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Il risveglio delle etnie

1.10.1983, Quaderni piacentini n. 10, 1983
Cultura della convivenza: cartina di tornasole per i movimenti etnico-nazionali


1. Il risveglio "etno-nazionale" c'è
Che sia in corso, almeno nei paesi sviluppati dell'area capitalistica, un interessante risveglio delle etnie, che si manifesta in molte forme, è effettivamente leggibile da numerosi sintomi.
Va aggiunto, tuttavia, che il "rivival" etnico-nazionale, di cui parliamo, presenta altrettante facce e sfacciature quante sono le etnie di cui è espressione, se non di più. Ricordiamo, innanzitutto, che si sta parlando di tendenze, movimenti ed attività che si riferiscono a gruppi minoritari, generalmente in conflitto con lo stato o altri ordinamenti dominanti: l'"etno-nazionalismo" che è l'oggetto di questa riflessione, si sviluppa in gruppi che si ritengono in qualche modo discriminanti, esclusi, minacciati, e che comunque non dispongono di un potere statuale (o non ne dispongono in misura sufficiente) cui affidare la propria affermazione. Il nazionalismo di etnie o nazionalità dotate di un proprio potere statuale va analizzato con altri strumenti, e secondo altri criteri, anche se non si può escludere che esso possa beneficiare di una sorta di riabilitazione che, grazie anche ai movimenti etno-nazionali, faccia risalire le sue quotazioni alla "borsa" dei valori.
Protagonisti del risveglio etno-nazionale considerato sono, per ora, soprattutto le etnie o minoranze più tradizionali, ad antico insediamento territoriale, di solito - ad eccezione degli zingari e degli ebrei - radicate in precise regioni. Ma è prevedibile che ben presto si moltiplicheranno i segnali (che in alcuni stati già si colgono: in Gran Bretagna, in Francia, in Germania Federale, in Olanda, in Svizzera, ecc.) di analoghi risvegli tra le nuove minoranze etniche: gli immigranti (in genere per ragioni di lavoro) e, forse, anche i profughi. Sarà ben difficile negare a loro ciò che si comincia a considerare legittimo per le etnie "col pedigree", anche perchè le condizioni materiali e politiche di queste minoranze di immigrazione più recente sono spesso assai più drammatiche.
Bisognerà, dunque, rendersi conto che la contraddizione etno-nazionale andrà inserita tra quelle con cui sempre di più - per ragioni obiettive e soggettive - bisognerà fare i conti; forse si può cogliere qualche analogia con la questione religiosa.
L'amplissimo arco di differenziazioni e diversità di impostazione e di accenti che in concreto si nota nei relativi movimenti o nelle iniziative e rivendicazioni, è dovuto non solo al grado spesso ancora embrionale in cui si trovano, ma soprattutto alla irriducibile diversità di condizioni in cui vivono le diverse etnie e minoranze. Vi influiscono, tra l'altro, il tipo di stato e di ordinamento giuridico, la lingua (le lingue, i dialetti), la contiguità o meno con stati nazionali affini, la storia, la struttura socio-economica, lo stesso ruolo storicamente rivestito dalle etnie in questione, il tipo di insediamento sul territorio, la confessione, la cultura (caratterizzante sia le etnie minoritarie che maggioritarie), l'organizzazione sociale, politica, religiosa, culturale dell'etnia, l'ideologia dominante, i conflitti vissuti, gli obiettivi e le forme di lotta praticate, e tanti altri fattori ancora: non ultima la consistenza numerica del gruppo etnico in questione.

2. I "portoghesi" del risveglio etnico
Oltre alla differenza spesso profonda, tra i vari gruppi etno-nazionali, va considerata anche la differente rilevanza e qualità del fenomeno della ripresa o dell'insorgenza etnico-nazionale.
Mentre in alcuni casi (a titolo di esempio si possono ricordare la Corsica, l'Occitania, la Galizia, il Friuli, tra i casi di ripresa relativamente recente) ci si trova dinnanzi a movimenti o inizi di presa di coscienza con un forte radicamento, attuale o potenziale, nella realtà in cui operano, e quindi a fenomeni la cui rilevanza oggettiva è incontestabile (e viene riconosciuta di solito, magari in negativo, anche dalla controparte), si presentano sulla scena altre situazioni di qualità francamente assai dubbia. Rilevanza - specie se politica - e qualità di un movimento che si qualifichi in qualche modo etnico-nazionale non necessariamente coincidono: basterà ricordare il caso dell "Liga Veneta" che ha preso persino il suo deputato al Parlamento italiano, o del "Melone" triestino, o delle varie sigle che si rifanno a civiltà mittleuropee o addirittura asburgiche (con espliciti riferimenti lombardo-veneti o simili).
Per dirla in breve: all'ombra di un interessante e giustificato "revival" etno-nazionale avanzano anche rivendicazioni e movimenti pseudo-etnici che trovano la loro origine in genere nel tentativo di sottrarsi a qualche solidarietà ritenuta troppo ampia e troppo onerosa. Nella crisi diffusa dei valori e delle ragioni generali, e di fronte all'imporsi di apparati complessi e impenetrabili ad ogni richiesta proveniente dal basso, diventa più facile che guadagni consensi la vita della ricerca di privilegi corporativi, di ordinamenti o diritti particolari, di autonomie speciali, del "si salvi chi può", visto che non si ritiene di poter operare per salvare il tutto e tutti.
Ed è così che in numerosi casi una ragione "etnica", considerata giustamente un titolo particolarmente valido per rivendicare forme di autogoverno e concessioni speciali, viene improvvisata e financo inventata a sostegno di richieste particolaristiche altrimente deboli e poco motivate sul piano dei principi: l'istituzione della provincia di Lecco, di Biella o di Prato, il porto franco di Trieste, la concessione di un'autonomia speciale alla Val d'Ossola, un ulteriore rafforzamento dell'autonomia siciliana o una sorta di divieto di immigrazione nel Trentino - rivendicazioni, queste, avanzate da una serie di gruppi e movimenti che cercano di inserisi nel più ampio risveglio etnico-nazionale e di beneficiarne di riflesso - si presenterebbero sicuramente con maggiore forza se potessero legittimamente accampare titoli "etnici" a sostegno delle proprie richieste.
Succede, dunque, che una serie di "portoghesi" cerchino di imbarcarsi sulla rotta delle istanze etnico-nazionali, e che talvolta la rilevanza acquistata da queste forze superi di gran lunga quella di gruppi o movimenti di ben altra qualità (ad esempio: gli albanesi in Italia) e rischi di offuscare ed intorbidire le ragioni più valide che stanno alla base del risveglio di cui parliamo.

3. Tendenze, non ancora indirizzi consolidati
In effetti, di fronte al nuovo etno-nazionalismo le polarizzazioni tradizionali lungo le quali, in particolare a sinistra, si erano organizzati i criteri per valutare i nazionalismi, gli autonomisti, i separatismi e simili fenomeni, non soddisfano più e non aiutano a comprendere e giudicare realmente i fenomeni, anche perchè sono mutati i significati dei termini da entrambi i lati della contraddizione. A quale universale, infatti, si contrappone il particolare di un gruppo etnico? E perchè il radicamento (i legami, i vincoli) dovrebbe di per sè cedere il passo all'emancipazione, se questa molitiplica - sì - le possibilità astratte di scelta, ma finisce per "sradicare"? E se l'attentamento della propria, magari corporativa, identità etnica porta semplicemente ad una sorta di generale fungibilità, perchè arrischiare dei passi in quella direzione?
Di fronte ad un internazionalismo diventato debole e spesso assorbito da due possibili scelte di campo altrettanto inaccettibili, c'è forse da meravigliarsi che i campanilismi riguadagnino quota? E il cosmopolitismo è sufficiente da debellare la tentazione del razzismo? La pura e semplice integrazione - specie se forzata - non apparirà una valida alternativa al ghetto, come l'assimilazione non ha i numeri per contrastare l'isolazionismo. I tratti del binomio progresso/arretratezza appaiono confusi ed inservibili.
Insomma: in nome degli ideali di uguaglianza, di emancipazione, di universalismo non solo la Francia ha praticamente annientato le sue minoranze ed etnie particolari. In nome del progresso sono stati messi al bando i dialetti, le lingue locali. In nome del "fuori i colonialisti" c'è chi rivendica "via gli italiani dal Veneto" e dai ghetti è germogliato quel sionismo che oggi anima i coloni ebrei anti-arabi della Cisgiordania. Il razzismo e la xenofobia sono altrettanti esiti possibili di una vecchia, ma tenace polarizzazione quanto l'assimilazione forzata e la discriminazione delle minoranze: con l'importante, ma non decisiva differenza che chi non ha raggiunto una propria forma di statualità, non ha potuto far diventare ragione generale la sua piccola o grande ragione particolare, ed ha quindi combinato guai di assai minore entità.
Nel giudizio sugli orientamenti espressi dai movimenti etno-nazionali della nuova ondata, va quindi tenuto conto che più che altro si articolano tendenze, non ancora indirizzi consolidati e chiariti fino in fondo. Laddove questi orientamenti hanno avuto modo di chiarirsi maggiormente attraverso forme di esercizio di potere statuale (ad esempio nel Sudtirolo da parte dei tirolesi tedeschi; in Canada da parte dei francofoni; in Belgio da parte dei fiamminghi, ecc.), non si può dire che gli sbocchi abbiano espresso un notevole potenziale di liberazione. (Ma questo non avviene certamente solo tra i movimenti ad impronta etnico-nazionale: quanti altri "movimenti di liberazione", una volta andati al potere, hanno sfoderato l'altro lato della medaglia?)

4. I movimenti etnico-nazionali possono essere o diventare parte dei "nuovi movimenti", ma non è un dato scontato
Chi oggi analizza - come Marco Diani - i movimenti etnico-nazionali come "uno dei tanti possibili canali tramite cui si manifesta l'opposizione alle strategie del dominio" e li inserisce, pur con le proprie specifiche pecularità, tra i movimenti che, nelle società industrializzate e complesse, esprimono bisogni ed istanze irriducibili ed in qualche modo trasversali rispetto alla struttura dominante, coglie sicuramente un aspetto importante delle potenzialità di queste tendenze.
Parecchie sono, in effetti, le caratteristiche che accomunano i movimenti etnico-nazionali a movimenti quali quelli femministi, pacifisti, ecologisti, religiosi o mistici, e così via; tra quelle più immediatamente salienti la forte concentrazione sul singolo obiettivo ("one-issue"), anche a prescindere da eccessivi riguardi verso visioni o costruzioni generali; il rifiuto di collocarsi rispetto a presunte contraddizioni generalissime e fondamentali quali quella di classe ed il rifiuto di inserirsi entro un quadro ideologico generale; la propria volontà di essere "altro" rispetto alle polarità dominanti.
Il loro programma consiste soprattutto nell'affermazione della propria identitá. La contraddizione tra l'affermazione della propria separatezza da un lato e la lotta per trasformare, in nome del proprio specifico, anche il complesso della società dall'altro, tende ad avvicinare la problematica dei movimenti etnico-nazionali in particolare a quella di un altro movimento che pure si fonda sull'affermazione di una diversità data (non acquisita per scelta), con una sua base naturale nè allargabile nè restringibile, ma di portata assai diversa a seconda che acquisti coscienza di sè o meno: il movimento femminista.
Ma molto più di altri, tra i "nuovi movimenti", quelli ad impronta etnico-anzionale risentono di due condizionamenti decisivi: quello del rapporto con la tradizione ed il passato (nel quale sta una loro ragion d'essere determinante) e quello del rapporto con il potere, o meglio, della loro diffusa aspirazione a costituirsi, in qualche modo, in potere statuale o para-statuale. In altre parole: i movimenti etnico-nazionali sono come condannati ad esaltare quel passato nel quale si radica l'identità collettiva cui si rifanno, anche se tale esaltazione può avere caratteristiche e finalità molteplici ed assai divergenti. Ed essi sono pure, se non condannati, almeno fortemente tentati dall'idea di cercare la soluzione dei propri problemi principalmente nell'instaurazione di un potere proprio (un proprio stato, la secessione ed annessione ad altro stato ritenuto più omogeneo, altre forme di autogoverno come l'autonomia, la costituzione di corpi separati, ecc.).
Sotto questi due profili i "nuovi" movimenti etnico-nazionali si trovano abbastanza distanti da altri movimenti "alternativi", con la cui ispirazione ed azione tuttavia possono spesso intrecciarsi, se non altro per la frequente "doppia appartenenza" dei militanti etnico-nazionalisti, soprattutto delle generazioni più giovani (si può forse ritenere che questo fattore soggettivo sia tra i più decisivi nella progressiva mutazione di segno di tali movimenti rispetto al più tradizionale nazionalismo).

5. Questione determinante: una cultura della convivenza
È abbastanza evidente che identità e coscienza delle etnie e minoranze discriminate si determinino in primo luogo proprio dal conflitto: dalla realtà e dalla presa di coscienza dell'oppressione subita, dalla lotta contro l'emarginazione, dalla necessità di difesa e di consolidamento di identità e specificità minacciate in vario modo nella propria consistenza e nel proprio sviluppo. È proprio la lotta etnica che, di solito, porta alla crescita ed al rafforzamento dell'identità etnica, individuale e collettiva - lotta etnica che assai spesso ha assunto, anche in tempi recenti, episodi e forme di lotta armata. Laddove da questi conflitti e da queste lotte sono sortiti nuovi ordinamenti, nuove regolamentazioni in risposta alle rivendicazioni etniche, si può dire - pur con l'avvertenza che ogni situazione va considerata a sè stante - che il conflitto etnico è stato riconosciuto, istituzionalizzato, in certo senso "statalizzato", come le etnie in questione si sono, in qualche misura, "fatte stato": si pensi ai casi dei fiamminghi e dei valloni, dei sudtirolesi, dei catalani e dei baschi in Spagna, dei canadesi francofoni, del Giura svizzero, dei greci e dei turchi a Cipro, delle confessioni ed etnie del Libano (gli ultimi due casi esemplificano maggiormente i possibili esiti di soluzioni iper-regolamentate e fortemente etnocentriche).
Anche nei casi relativamente meglio regolamentati, nei quali le singole etnie godono, in varie forme e misure, di un largo riconoscimento e di reali possibilità di autogoverno e partecipazione (si pensi ad ordinamenti quali la Svizzera, la Jugoslavia ed in particolare la provincia autonoma della Voivodina, lo stesso Sudtirolo), si rimane pur sempre sul terreno del conflitto istituzionalizzato e di svariate modalità di suo svolgimento disciplinato (soluzioni con ripartizioni proporzionali, alternanze, diritti di veto, ecc.).
Allora c'è da porre una domanda molto seria, in relazione al "rivival" etnico-nazionalista. Dato che il conflitto etnico, che sta alla base dell'esistenza e dell'azione di questi movimenti, contiene in sè una forte e spesso pericolosa carica di esclusivismo e di reciproca incompatibilità, non solo e non tanto verso una controparte statuale, ma verso altre comunità o persone, bisogna trovare un piano sul quale possano realizzarsi sia l'affermazione etnica sia la coesistenza con chi non appartiene all'etnia in movimento. Chi solleva il conflitto etnico e vuole collocarsi nell'ambito dei movimenti c.d. alternativi, non può non porsi questo problema; all'esclusivismo degli stati che hanno affrontato il problema delle etnie minoritarie in chiave di emarginazione, e/o di assimilazione non si può contraporre, da parte dei movimenti etnico-nazionali, un contro-esclusivismo, se ci si vuole inserire in una prospettiva di liberazione.
Le etnie, infatti, appartengono a quel genere di minoranze che non possono sperare di diventare maggioranze, attraverso il reclutamento di nuovi aderenti conquistati con un'opera di convincimento; ecco perchè rimangono solo due possibilità (se non si accetta l'assimilazione, contro la quale in genere si battono i movimenti etnico-nazionali): o si aspira ad una condizione in cui si sia maggioranza o addirittura padroni esclusivi in casa propria o si deve lavorare per un'ipotesi di convivenza. L'esempio più determinato della prima di queste due possibilità è forse offerto dal sionismo e dalla sua attuazione attraverso lo stato d' Israele, ma si ritrova - in tono e misura minore - in molte altre soluzioni di questioni etniche (ad es. in Belgio, Cipro, per certi versi anche nel Sudtirolo).
Se, dunque, si ricercano le differenze di qualità tra il nazionalismo di tipo tradizionale e nuove impostazioni dei movimenti etnico-nazionalisti recenti, un'attenzione particolare va posta su come si affronta la questione della convivenza. Resta inteso, ovviamente, che le etnie di cui non è assicurata la sopravvivenza, assai difficilmente potranno porsi seriamente problemi di convivenza: in questo senso è chiaro che molto dipende dai rispettivi stati.
Ma vi è un dato di partenza insopprimibile, dal cui riconoscimento o meno (da parte delle etnie come degli stati) dipendono differenti impostazioni di fondo: il dato della co-esistenza, della convivenza pluri-etnica, pluri-nazionale, pluri-linguistica, pluri-confessionale, ecc. è uno di quei fatti storici - certo, spesso frutto di ingiustizie e violenze - che non si possono voler rendere reversibili. (Anzi, è prevedibile che simili situazioni e problemi siano destinati a moltiplicarsi). E se si riconosce che nella stragande maggioranza delle questioni etniche non esistono alternative alla convivenza, il problema della costruzione di una cultura della convivenza diventa tanto determinante quanto ancora poco tematizzato nella prassi e nella teoria sia dei movimenti etnico-nazionali, sia degli stati entro i cui confini tali questioni insorgono.

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