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Ivo Andric: Quel ponte sulla Zepa
10.7.2002, da "Racconti di Bosnia", l'Unita del 25 luglio 1995
Perché gli uomini non immaginano neanche lontanamente quanti sono i potenti e i grandi che in modo così rapido, invisibile e silenzioso, muoiono interiormente Il quarto anno del suo governo il gran visir Jusuf, vittima di un pericoloso intrigo, cadde improvvisamente in disgrazia. La lotta durò per tutto l'inverno e la primavera (era una primavera cattiva e fredda che non permetteva all'estate di esplodere). Ma col mese di maggio Jusuf uscì di prigione vittorioso. E la vita riprese a scorrere luminosa, tranquilla, sempre uguale. Ma di quei mesi invernali quando, fra la vita e la morte e fra la gloria e la rovina, non c'era nemmeno la distanza di una lama di coltello, rimase nell'animo del visir vincitore un sentimento d'abbattimento e d'inquietudine. Qualcosa d'indicibile, che la gente d'esperienza e che ha sofferto custodisce dentro di sé come un bene profondo e che soltanto a volte si manifesta attraverso uno sguardo, un movimento, una parola. Vivendo rinchiuso, in solitudine e in disgrazia, al visir erano tornati vivi i ricordi delle sue origini e della sua terra.
Perché la delusione e il dolore riconducono sempre i pensieri al passato. Si ricordò del padre e della madre. Erano morti entrambi quando lui era ancora l'umile aiutante dello stalliere dell'imperatore e aveva fatto circondare le loro tombe con un muretto e innalzare bianchi turbe. Si ricordò della Bosnia e del villaggio di Zepa da cui l'avevano portato via quando aveva nove anni.
La vera faccia della gloria
e il prezzo pagato per il successo
Era piacevole, nella disgrazia, pensare alla terra lontana e al suo villaggio di Zepa, dove nelle case sparse qua e là si favoleggiava della sua fama e del suo successo a Costantinopoli e dove però nessuno conosceva né riusciva ad immaginare la vera faccia della gloria e il prezzo pagato per il successo.
Quella stessa estate ebbe l'opportunità di parlare con persone che venivano dalla Bosnia. Lui chiedeva informazioni e loro gli raccontavano le novità. Dopo le rivolte e le guerre erano sopravvenuti il disordine, la carestia, la fame e varie malattie. Predispose allora un considerevole aiuto per tutti i suoi, per tutti coloro che erano rimasti a Zepa, ordinando al tempo stesso di valutare quali fossero le opere pubbliche di cui il paese aveva più bisogno. Gli fecero sapere che c'erano ancora quattro case degli Setkic, i più ricchi possidenti del villaggio, ma che sia il paese che tutta la zona si erano impoveriti, che la moschea era in rovina e semibruciata, la fontana secca. Ma quel ch'era peggio, non avevano un ponte sul fiume Zepa. Il villaggio si trova su un colle, proprio là dove la Zepa si getta nella Drina, e l'unica strada per Visigrad passava oltre la Zepa, una cinquantina di passi sopra la foce. Tutti i ponti, costruiti in legno, erano stati portati via dall'acqua. Infatti, o la Zepa s'ingrossava improvvisamente come tutti i torrenti di montagna, così da svellere e abbattere i tronchi, oppure la Drina si gonfiava bloccando e sbarrando il corso della Zepa alla confluenza. Allora l'acqua cresceva e sollevava il ponte come un fuscello. D'inverno poi, il ghiaccio si rapprendeva sul legno facendo scivolare le bestie e gli uomini. Chi avesse costruito lì un vero ponte avrebbe fatto la più meritevole delle opere.
Il visir donò sei tappeti per la moschea e il denaro necessario per costruirvi davanti una fontana con le bocche. E contemporaneamente decise di costruire il ponte.
A Costantinopoli viveva allora un architetto italiano che aveva costruito alcuni ponti nei dintorni della città diventando famoso.
Fu contattato dal haznadar del visir e inviato con altri due uomini di corte in Bosnia. Giunsero a Visegrad che c'era ancora la neve. Per alcuni giorni i cittadini stupiti guardarono l'architetto che, un po' curvo e imbiancato, ma giovane e roseo in volto, ispezionava il grande ponte di pietra, lo batteva, sbriciolava tra le dita e poi saggiava sulla lingua la malta dei giunti, misurando a lunghi passi le aperture delle arcate. In seguito si reco per qualche giorno a Banja dov'erano le cave da cui era stata astratta la pietra per il ponte di Visegrad. Ingaggiò gli operai e fece scavare il fossato ormai completamente pieno di terra franata, circondata da alberelli. Gli operai scavarono finché non trovarono un filone di pietra più bianca e più in profondità di quella usata per il ponte di Visegrad. Da lì l'architetto scese lunga la Drina, fino alla Zepa, per decidere il posto da cui sarebbe stata traghettata la pietra. Quel punto uno degli uomini del visir torno a Costantinopoli con il preventivo e il progetto.
Tutto il giorno disegnava qualcosa
tagliava, esaminava le varie specie di pietre
L'architetto rimase ad aspettare, ma non volle abitare né a Visegrad né in nessuna delle case di cristiani sovrastanti la Zepa. Su un'altura, proprio dove Drina e Zepa s'incontrano, si fece costruire una baracca. Gli fecero da interpreti un kjatib di Visegrad e uno degli uomini del visir. E lì andò ad abitare. Si cucinava da solo. Comprava dai contadini uova, panna, cipolla e frutta secca. Carne, dicono, non ne comprava mai. Tutto il giorno disegnava qualcosa, tagliava, esaminava le varie specie di pietre, oppure osservava il corso e la direzione della Zepa.
Nel frattempo ritornò da Costantinopoli il funzionario con il benestare del visir e con un terzo della somma stanziata. Iniziarono i lavori. La gente non si stupiva mai abbastanza di quella strana opera. Non assomigliava affatto a un ponte, quello che si stava costruendo. Prima piantarono diagonalmente, da una parte all'altra della Zepa, pesanti tronchi di abete e, fra loro, due palizzate parallele, che intrecciavano con tralicci di vimini, colmando i vuoti con l'argilla, come una diga. Così deviarono il fiume, lasciandone in secca una metà. Avevano appena finito che un giorno, improvvisamente, da qualche parte in montagna, scoppiò un nubifragio. E subito la Zepa si intorbidì e s'ingrossò. La stessa notte sfondò la diga ormai finita.
All'alba del giorno dopo l'acqua si era già abbassata, ma l'impalcatura era spaccata. I tralicci strappati, i paletti ritorti. Fra gli operai e fra la gente s'incominciò a mormorare che il fiume non voleva essere domato dal ponte. Ma già il terzo giorno, il costruttore ordinò d'intrecciare nuove fascine, ancora più strette e di raddrizzare e aggiustare i paletti rimasti. E di nuovo dalle profondità, il letto sassoso del fiume risuonò di martellate, grida degli operai e colpi ritmati.
Solo quando tutto fu predisposto e finito e la pietra arrivata dalla cava di Banja, giunsero muratori e scalpellini dall'Erzegovina e dalla Dalmazia. Per alloggiarli furono costruiti capanni di legno davanti ai quali essi tagliavano pietre, bianchi come mugnai per la polvere di marmo. L'architetto girava continuamente nei paraggi e ad ogni momento si chinava su qualcuno per misurare il lavoro con una squadra gialla di metallo e con un filo a piombo appeso ad un cordoncino verde.
Avevano già tagliato da una pare e dall'altra la riva scoscesa e sassosa, quando finirono i soldi. Gli operai cominciarono a manifestare il loro malcontento e la gente riprese a mormorare che del ponte non se ne sarebbe fatto nulla. Alcuni, arrivando da Costantinopoli, dicevano che il visir era cambiato. Nessuno sapeva cosa gli fosse successo, se fosse malato, e se avesse delle preoccupazioni, ma, di fatto, era sempre più irraggiungibile, più distratto, e finiva per lasciare andare in malora anche i lavori iniziati nella stessa capitale. Ma pochi giorni dopo arrivò un uomo del visir con il denaro e la costruzione prosegui.
Quando fra la vita e la morte fra la gloria e la rovina
non c'è nemmeno la distanza di una lama di coltello
Quindici giorni prima della festa di San Demetrio, la gente che traversava la Zepa, sul ponticello di legno un po' più a monte del cantiere, notò per la prima volta come da ambedue le sponde del fiume, dalla roccia grigio scura di ardesia si ergeva un muro bianco levigato di pietre squadrate, circondato da ogni parte da impalcature come da una ragnatela. Da allora il ponte crebbe ogni giorno.
Ma presto sopraggiunsero le prime gelate e i lavori s'interruppero. I muratori tornarono alle loro case per svernarvi e l'architetto restò a trascorrere l'inverno nella sua baita, dalla quale non usciva quasi mai, sempre chino sui suoi progetti e i suoi calcoli. Non si muoveva mai. Si limitava a ispezionare spesso il cantiere. Quando, in primavera, il ghiaccio cominciò a rompersi, lo si vedeva perlustrare senza sosta, preoccupato, le dighe e le impalcature. Qualche volta anche di notte, con in mano una torcia. Prima di San Giorgio i muratori tornarono e i lavori ripresero. Terminarono proprio a metà estate. In festa, gli operai tolsero le impalcature, e da quel groviglio di tavole e paletti, emerse il ponte, elegante e bianco, proteso sopra un'unica arcata dall'una all'altra riva. Tutto si sarebbe potuto immaginare, ma non una costruzione così bella in un posto così remoto e così isolato. Sembrava che le due rive avessero lanciato l'una verso l'altra zampilli spumeggianti d'acqua e che questo zampilli scontrandosi e unendosi in un arco fossero rimasti per un momento sospesi nell'aria sopra l'abisso. Sotto l'arcata si intravedeva, in fondo all'orizzonte, un tratto della livida Drina, mentre sotto il ponte gorgogliava la Zepa, schiumante e domata. Per molto tempo gli occhi non riuscirono a distogliersi da quest'arco dalle linee immaginose e sottili, che sembrava essersi impigliato in volo su quelle aspre rocce scure, coperte di muschio, pronto a riprendere lo slancio e a sparire alla prima occasione.
Dai villaggi vicini la gente accorse ad ammirare il ponte. Vennero persino da Visegrad e da Rogatica per vederlo, rammaricandosi che una simile meraviglia si trovasse in quel luogo deserto e selvaggio e non nelle loro città. "Bisognava dare i natali a un visir", rispondevano quelli di Zepa, battendo col palmo della mano sul parapetto di marmo che era dritto e a spigoli aguzzi, come fosse tagliato nel formaggio e non nella pietra.
Meravigliati e dispiaciuti di non averlo osservato meglio
e con maggiore attenzione
mentre ancora passava per i loro vicoli
Mentre ancora i primi stupiti viandanti attraversavano il ponte, sostando ammirati, l'architetto pagò gli operai, imballò e caricò le sue casse con gli strumenti e le carte e, insieme con i due uomini del visir ripartì per Costantinopoli. Solo allora, per villaggi e città si cominciò a favoleggiare sul suo conto. Selim, lo zingaro, che sul suo cavallo gli aveva portato i bagagli da Visegrad ed era stato l'unico ad entrare nella sua capanna, seduto nelle botteghe raccontava per l'ennesima volta tutto quello che sapeva sullo straniero: "non è un uomo come gli altri. Lo scorso inverno, quando non si lavorava, passavano anche dieci-quindici giorni senza che lo vedessi. E quando tornavo, tutto era in disordine come quando lo avevo lasciato! In quella capanna ghiacciata se ne stava seduto con il colbacco d'orso in testa, avvolto nelle coperte fino alle braccia che sole uscivano fuori, livide per il freddo. E lui sempre a raschiare quelle pietre, a tagliare e scrivere qualcosa, e poi di nuovo raschiava e annotava. I scaricavo e lui mi osservava con i suoi occhi verdi, le sopracciglia alzate che sembravano volerti penetrare. E senza parlare, senza un brontolio. Uno così non l'ho mai visto. E poi, gente mia, avete visto quando si è tormentato per un anno e mezzo! Quando ha terminato ed è partito alla volte di Costantinopoli, lo abbiamo trasportato con la chiatta oltre il fiume. Qui è salito a cavallo e, credetemi, non si è voltato indietro nemmeno una volta, né per noi né per il ponte!. Pensate, nemmeno una volta! Incredibile!"
Ora i bottegai lo interrogavano sempre più sull'architetto e sulla sua vita, sempre più meravigliati e dispiaciuti di non averlo osservato meglio e con maggiore attenzione mentre ancora passava per i loro vicoli.
E intanto l'architetto era in viaggio e, quando giunse a due giorni da Costantinopoli, si ammalò di peste. Febbricitante, reggendosi a malapena in sella, arrivò in città. Subito si recò all'ospedale dei francescani italiani. E l'indomani alla stessa ora del suo arrivo spirò tra le bracca di un frate.
Il giorno seguente, al mattino, avvisarono il visir della sua morte e gli portarono i conti in sospeso e i progetti del ponte. Aveva ricevuto solo un quarto della sua paga. Dietro di sé non aveva lasciato né debiti, né denaro, né testamento, né eredi. Dopo aver pensato a lungo, il visir dispose che, dei tre quarti della somma che restava uno andasse all'ospedale e gli altri due fossero destinati ad una istituzione, intitolata a suo nome, che avrebbe dovuto dare pane e minestra ai poveri.
Stava giusto dando queste disposizioni quando - era una tranquilla mattina di fine estate - gli recarono la richiesta di un dotto e giovane insegnante di Costantinopoli, nativo della Bosnia, che scriveva versi e che di tanto in tanto il visir aiutava e beneficiava. Aveva sentito parlare del ponte che il visir aveva fatto costruire in Bosnia e sperava che, come su tutte le opere pubbliche, vi sarebbe stato inciso l'anno della costruzione e il nome del benefattore. Come sempre anche ora offriva i suoi servigi al visir e lo pregava di approvare l'iscrizione che aveva composto con grande impegno. L'iscrizione era finemente vergata su di una pergamena, le iniziali erano rosse e dorate: quando il buongoverno e la nobile arte / si porsero la mano l'un l'altra / nacque questo meraviglioso ponte / gioia dei sudditi e orgoglio di Jusuf / in questo mondo e nell'altro.
Sotto c'era il sigillo in ovale del visir, diviso in due campi asimmetrici: nel più grande era scritto "Jusuf Ibrahim, vero servo di Dio". Nel più piccolo il motto del visir "Nel silenzio è la certezza".
Il visir rimase a lungo seduto con la richiesta tra le mani, le braccia allargate, con una mano poggiata sull'iscrizione in versi e l'altra sui conti dell'architetto e il progetto del ponte.
Se talvolta riusciva a scacciare i propri pensieri
non aveva però il potere di evitare i sogni
Negli ultimi tempi meditava sempre più a lungo sugli atti e la petizione. Quell'estate erano ormai passati due anni dalla data della sua caduta in disgrazia e del suo arresto. Nei primi tempi del suo ritorno al potere non si era notato alcun cambiamento nel suo modo di essere. Era ancora negli anni migliori, quando si conosce e si assapora tutto il valore della vita: aveva sconfitto tutti i suoi avversari ed era più forte che mai; dalla profondità della sua recente caduta poteva misurare la forza del suo potere attuale. Ma più il tempo passava, più - invece di dimenticare - il pensiero gli tornava alla prigionia. Se talvolta riusciva a scacciare i propri pensieri, non aveva però il potere di evitare i sogni. In sogno cominciò ad apparirgli il carcere e di quei sogni notturni qualcosa d'orribile e d'indefinito finiva per passare nella realtà e gli avvelenava le giornate.
Diventò più sensibile alle cose che gli stavano intorno. Cose di cui prima non si accorgeva nemmeno ora lo disturbavano. Ordinò che venissero rimossi tutti i velluti del palazzo e che fossero sostituiti con stoffe chiare, lisce, soffici, che non stridessero al tatto. Bandì la madreperla perché nel pensiero la collegava con un deserto gelido e un luogo solitario. Gli era sufficiente toccare la madreperla, o solo guardarla, perché gli battessero i denti e i brividi gli percorressero il corpo. Tutto il vasellame e le armi che la contenevano furono eliminati dalle sue stanze.
Cominciò ad accogliere tutto con una celata ma profonda diffidenza. Da qualche parte s'insinuò in lui un pensiero: ogni opera e ogni parola umana possono provocare il male. Iniziò a scorgere questa possibilità in ogni cosa che sentiva, vedeva, diceva o pensava. Il visir vittorioso ebbe paura della vita e così, senza accorgersene, entro in quello stato che è la prima fase della morte, quando si comincia ad osservare con più interesse l'ombra creata dagli oggetti che non gli oggetti stessi.
Questo male lo rodeva dentro e lo annientava: non riusciva nemmeno a pensare di confessarlo o confidarlo a qualcuno. Quando avesse portato a termine la sua opera e fosse emerso in superficie, nessuna l'avrebbe riconosciuto. La gente avrebbe detto semplicemente: "E' la fine". Perché gli uomini non immaginano neanche lontanamente quanti sono i potenti e i grandi che in modo così rapido, invisibile e silenzioso, muoiono interiormente.
Anche quella mattina il visir era stanco e assonnato, ma calmo e tranquillo; le sue palpebre erano pesanti e il volto come congelato dal fresco mattutino. Pensava all'architetto straniero che era morto, ai poveri che si sarebbero sfamati con la sua paga. Ritornava con il pensiero alla lontana, montagnosa, oscura terra di Bosnia (pensando alla Bosnia aveva sempre percepito qualcosa di tenebroso) che nemmeno la luce dell'Islam era riuscita ad illuminare, se non parzialmente, dove la vita scorreva, senza gentilezza e bellezza, povera, dura, aspra. E quante altre terre simili esistono in questo mondo di Dio? Quanti fiumi impetuosi scorrono senza ponti né guadi? Quanti villaggi senza acqua potabile, quante moschee senza ornamenti e bellezza?
Nel silenzio è la certezza
Nei pensieri gli si schiudeva un mondo brulicante delle più disparate necessità, oppresso da bisogni e paure in varie forme. Il sole splendeva sul verde tetto del padiglione nel giardino. Il visir gettò uno sguardo sull'iscrizione, rilesse i versi, sollevò lentamente la mano e cancellò due volte tutto il testo. Si fermò per un attimo poi cancellò anche la prima parte del sigillo, quella che recava il suo nome. Rimase solo il motto "Nel silenzio è la certezza". Vi si soffermò ancora un po', poi alzò di nuovo la mano e con un gesto deciso cancellò anche quello.
Così il ponte rimase senza nome e senza targa. Laggiù, nella lontana Bosnia, brillava il sole e risplendeva sotto la luna, trasportando dall'una all'altra sponda uomini e bestiame. Un po' alla volta quel mucchio di terra ammonticchiata e gli oggi sparsi che circondano sempre ogni nuova descrizione, scomparvero, la gente si disperse e l'acqua si portò con sé le palizzate rotte e i pezzi dell'impalcatura con il materiale residuo. Le piogge dilavarono le tracce del lavoro degli scalpellini. Ma il paesaggio non poté legarsi al ponte, né il ponte al paesaggio. Visto da lontano, il suo arco bianco, arditamente proteso, rimase sempre come staccato e solitario a sorprendere il viandante come un pensiero curioso, smarrito e catturato nel Carso, impigliato nella natura selvaggia.
Chi racconta è stato il primo a voler capire e conoscere le sue origini. Fu una sera che, mentre tornava dalla montagna stanco, si era seduto sul muretto di pietra del ponte. Erano torride giornate estive con notti freschissime.
Mentre appoggiava le spalle al ponte, lo sentì ancora caldo della giornata. L'uomo era sudato e dalla Drina arrivava un vento fresco; il contatto con il marmo levigato e caldo era piacevole e strano. Si capirono all'istante. Fu allora che decise di scrivere la sua storia.
(da "Racconti di Bosnia", di Ivo Andrič, premio Nobel della letteratura nel 1961, ed. Newton Compton; ripubblicato su l'Unita del 25 luglio 1995)