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Guido Denicolò: Della fatica di costruire ponti

26.11.2005, Decalogo della convivenza: euromediterranea 2005
Nelle varie commemorazioni che si sono susseguite negli ultimi mesi di Alexander Langer è stato rievocato soprattutto il suo impegno sovraregionale: Alex Langer l’europarlamentare e il politico con il suo dolore per le conseguenze del processo di disgregazione nei Balcani.

Ritengo però che sia stato tralasciato un aspetto importante. Gad Lerner oggi ha in un certo senso colmato la lacuna facendo riferimento a ciò da cui Alex è partito. E il punto di partenza di Alexander Langer – del suo agire come del suo pensare – era il Sudtirolo.
Penso che nel caso di Alexander Langer la massima “pensare in modo globale e agire in modo locale” valesse al contrario: lui pensava in modo locale e agiva in modo globale. Il Sudtirolo era il laboratorio d’esperienze e di riflessione dove affinava la sua sensibilità rispetto ai conflitti di carattere etnico-nazionalistico e alla loro pericolosità, che andava presa sul serio, il suo fiuto per i problemi di convivenza e di comunicazione di carattere etnico-nazionale. Senza tale affinamento della sua capacità di captare questo genere di problematiche, senza questo allenamento costante svolto in Sudtirolo e avente come oggetto il Sudtirolo, penso che l’Alex Langer che oggi commemoriamo non sarebbe nemmeno pensabile. Per lui dunque il Sudtirolo costituiva una specie di modello, che però non era soltanto un modello positivo, bensì anche potenzialmente negativo. Non riteneva infatti che fosse solo un modello esportabile: era anche un modello rispetto al quale non era escluso si dovessero prendere delle precauzioni. Il Sudtirolo cui si riferiva era soprattutto quello dell’era del post-pacchetto. Durante i suoi studi universitari e nella sua tesi di laurea si occupò e approfondì proprio quella fase di svolta e di passaggio che dal conflitto etnico degli anni Cinquanta e Sessanta portò alla nuova stabilizzazione dopo il 1969-71. Non lo fece in modo freddo e distaccato, nelle sue analisi si intuisce la presenza di desideri e di paure. Ho letto la sua tesi – che si legge male come tutte le tesi – ma è chiaro che l’autore si sentiva coinvolto nella materia che trattava, che non si limitava solo ad assolvere ad un dovere per ottenere un titolo di studio. Partecipava in modo critico ad uno sviluppo, ad un processo che – questa era la sua convinzione – poteva avere un esito positivo come un esito negativo. Già allora queste conclusioni scaturivano dalla sua particolare sensibilità, che era appunto il contrario dell’egomania, essendo improntata ad un sincero altruismo venato di forte curiosità. Questa impostazione influenzò il suo atteggiamento verso il Sudtirolo e poi verso situazioni simil-sudtirolesi in altre regioni. Per Alex Langer l’altro – e lui cercava l’altro – era colui verso cui, in un certo senso, si era sempre in debito. L’altro era qualcuno cui si doveva andare incontro, cui forse non si era dato qualcosa e verso cui quindi si era in qualche modo debitori. Di certo Langer provava molto spesso una specie di senso di colpa rispetto all’altro – questo “altro” che in principio era indefinito, anche se molto spesso comunque identificabile. Non vogliamo discutere qui di quanto questo suo approccio potesse derivare anche da convinzioni religiose. Sicuramente però Langer capì abbastanza rapidamente quale direzione si apprestava a imboccare il Sudtirolo. Era sufficientemente esperto di diritto per comprendere quale sarebbe stato il clima giuridico conseguente alla nuova autonomia. Così come era ferrato abbastanza non solo per intuire la forza normativa delle situazioni fattuali – per sapere cioè che i fatti alla lunga generano regole – ma anche per sapere quale forza di effettivo condizionamento dei comportamenti potessero sviluppare le norme formali. Per lui quindi tutto il dibattito giuridico – che era in primo luogo un dibattito giuridico sulla nuova autonomia – era il chiaro segnale che si intendevano stabilire norme che non sarebbero rimaste soltanto sulla carta. Qui in realtà venivano stabilite delle regole che influenzavano e condizionavano i comportamenti e che avrebbero inevitabilmente finito per creare dei modelli comportamentali. Per questo motivo Alex Langer era sempre molto interessato agli aspetti formali e di contenuto. Nutriva una grande comprensione per il gruppo linguistico tedesco, per il suo essere diventato, a causa di una serie di esperienze storiche, una comunità di sopravvivenza, una comunità chiusa cui, appunto, importava soprattutto di sopravvivere. E sapeva che il gruppo linguistico tedesco sarebbe entrato in questa nuova autonomia proprio come comunità di sopravvivenza, condizionandola in tal senso. Allo stesso modo comprendeva che la nuova autonomia avrebbe suscitato nel gruppo linguistico italiano un forte senso di perdita: la sensazione di dover rinunciare a qualcosa, il sentirsi spodestati, il disorientamento, il senso di impotenza. E credeva che dovesse e potesse essere possibile ammorbidire entrambe le posizioni e giungere ad un dialogo, cioè ad una crescente collaborazione interetnica. A Langer fu però anche subito chiaro che nel gruppo linguistico tedesco, nella comunità di sopravvivenza, la richiesta di autodisciplina interna, di autosacrificio nell’interesse del gruppo, era molto forte, che esisteva una chiara aspettativa e contemporaneamente anche una notevole disponibilità individuale a subordinarsi e allinearsi. Si rese conto che l’identità può avere anche un secondo aspetto, del tutto negativo: l’identità come annullamento dell’individuo, l’identità intesa come essere identici con un gruppo, con il “più grande“. Identità come perdita di identità (individuale). Iniziò ad evidenziare questo pericolo fin da subito, pubblicamente, anche se dovette presto rendersi conto che in Sudtirolo vigeva ormai da molto tempo un regolamento interno che non veniva messo né doveva mai essere messo in discussione. Si accorse presto che la forma di governo più dispotica e acribica era la consuetudine, l’abitudine. E ne pagò tutte le conseguenze. Alex Langer non fu soltanto contrastato in modo duro, gli successe in realtà di peggio: rimase incompreso, e penso che fosse soprattutto questa circostanza a fargli più male. Infatti non riusciva proprio a capire come fosse possibile chiudersi così a riccio di fronte ad una causa giusta come quella per cui si stava impegnando. Voleva essere un saltatore di muri e in effetti ha anche saltato i muri, ma non lo volevano né da una parte né dall’altra. E per questo motivo lo ricacciavano continuamente da un lato all’altro della barricata. Sarebbe forse diventato un “transfuga“, solo che non esisteva una parte giusta, dalla quale avrebbe potuto passare: entrambi i contendenti avevano a loro modo torto e ragione. A mio avviso non avrebbe voluto essere un traditore, piuttosto invece un mediatore e un costruttore di ponti. Ma gli è successo come ai costruttori del ponte di Mitrovica, una città kossovara che collega albanesi e serbi, ma nessuno dei due gruppi lo vuole. E così viene bloccato da entrambi, perché nessuno possa attraversarlo e andare da una parte all’altra. Ecco una situazione assurda e tipicamente langeriana: un ponte distrutto durante la guerra viene ricostruito da stranieri beneintenzionati, ma le due parti che dovrebbero utilizzarlo lo rifiutano. Nella sua terra Alex Langer era un costruttore di ponti di questo tipo. Nell’era di generale soddisfazione e tranquillizzazione post-pacchetto fu uno dei pochi a rendersi conto che si era evitato un conflitto armato e che la stabilizzazione raggiunta si fondava su una pressione reciproca, come succede – l’ho letto molto tempo fa – nelle cupole sovrapressione, che si reggono appunto sul carico esercitato vicendevolmente dagli elementi che le compongono. Sotto questa cupola si svolgeva la vita effettiva. Alexander Langer però non solo mal sopportava l’aria viziata che si respirava sotto la cupola, ma si accorse anche ben presto che sotto la cupola non ci si poteva nemmeno più muovere liberamente. E qui riemerge, penso, la sensibilità giuridica di Langer. Si rendeva conto che le istituzioni create erano ben più di semplici forme. Erano sì la conseguenza di una reale crisi nei rapporti tra i gruppi linguistici, ma portavano in sé anche il pericolo chiaramente riconoscibile di comporre la crisi facendola diventare un’abitudine e quindi eternizzandola. Si trattava di istituzioni che funzionavano sulla base di un costante compromesso tra i gruppi linguistici giocato su meccanismi di pressione e di alleggerimento e che creavano un ordine stabile mediante separazione. Mentre i più stavano ancora a stringersi le mani e a complimentarsi per la riuscita „soluzione sudtirolese“, Langer aveva già capito che essa si basava sul principio fondamentale della divisione e della separazione permanenti e che quindi – in ultima analisi – si costruiva sul reciproco disinteresse istituzionale tra i gruppi linguistici. Questo disinteresse era stato istituzionalizzato e innalzato a norma costituzionale e quindi destinato a perdurare. A lui, che aveva iscritto nel DNA l’interesse per l’interesse dell’altro, sembrava una cosa insopportabile. Lui l’altro non voleva soltanto conoscerlo, voleva sapere quali fossero i suoi bisogni, voleva rispettarli e accoglierli. Con il suo fiuto riuscì a scoprire ben presto quale fosse il punto debole del sistema. E lì fu non solo giurista ma anche politico abbastanza esperto per agire e intervenire, per premere da subito e incessantemente su quel vulnus. Si era accorto che il sistema non si fondava sulla coesistenza pacifica, bensì sulla segregazione pacifica, sulla separazione e l’isolamento consapevole (“uguali ma divisi“) e questo non lo accettava. E come persona che pensava in termini politici, non voleva limitarsi a soffrire, ma agire e tentare di trovare compagni e alleati per fare qualcosa. Li trovò in persone che nel Sudtirolo della segregazione esistevano in carne e ossa tanto quanto tutte le altre: i mistilingue ovvero persone che nonostante tutto avevano deciso di sposarsi con qualcuno dell’altro gruppo, i figli di matrimoni misti, ma anche gli appartenenti ad altre nazionalità che vivevano in Sudtirolo. Non è dunque un caso, se le prime iniziative giuridiche contro questo sistema di inserimento forzato in uno dei tre gruppi ufficiali partirono da sudtirolesi che appartenevano contemporaneamente a più gruppi oppure a nessuno di essi (come ad esempio alcuni concittadini sloveni). Non era infatti previsto che accanto a tedeschi, italiani e ladini vi fossero anche concittadini di altra lingua o „mistilingui“, e quello con cui il sistema aveva fatto ancor meno i conti era che vi fosse un gruppo di „indisciplinati“ che non volevano farsi incasellare. Sono queste le persone su cui Alex Langer fece affidamento quando nel 1981 mise in moto la nota campagna contro il censimento etnico. Con le sue acute doti di analisi aveva infatti capito che la proporzionale etnica e la dichiarazione di appartenenza ad un gruppo linguistico non erano pensate soltanto come misure riparatorie transitorie – cosa che avrebbe potuto tentare di capire, come si deduce chiaramente dalla sua tesi del 1969. In realtà la posta in gioco era ben più alta: la proporzionale e la dichiarazione etnica erano ormai concepite come elementi stabili e “immutabili“ di un ordine basato sulla separazione e segregazione. Nessuno era disposto a attribuire a tali misure un carattere provvisorio, a farne delle misure positive nel senso oggi generalmente accettato, aderenti al principio di fondo che al graduale diminuire delle discriminazioni deve diminuire anche l’incidenza delle misure, affinché il superamento della discriminazione coincida con il superamento delle misure. Al contrario, dette misure vennero pensate come elementi stabili („pilastri“) di un ordine duraturo fondato sulla separazione. In particolare per quanto riguarda il censimento, Alex Langer aveva ben presente che non si trattava semplicemente di fare la conta, ma anche di identificare le persone. Non si doveva solo rilevare la consistenza dei vari gruppi, si dovevano identificare i singoli individui come appartenenti ad un gruppo o ad un altro. Fu questo il grande salto di qualità del censimento del 1981. Ogni sudtirolese doveva essere identificato con nome, cognome e indirizzo come appartenente al “suo“ gruppo. Restare fuori da questo sistema significava la perdita di diritti e quindi la prospettiva dell’emigrazione o dell’esilio interno. È evidente l’analogia con il censimento nazista del 1933 in Germania, svolto con la collaborazione attiva dell’IBM, quando gli ebrei non vennero soltanto contati, bensì resi identificabili e quindi „afferrabili“. Doveva essere costituito un catasto etnico, un inventario etnico-biologico della popolazione. Si doveva poter distinguere tra ciò che era giusto e ciò che era sbagliato, il mezzo e l’intero ecc. Langer aveva capito che ogni volta che si raccolgono informazioni personali sugli individui, queste prima o poi vengono usate contro di essi. Sono tutte cose che poi si sono effettivamente avverate. Persone che conoscono bene la Bosnia, il Kossovo, il Ruanda, mi hanno detto che è andata proprio così: i genocidi, gli scontri etnici e gli atti di violenza non avrebbero avuto la dimensione che ebbero se non vi fossero stati strumenti formali di identificazione etnica, come ad esempio i dati di censimenti o le informazioni anagrafiche relative all’appartenenza o all’origine etnica. Ma la storia ha sempre anche i suoi risvolti paradossali, e così la proporzionale - come oggi spesso succede con i cosiddetti corpi di pace - non ha portato soltanto alla separazione, ma anche ad una specie di vicinato e persino ad una certa mescolanza.
Certo, si deve riconoscere che nei fatti dopo la morte di Langer l’onnipresente stress etnico si è ridotto, anche se ciò non è dovuto ad un mutamento sostanziale del clima politico o alla volontà politica di chi ha potere decisionale, bensì a fattori di distensione esterni, al benessere, alla possibilità di conoscere il mondo, spesso senza dover per forza mettere il naso fuori: la globalizzazione e la società del divertimento hanno contribuito a trovare un’intesa.
In conclusione sorge spontanea la seguente domanda: l’Alexander Langer qui tratteggiato è ancora attuale in Sudtirolo?
Francamente non lo so.
Forse non lo è più come in passato, e sarebbe già un progresso, il sintomo di un miglioramento. In altre parti del mondo Langer, purtroppo, è ancora attualissimo, come dimostra in modo del tutto inequivocabile il „Premio Alexander Langer“, che ogni anno vede ancora premiate persone che fanno da mediatrici in analoghe situazioni di conflitto, che abbattono muri, che saltano muri e spesso si fanno cacciare da una parte del muro all’altra.
Fortunatamente oggi in Sudtirolo non c’è motivo di attribuire il Premio Alexander Langer. Ma ciò che è peggio, è che oggi in Sudtirolo non esiste nessuno che lo meriterebbe.

(traduzione a cura di Donatella Trevisan)

Guido Denicolò è avvocato di Stato a Trento
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