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Le minoranze linguistiche in Trentino e la normativa europea

20.4.1991
1. Oltre 30 milioni di appartenenti alle lingue e culture minoritarie

Il Parlamento europeo nella sua risoluzione DOC 1-1254/82 "sulle misure a favore delle lingue e delle culture di minoranza" dell'11.2.1983 stimava in circa 30 milioni il numero di cittadini della Comunità che hanno come lingua materna una lingua regionale o poco diffusa; numero che nel frattempo, dopo l'estensione della Comunità alla ex-RDT dovrebbe essere ancora cresciuto, con l'ingresso dei sorbi e dei wendi nell'area comunitaria. Si tratta - per esempio, e senza pretesa di completezza - di scozzesi, gallesi, baschi, gaelici, catalani, valenciani, franco-provenzali, bretoni, occitani, ladini dolomitici, frisoni, arbresh, friulani, sardi, grecanici, mocheni, cimbri, zingari, ebrei che parlano jiddish... - oltre che di cittadini che parlano lingue di per sè non "minoritarie", ma che lo sono in particolari territori (il tedesco, il francese, lo sloveno, il danese..). Mi sembra che le minoranze linguistiche del Trentino rientrino dunque a pieno titolo nel novero delle lingue e culture considerate dai testi normativi europei.

2. Il Trentino non è il Sudtirolo

Una considerazione particolare va fatta per il Trentino. Qualche volta si ha l'impressione che l'idea dominante - o meglio, la tentazione dominante - tra qualcuno di coloro che si battono per il giusto riconoscimento e la tutela e valorizzazione delle identità culturali e linguistiche dei ladini e dei mocheno-cimbri nel Trentino, sia quella di "fare come nel Sudtirolo", dove certamente la tutela giuridica e l'affermazione socio-economica della comunità sudtirolese di lingua tedesca e ladina offrono un esempio di indubbio successo e quindi con notevole capacità di attrazione.

Il paragone sarebbe, tuttavia, fuorviante, per diverse ragioni: in particolare perchè si tratta - almeno per la popolazione di lingua tedesca, che in questo caso funge da benefico elemento di traino anche per i ladini - di una situazione appena "peninsulare" e non "insulare": la comunità sudtirolese di lingua tedesca non è un ridotto "residuo" di una lingua e cultura, prevalentemente non scritta, via via assediata e compressa (come è il caso delle lingue e culture regionali sopra considerate, anche quando la loro estensione geografica e quantitativa sia notevole, come p.es. nel caso del catalano o dello scozzese o del gaelico o del basco), ma appartiene ad una comunità linguistica e culturale assai forte e diffusa, e contigua, tanto da poter tranquillamente partecipare al suo circuito vitale. Il tedesco è una lingua che per l'appunto non è "regionale o poco diffusa". Inoltre si tratta di un gruppo etno-linguistico e sociologico (in tal senso vi possono essere compresi anche i ladini) sufficientemente numeroso da garantirsi una propria vita relativamente completa ed autonoma, con risorse culturali e materiali sufficienti ad assicurare vitalità e continuità.

Assai diverso il caso di vere e proprie "isole" linguistiche, etniche e culturali, quali p.es. quelle dei mocheno-cimbri; e gli stessi ladini del Trentino sono, in realtà, parte della più complessa ed articolata "isola ladino-dolomitica", insieme agli altri ladini dolomitici del Sudtirolo e del Bellunese. Comunità assai meno numerose, con lingue e culture e strutture materiali che, nel loro insieme, non possono assicurare - nelle condizioni odierne, in cui si trovano, e nel mondo moderno in cui sono inserite - quella relativa autosufficienza linguistico-culturale di cui si è fatto cenno a proposito dei sudtirolesi.

(A considerazioni simili, del resto, si sono ispirati i Verdi trentini, quando nel 1985 - insieme a quelli sudtirolesi - hanno organizzato il primo organico convegno su "Questione ladina e minoranze etno-linguistiche nel Trentino" e quando, nel 1990, hanno presentato il loro progetto organico e complessivo di tutela e promozione non solo culturale, ma anche ambientale e socio-economica, delle minoranze nel Trentino.)

Questo va premesso per sottolineare l'importanza che per le minoranze del Trentino ha la normativa europea: è assai più in quella che si possono trovare riferimenti utili per la sopravvivenzza e lo sviluppo, che non in certi strumenti di tutela conosciuti dal Sudtirolo cui talvolta si tenderebbe ad attribuire una valenza quasi magica (ed in particolare a "proporzionale etnica" e "censimento etnico"), quando si tratta invece di strumenti che possono rivelarsi utili - anche se magari discutibili - per una minoranza che sul proprio territorio sia maggioranza, ma non per chi si trovi nella assai più difficile condizione "insulare". Più piccola e minacciata è l'isola, inoltre, meno potrà affidarsi all'autarchia.

Forse basta dire, per individuare bene quale sia il problema, che mentre i sudtirolesi hanno, talvolta, scelto di affidare la propria affermazione e tutela alle ragioni dei numeri e del potere, perchè sapevano di averne abbastanza da potervi o volervi ricorrere, non sembrerebbe comunque produttiva l'analoga strada nelle differenti condizioni che si trovano nel Trentino.

3. Verso un "livello minimo europeo garantito" in fatto di riconoscimento dei diritti delle minoranze

Il tentativo del Parlamento europeo e del Consiglio d'Europa - e, ad un livello più globale, delle Nazioni Unite - ormai da oltre un decennio va nella direzione di elaborare un insieme di norme che assicurino una sorta di "minimo garantito" in fatto di tutela e valorizzazione delle lingue e culture minoritarie: un "patrimonio comune europeo" di criteri di tutela, che sia anche un parametro di civiltà democratica, un po' com'è successo nel famoso "atto finale di Helsinki" del 1975, che ha definito un "minimo garantito" di diritti umani come condizione politico-giuridica per appartenere a pieno titolo alla famiglia europea e per contribuire alla sicurezza e cooperazione in Europa. Naturalmente sappiamo bene che tale "minimo garantito" spesso è ben lontano dall'essere veramente "garantito", cioè tradotto in atti, norme, provvedimenti e normalità quotidiana - cionondimeno è assai importante che si cominci a disegnare un quadro di regole definite ed accettate da organismi internazionali, cui poi difficilmente gli Stati ed i loro enti locali potranno sottrarsi alla lunga. Inoltre non va sottovalutato il valore morale che simili risoluzioni hanno: una volta che in esse viene definito, con una certa autorevolezza, ciò che bisognerebbe fare per essere "giusti", si mette in moto un processo di rivendicazione e di negoziazione che ormai può contare su un grado relativamente elevato di accettabilità internazionale.

4. Lo stato attuale dell'elaborazione europea

Sino al momento attuale il Parlamento Europeo ha approvato alcune risoluzioni (DOC 1-965/80, relazione Arfé, del 16.10.1981, in G.U. 9.11.1981; DOC 1-1254/82 dell'11.2.1983, in G.U. 14.3.1983; DOC A2-150/87, relazione Kuijpers, in G.U. 30.11.1987) concernenti le lingue minoritarie e la tutela delle lingue e culture delle minoranze regionali ed etniche, ma non è ancora riuscito a portare a termine il più complesso tentativo di definire una sorta di "diritto europeo dei gruppi etnici", pur avendo tentato più volte di arrivare ad una "Carta dei diritti dei gruppi etnici nella Comunità Europea". L'ultimo e più organico di tali tentativi si ritrova nella relazione Stauffenberg al P.E., datata 17 marzo 1988 (PE 121.212), che tuttavia non è mai giunta ad approvazione.

In estrema sintesi si può dire che in tutte le norme sinora varate si ritrovano questi criteri di fondo:

a) si riconosce come positivo il pluralismo linguistico e culturale, e si chiede la valorizzazione del patrimonio prezioso costituito da lingue, tradizioni e culture "regionali" o "locali" - quelle, cioè, che "non si sono fatte Stato", che non sono diventate dominanti sino al punto da avere una struttura statuale e magari un esercito a proprio ombrello;

b) si mette contemporaneamente in chiaro che questo non deve toccare la questione dell'integrità territoriale degli Stati: in altre parole si dice sì ad un pluralismo linguistico, culturale, persino ordinamentale, ma non se ne accetterebbero conseguenze disintegrative per gli Stati membri;

c) si bandisce ogni forma di discriminazione, di segregazione, di deprivazione di diritti;

d) si sottolinea la necessità del formale e visibile riconoscimento della diversità linguistica e culturale; le identità cosiddette minoritarie non devono dunque essere costrette a nascondersi, ad ingraziarsi le maggioranze, a non dare nell'occhio, ma anzi si invitano gli Stati a riconoscere e promuovere segni e momenti di identificazione pubblica (uso pubblico della lingua, toponomastica, pubblicazioni...);

e) si insiste molto sulla necessità di misure concrete (anche giuridiche e finanziarie) per promuovere la sopravvivenza, l'uso e lo sviluppo delle lingue minoritarie e per l'esplicitazione della vita culturale, associativa, religiosa e politica dei gruppi minoritari interessati;

f) si mettono in evidenza in particolare gli aspetti relativi all'istruzione (ed alla formazione degli insegnanti), al sistema delle comunicazioni (pubblicazioni, mass-media, radio-televisione..), alle istituzioni e manifestazioni culturali, ai rapporti giuridici ed amministrativi;

g) si raccomanda di non trascurare il contesto socio-economico (anche se talvolta può essere proprio lo sviluppo economico la maggiore minaccia per la sopravvivenza di lingue e culture ereditate da civiltà essenzialmente pre-industriali, che si sono preservate proprio grazie alla condizione di marginalità e di povertà delle zone di insediamento).

Più incerto appare invece, per ora, il quadro delle misure politico-giuridiche, quali - p.es. - la concessione di particolari autonomie, di delimitazioni territoriali favorevoli alle minoranze, di garanzie contro alterazioni artificiali degli equilibri etno-demografici, della cooperazione transfrontaliera (per le minoranze che sono apparentate a popolazioni oltre-frontiera), di strumenti di garanzia - specie internazionali - nei confronti degli Stati che non rispettassero i diritti delle minoranze. Si tratta, come si capisce, di aspetti che concernono non solo il riconoscimento e la valorizzazione culturale delle diversità etno-linguistiche, ma che toccano la questione del riconoscimento o attribuzione di poteri politici.

5. Il vento che spira è favorevole al riconoscimento dei diritti delle minoranze

Se alla normativa europea, pur con tutti i suoi limiti sia in ordine ai contenuti, sia soprattutto in ordine alla sua assai tenue forza cogente, si aggiungono gli analoghi sforzi in sede delle Nazioni Unite, e se si considera che la stessa Seconda Conferenza per la Sicurezza e Cooperazione in Europa (CSCE II o "Helsinki II"), inaugurata nel novembre 1990 a Parigi, ha dedicato attenzione a questo problema e sembra promettere l'istituzione di un'autorità CSCE con i compiti di prevenire e risolvere conflitti di natura etnica nell'ambito degli Stati membri (cioè tutti gli Stati europei, ed in più l'Unione Sovietica, gli USA ed il Canadà), e se si considera anche l'aumentata domanda che nel mondo le ragioni del diritto prevalgano sulle ragioni della forza e dei numeri, si potrà dedurre che il vento che spira oggi appare finalmente più favorevole al riconoscimento ed all'affermazione concreta di diritti sinora spesso negati, negletti o comunque svuotati.

Forse non è inutile aggiungere che questa congiuntura favorevole può essere colta solo da chi ne abbia realmente la volontà, la capacità e la tempestiva iniziativa e sappia inserirvisi con senso storico, capace di coglierne le opportunità e di saperne riconoscere i limiti. I ritardatari o i negligenti saranno altrettanto inefficaci quanto i velleitari.

intervento tenuto al CONVEGNO: LA TUTELA DEI GRUPPI MINORITARI NELLA PROVINCIA DI TRENTO: LEGISLAZIONE E PROPOSTE OPERATIVE, organizzato dall'ISTITUTO CULTURALE MOCHENO-CIMBRO

Palú del Fersina/Palai, Sala Pubblica, 20.4.1991
(pubblicato in "Arcobaleno", notiziario dei Verdi trentini)
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