine difficile da maneggiare perché contiene dentro di sé l’opposto negativo: l’“etnicità”.
Se dici inter-etnico, dici anche etnico. Chi vive in situazioni di coesistenza plurietnica, avverte spesso il disagio di sentirsi “sporcati di etnicità”, pur lavorando per l’inter-etnicità. Però Langer sa che chi rinuncia a nominare l’”etnicità” la rimuove e le lascia campo libero. E che chi rifiuta il termine “interetnicità”, manda perduta anche la speranza che sottintende.

E tuttavia: cos’è l’“etnicità”? Alex la prende sempre con le molle. Avverte che “non ha nulla di scientifico”. Che si usa quando alcuni fattori - cultura, lingua, storia, religione - danno luogo a un senso di appartenenza, a un “noi”, che può essere esasperato fino all’etnocentrismo, “l’egomania collettiva – avverte - più diffusa oggi”.

Esistono dunque le culture, le lingue, le tradizioni, le religioni. Ma esse diventano “etnicità” quando diventano una variante della politica, cioè della lotta per il potere, delle norme dello Stato, del funzionamento istituzionale.
Esistono capelli neri, castani e biondi. Ma se tutti i biondi si mettono insieme, si convincono di avere diritti particolari, fondano un partito e conquistano il potere, ecco che il colore dei capelli diventa fattore di una politica etnica. E chi non ha quel colore è pronto a diventare un capro espiatorio. Nei casi peggiori, tutto comincia proprio dal capro espiatorio.

Quando le differenze linguistiche, culturali o religiose si “mettono in politica”, ciò può avvenire con più o meno intensità. Si va dalla giusta difesa di minoranze e popoli indigeni, alla spartizione etnica dello stato, delle risorse o del territorio, fino al dominio dei forti sui deboli. Non tutta la politica etnica è dunque un male; ma se l’intensità cresce, l’etnicità scesa in politica può raggiungere il grado più grave e sanguinoso: quello della violenza armata, del confronto militare.
Riassumendo, ciò che chiamiamo “etnicità” può assumere tre forme di intensità: quella culturale, che ha origine nella biodiversità delle civiltà umane e può dar luogo a uno scambio equo e solidale; quella politica, che rischia di diventare un sempre più intenso tiro alla fune; infine quella militare e violenta.
“Fare interetnicità” significa operare costantemente per far devolvere l’etnicità dalla forma più intensa alla meno intensa, dalla più violenta alla più mite. Per spingerla allo stadio più innocente possibile: dalla violenza alla politica; dalla politica alla cultura.
In Sudtirolo le differenze linguistico-culturali si sono messe in politica e hanno determinato un sistema misto, sempre in bilico tra dimensione territoriale e etnica, tra difesa delle minoranze e sopraffazione dei diritti delle persone.

C’è sempre una forzatura nella costruzione di queste identità etniche. Si tira una linea di frontiera e si comincia a distinguere tra chi sta di là e chi sta di qua. Col muro, i berlinesi si “scoprirono” improvvisamente di qua o di là. I tirolesi si scoprirono “nordtirolesi” e “sudtirolesi” dopo il 1918. Francia e Inghilterra si costituirono facendosi la guerra dei 100 anni, la Spagna nella riconquista contro gli arabi.
Finché vivevo in Toscana non ho mai pensato che ero “italiano”. L’ho scoperto quando sono arrivato in Sudtirolo, dove l’essere italiano ha una valenza politica.

Ma se si scava, si vede che la frontiera non riesce mai a dividere così bene: da dove venivano i nostri antenati? Quante culture hanno contribuito alla nostra formazione?
Nei casi di convivenza plurietnica la gente sa benissimo che la frontiera è una finzione. Sa benissimo che nei Balcani è difficile distinguere tra Croati puri, Serbi puri, musulmani puri. Ma quando l’etnicità si butta in politica, o si mette a sparare, i più fanno l’opzione, gettano una parte di sé e si schierano. Così viviamo come tanti dottor Jekill e Mr. Hyde. In Sudtirolo sentirete tutti dire: nella vita quotidiana non ci sono problemi. Ma poi gli stessi corrono a votare per partiti etnici.

C’è anche la tradizione inventata, l’etnicità come fattore commerciale. Al mio paese, in Toscana, hanno inventato un Palio che non c’è mai stato, hanno fatto perfino corsi per insegnare alla gente un po’ di “sana rivalità” tra rioni. Poco dopo si sono accorti che anche i paesi intorno si erano inventati palii analoghi, o settimane medievali. La ricerca di finte identità sbocca nel diventare “identici” a tutti gli altri.

Intervenendo in questo convegno, Wolfgang Sachs e Guido De Nicolò hanno detto che, nonostante la loro perfetta padronanza dell’italiano, avrebbero parlato in tedesco perché bisognava fare gli interetnici. Florian Kronbichler ha detto invece di volere lui parlare in ogni caso in tedesco, perché l’interetnicità comporta fatica e impegno. Come vedete, se l’etnicità è parola problematica, e a volte finzione, anche l’inter-etnicità non se la cava male.

Ponte. È un’immagine costante in Langer. Beati i costruttori di ponti, i saltatori di muri, gli esploratori di frontiera. Attenzione all’ultimo termine: non dice “attraversatori” di frontiera, ma “esploratori”. “Grenzgänger” in tedesco: gente che si muove lungo le frontiere. Cioè che prova, verifica, assaggia, cerca di capire quando la frontiera si può attraversare e quando va rispettata, quando è solida e quando è sottile. Mettere alla prova la frontiera: anche questa è arte della convivenza.
I limiti della biosfera, per esempio, non si possono violare. Davanti alle frontiere del pianeta bisogna fermarsi. Ci sono ponti da gettare e ponti che è meglio non costruire, come il ponte sullo Stretto di Messina.

Ma anche il ponte è immagine paradossale: per esempio, per avere un ponte bisogna avere due sponde. Anzi, bisogna costruirle, consolidarle: non sono le sponde che fanno il ponte, ma il ponte che fa le sponde, che le fa esistere l’una per l’altra.

Ma siamo sicuri che queste sponde ci siano davvero? E che siano solo due?
In Sudtirolo ufficialmente dovrebbero esserci solo tedeschi, italiani e ladini. La legge fa finta che non esistano gli immigrati, che nel censimento devono aggregarsi ai tre gruppi storici. Eppure sono più di 20 mila, più dei ladini, e vengono da più di 100 paesi del mondo. I nostri etnicissimi gruppi italiano, tedesco e ladino sono pieni di cinesi, senegalesi, tunisini, balcanici, peruviani.

Dunque le sponde non sono solo due, ma dieci, cento, mille… E come si fa a fare un ponte? Mille ponti diventerebbero un disastro ecologico.
Una terra con mille sponde non è più un continente. Piuttosto è un arcipelago. Tra mille isole è preferibile spostarsi con una leggera barca di legno, piuttosto che attraverso mille ponti di ferro e cemento.

Il pendolo è il contrario del ponte. L’immagine compare in un testo del 1985, in occasione della vittoria elettorale del Msi a Bolzano (il richiamo è dunque attuale). Alex parla della maledizione del pendolo, tiro alla fune dell’ostilità. L’oggi a me e il domani a te. Mors Tua, vita mea.
Il pendolo oscilla e quel che guadagna da un lato, se lo mangia dall’altro. Nello scontro etnico, ciascuno cerca di gettare il pendolo dalla parte a lui più favorevole. C’è chi vince e chi perde e chi cerca la rivincita.
Il ponte e il pendolo: il primo unisce, l’altro divide; il primo somma, l’altro sottrae; il primo affratella, l’altro inimica; il primo dischiude mondi, l’altro li serra; sul primo ci si muove in entrambe le direzioni, l’altro si sposta a senso unico. Nella logica del pendolo la politica è ridotta a legge fisica dei moti e dei gravi.

Essere maggioranza o minoranza: anche questo è un pendolo. I tedeschi del Sudtirolo sono minoranza in Italia, maggioranza in Provincia, minoranza a Bolzano, maggioranza nel quartiere vecchio. Nella logica del pendolo, ciascuno cerca il luogo che gli è più favorevole. Nella logica del ponte ciascuno sa di essere contemporaneamente maggioranza e minoranza. Far crescere questa consapevolezza è “arte della convivenza”.

L’Arte della convivenza ha tre alleati: l’autogoverno, i traditori, i gruppi misti.
L’autogoverno trasforma il territorio conteso nella casa comune da curare insieme. Più democratica è la forma dell’autonomia, più si riesce a contenere il conflitto etnico.
I traditori sono quelli che posano le armi e ammainano la bandiera. Sono quelli che scavano nell’etnicità e ne svelano le trappole e le finzioni. Sono quelli che si curano dei feriti, dei bambini e dei malati.
I gruppi misti sono gli esploratori di frontiera. E’ difficile andare da soli per confini che di solito l’uomo ha tracciato sui luoghi che dividono, nei punti più pericolosi e difficili. E’ meglio camminare con persone che provengono da entrambi i lati, così che ciascuno spieghi all’altro le bellezze e gli inganni del proprio versante. Insieme non si inciampa, non si cade nei dirupi, non si affoga nei torrenti.
La frontiera è uno spazio che non esiste, è un’utopia, come la retta nella geometria. Se si percorre in gruppo, la linea sottile si allarga e emerge nuova terra, la terra di nessuno, cioè la terra di tutti. Il gruppo misto crea attorno a sé uno spazio che prima non esisteva.

Quest’anno abbiamo inaugurato “Euromediterranea” camminando lungo i monti al confine del Brennero. Il nostro amico artista Peter Kaser aveva preparato uno strano marchingegno che ci avrebbe permesso, diceva, di stare in equilibrio sulla terra di nessuno. Era un’asta a punta, con due staffe per i piedi: chi riusciva a reggersi in bilico su un cippo di frontiera, mettendo la punta lì dov’è segnata la linea di confine, si sarebbe trovato nell’unico luogo al mondo che non sta né di qua né di là.
Era un esercizio molto langeriano. Non serviva forza, ma attenzione e leggerezza. Ci riuscivano solo i bambini, o gli artisti.

Riccardo Dello Sbarba è insegnante, giornalista.
Attualmente è anche Consigliere regionale dei Verdi in Trentino-Alto Adige/Südtirol

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