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SAMI ADWAN - L’ASSASSINO DI MIA FIGLIA

1.7.2003, da UNA CITTÀ n. 114 / Luglio/Agosto 2003
Quando i palestinesi hanno cominciato, pragmaticamente, a costruire la loro società e gli israeliani ad assaporare la speranza di una pace definitiva. Gli insediamenti che sono continuati a crescere... L’idea terribile, e disastrosa per Israele, che umiliare l’altro serva. I palestinesi non vanno più via, terrorizzarli non servirà. Le sofferenze dell’occupazione e della diaspora che creano una sorta di empatia con gli ebrei. Intervista a Sami Adwan.

Sami Adwan, palestinese, docente di Pedagogia all’università di Betlemme, co-direttore del Prime (Peace Research Institute in the Middle East), con Dan Bar-On, docente israeliano, è ora impegnato in un progetto di “Sharing History” volto alla stesura di un manuale per studenti con la versione israeliana e la versione palestinese di alcuni degli eventi più significativi della storia dei due popoli

Nell’ambito del Prime, tu hai rapporti di collaborazione e anche di amicizia con diversi israeliani. Da questo osservatorio come vedi il futuro? Tra israeliani e palestinesi si è ormai creato un baratro incolmabile oppure ci sono delle speranze per una futura convivenza?
Premetto che scegliere di lavorare con gli israeliani con il conflitto ancora in corso, quindi in tempo di guerra, è una grossa sfida: può esporre a grande frustrazione e scoramento, ma a volte procura anche un senso di grande speranza, che ti fa credere che ci saranno dei cambiamenti, dei miglioramenti nell’atteggiamento degli israeliani verso i palestinesi, la loro causa, le loro sofferenze.
Tuttavia, date le diverse, e a volte opposte, aspettative -gli israeliani considerano questa la “Terra promessa”, la terra “liberata”, per i palestinesi è territorio “occupato”- si tratta di un percorso che non è semplice né lineare. A volte dobbiamo gestire non solo l’accordo o il disaccordo tra di noi, ma anche l’evoluzione sul terreno, che evidentemente influisce sul nostro lavoro quotidiano, sui rapporti con le nostre comunità, anche con le nostre famiglie.
Dan e io concordiamo sul fatto che l’unica soluzione siano due stati indipendenti e sovrani, e sicuri, in cui vivere gli uni accanto agli altri. Allora il nostro impegno è inteso anche a preparare il terreno per quando questo accadrà. Ovviamente cambiare la testa di israeliani e palestinesi non è un qualcosa che possa accadere in uno o due giorni. Per questo è importante lavorare dal basso, privilegiando quanto già accade sul terreno, perché solo così si può contribuire a cambiare lentamente, gradualmente, l’immagine che abbiamo dell’altro.
Una reale convivenza però implica anche un processo di “cura” delle due comunità. I palestinesi hanno bisogno di superare un trauma, di elaborare un lutto; più in generale si tratta di avere lo spazio e il tempo per esprimere le nostre emozioni; sotto l’occupazione questo ci è stato impedito, si trattasse di dolore o di gioia: ai palestinesi è stato imposto di reprimere le proprie emozioni, di tenersi tutto dentro.
La nostra oggi è davvero una società traumatizzata. Urge un aiuto psicologico diffuso, con un’assistenza specifica per la gestione di una fase post-traumatica. E sfortunatamente ne abbiamo bisogno tutti, non solo i bambini, i giovani o i vecchi.
Venendo al piano politico, è evidente che esistono valutazioni opposte sulla situazione: per gli israeliani questa è la Terra Promessa; per i palestinesi questa è la Palestina. Però oggi questa situazione estremizzata dovrebbe essere stata ridimensionata, ossia messa in discussione e chiarita, grazie al reciproco riconoscimento sancito a Oslo nel 1993, quando i palestinesi hanno accettato i confini del 1967.
Questa situazione è scaturita dal compromesso raggiunto da entrambe le parti a livello politico. Tuttavia, negli ultimi dieci anni noi palestinesi abbiamo assistito a un governo israeliano, allora guidato dal Labour e oggi dal Likud, che dopo la firma degli accordi di Oslo ha continuato a creare insediamenti, a confiscare la nostra terra, ponendo le nostre città sotto assedio e limitando la nostra libertà.
I palestinesi avevano iniziato a impegnarsi duramente per la ricostruzione delle proprie infrastrutture, per la costruzione di strade, scuole, ospedali, ecc. Speravamo che il processo potesse evolvere positivamente secondo quanto siglato in quegli accordi.
Quando però la popolazione ha realizzato che niente stava cambiando, e parlo della gente comune non dell’Anp, questo ha creato un grave senso di frustrazione. La stessa seconda Intifada infatti è partita come moto spontaneo, non è stata promossa dall’Anp; l’Anp si è limitato a seguire l’evolversi della protesta, anche in posizione spesso ambigua.
Le aspettative nate a Oslo sono quindi un altro nodo non trascurabile rispetto alle prospettive future. Le due popolazioni infatti, nonostante le contraddizioni, avevano creduto in questo processo di pace.
Poi c’è stato lo choc dell’assassinio di Rabin: per gli israeliani è stato un segnale sinistro scoprire che un gruppo della propria gente era contrario a quell’accordo di pace. La vittoria elettorale del Likud, con Netanyahu e, dopo Barak, di nuovo con Sharon, ha sancito una pesante svolta a destra.
Anche sul versante palestinese purtroppo la frustrazione ha comportato una analoga svolta a destra. Da qui il pesante scetticismo che accomuna entrambe le parti, e che per noi si concretizza nel dubbio che Israele sia stato veramente sincero e serio quando ha firmato quegli accordi per una pace e una comprensione duraturi.
Ora, come dicevo, lavorare con gli israeliani in questo scenario crea una sorta di sentimenti contraddittori. Ciò che conta però è che a volte ne ricavi un senso di incoraggiamento, di sostegno, di condivisione reale; avverti anche la possibilità di una condivisione del dolore e del dramma palestinese. Per esempio Dan ha firmato tanti appelli a sostegno dei palestinesi, ha scritto molti articoli; non a caso negli Usa il suo nome è nella black list.
Dan, io e gli altri siamo già convinti di tutto questo, della necessità della pace. Il punto oggi è come allargare questa cerchia di “convertiti” alla pace. E questo, sia sul versante israeliano che su quello palestinese, è un compito arduo, perché noi avremmo bisogno di sostanziare le nostre convinzioni con prove concrete sul terreno. Dovremmo poter dire: “Vedi, è accaduto questo, qualcosa sta cambiando…”, così che la gente possa credere che il tuo modo di lavorare e di pensare sia anche in grado di provocare cambiamenti tangibili nella loro vita quotidiana.
Se invece la pace resta un obiettivo solo dei convertiti, dei “credenti” per così dire, siamo destinati a fallire. Che è poi quanto è accaduto da Oslo al 2000. Gli stessi gruppi si sono limitati a girare da un incontro all’altro, a seconda delle specializzazioni, l’acqua, i traumi, e il risultato è che vedevi sempre le stesse facce. Era sempre la stessa gente.
Del resto dipende anche da cosa si trova ad affrontare la tua famiglia, cosa devono subire tua moglie, i tuoi figli; devi confrontarti anche con la loro esperienza, col loro dolore, con la loro rabbia. Insomma è una situazione davvero critica: come rispondere ai tuoi figli quando ti chiedono che ne sarà del loro futuro? Della loro sicurezza? Come convincerli che la tua strada è migliore del semplice uso della forza?
La questione sicurezza ha assunto una rilevanza enorme. Tu però la rivendichi anche per i palestinesi…
Gli israeliani hanno fatto della sicurezza una vera ossessione che è anche comprensibile, però bisognerebbe ricordare come Rabin stesso aveva posto la questione: “Come possiamo evitare che questa gente commetta tali suicidi?”. Dall’altra parte noi palestinesi vogliamo porre la questione anche della nostra sicurezza, che è più precaria di quanto gli israeliani sembrino concepire. Nelle nostre case, nelle nostre scuole, nelle strade noi siamo quotidianamente in pericolo; certo, non a causa di attacchi da parte di kamikaze, ma a causa degli attacchi israeliani, dei loro missili, delle loro forze militari…
Così anche per noi oggi la sicurezza è diventata una priorità. Come uscire da questo circolo vizioso? E come sentirci veramente vivi? Perché non è facile sentirsi vivi quando la propria vita è sospesa, interrotta. Questo è qualcosa di molto doloroso per noi. Quando sei costretto a rimanere chiuso, assediato, sotto coprifuoco per 40 giorni, non potendo fare altro che mangiare, dormire e guardare la tv, senza poter lavorare, senza poter fare niente, beh, questo non è essere vivi; questo equivale alla vita di un animale che rumina in una stalla. Sentirsi vivi è componente irrinunciabile della propria dignità e identità e ha molto a che fare anche con la propria salute mentale.
Anche quando non c’è il coprifuoco non possiamo uscire dalle nostre città. E’ come se vivessimo in grandi spazi recintati, dove le nostre stesse facoltà cognitive, relazionali sono limitate a un raggio di qualche chilometro quadrato. Stiamo perdendo il controllo del nostro stesso ambiente: non potendo muoverci, percorrere le varie vie di collegamento, abbiamo iniziato a sentire la nostra stessa terra come qualcosa di sempre più lontano da noi e indefinito. Se non abbiamo il controllo della nostra terra, se non sappiamo cosa ne sarà, anche il senso di appartenenza sfuma. Così diventa molto difficile conservare uno spirito collaborativo, volto alla pace e alla comprensione.
Sembra che il governo israeliano e una parte degli stessi israeliani pensino che l’umiliazione sistematica dei palestinesi sia il mezzo per raggiungere un obiettivo politico, che sia la sicurezza (e sarebbe un calcolo molto stupido) o il modo per porre le premesse di future deportazioni, non si capisce. Ma questa politica si accompagna anche alla diffusione di qualche forma di razzismo?
Cercherò di spiegare quello che io sento come palestinese. Prima di tutto, non c’è dubbio che da parte degli israeliani, ci sia un’enfasi sul proprio interesse, sulla propria autopercezione, sul proprio futuro: “Noi siamo gli eletti, siamo superiori, quindi possiamo fare quello che vogliamo, gli altri -i goyim- sono irrilevanti”.
La discriminazione e la sottomissione degli altri ai propri interessi credo siano emblematizzati dalla politica di occupazione israeliana: loro usano la strada, tu ne sei impedito; loro hanno la piscina e noi non abbiamo l’acqua in casa; loro possono andare dovunque liberamente, noi no; i nostri luoghi sacri sono stati violati così tante volte, ma i loro luoghi sacri sono controllati dall’esercito. Compiendo i miei studi ho scoperto che 1000 moschee in Israele sono state distrutte o sconsacrate e usate come edifici privati, locali… questo sul piano materiale. Dall’altra parte, le stesse emozioni degli “altri”, la loro sofferenza sono irrilevanti.
Quella palestinese è una società molto conservatrice, non siamo “aperti” come gli europei o gli americani. Quando entrano nella tua casa a mezzanotte, urlando, sbattendo sulla porta o sparando dei colpi, svegliando e spaventando i bambini, e poi perquisiscono le tue cose, anche quelle personali... Ecco, essere costretti a far vedere a qualcun altro le cose personali per noi è qualcosa di veramente ai limiti della sopportazione. A volte ti senti proprio trasparente, privo di qualsiasi privacy, esposto, vulnerabile, ti senti un niente.
Poi c’è l’umiliazione quotidiana dei check point: quando non ti permettono di passare, mentre vedi gli stranieri che vanno e vengono, i coloni che si muovono liberamente e tu pensi: ma quella è anche la mia terra! Quando ti viene chiesto di sederti nella sabbia, con le braccia dietro il collo, con un caldo atroce, o col freddo, e senza poter dire una parola, per una, due, tre ore… Quando ti gridano addosso, così, senza lasciarti neanche parlare, solo per zittirti con prepotenza… Ecco, tutto questo è difficile non definirlo discriminazione. E allora forse, come ha detto Desmond Tutu, Israele ha davvero oltrepassato l’apartheid sudafricano.
Ci sono stati anche dei casi di estrema e inquietante gravità da questo punto di vista. Alcuni soldati israeliani hanno cominciato a scrivere dei numeri nelle braccia dei palestinesi. Si è poi saputo che quando fermano qualcuno capita che gli diano due possibilità: “Preferisci che ti distruggiamo la macchina o che picchiamo te?”. E se per quella famiglia l’auto è fonte di reddito, anche solo perché permette di andare al lavoro, quell’uomo dirà “Picchiate me”. A quel punto le scelte potrebbero essere tre: “Vuoi che ti rompiamo il naso, una gamba o un braccio?”. E succede davvero, sono storie vere! Ci sono stati degli articoli di Amira Hass su Ha’aretz. Per molti all’inizio è difficile credere che stiano facendo sul serio, così rispondono: “Va bene, picchiatemi, rompetemi un braccio”. E loro lo fanno.
Ecco, queste forme di tortura stanno superando ogni immaginazione. Ancora, a Jenin, hanno fatto crollare una casa con dentro un handicappato. E lo sapevano. Sapevano che non poteva uscire, così gli hanno gridato di uscire e poi hanno proseguito con la demolizione con i bulldozer. Si sa che questi soldati avevano assunto alcool e tranquillanti; molti avevano le cuffiette con la musica a tutto volume per non sentire le grida.
Anche quando hanno invaso Betlemme, sono entrati in alcune case costringendo le famiglie a rifugiarsi in una sola stanza per ore, senza poter usare il bagno, l’acqua; 10-15-20 persone in una sola stanza, mentre loro prendono possesso della casa, mangiano il tuo cibo, a volte addirittura rubano le cose di valore, la macchina fotografica, i telefoni, i soldi. Intanto la famiglia deve stare in assoluto silenzio, senza fare alcun rumore. E quando se ne vanno, la casa è sempre un disastro: spesso pisciano sul pavimento, o addirittura sul piano cottura…
E’ ormai risaputo che hanno fatto uso di falangi dell’esercito del Libano del sud; spesso usano dei mercenari per il lavoro sporco, gente piena di odio, senza niente da perdere, che sembra quasi divertirsi. Usano anche i nuovi immigrati dalla Russia o i falascià, che non parlano nemmeno la lingua, vogliono solo collaborare con l’esercito israeliano perché ne traggono dei benefici, o infine i drusi, che sono molto duri coi palestinesi.
Questi ovviamente sono casi estremi e sono stati denunciati. Il fatto è che ogni volta che chiedi spiegazioni, la risposta è sempre: “Ragioni di sicurezza”. Per qualsiasi cosa la spiegazione è sempre: “Noi abbiamo paura”.
Il paradosso è che molti palestinesi, proprio attraverso questa sofferenza, stanno iniziando a capire la tragedia che ha colpito gli ebrei, stanno iniziando a riconoscere questo estremo bisogno degli israeliani di sentirsi al sicuro.
E però loro non possono portare la sicurezza con l’occupazione, con la forza: distruggeranno se stessi prima di annientare noi. Hanno l’esercito più forte e meglio equipaggiato del mondo, ma questa militarizzazione della società li porterà a un’autodistruzione. In Israele ci sono già molti problemi sociali, legati a droga, alcool, violenza, suicidi… C’è sempre un senso di arroganza, sia verso gli arabi, i palestinesi, ma anche tra di loro. Basta osservarli alla guida: sono prepotenti, suonano, vogliono sempre arrivare primi.
Tu sostieni che comunque i palestinesi non molleranno mai…
Se Israele non ci permette di creare un nostro Stato si troverà davanti a due scelte: o la pulizia etnica, che è quanto temevamo all’inizio della guerra contro l’Iraq, o un genocidio. Se ci vogliono annientare non ci sono altre strade. I palestinesi infatti non sono solo qualche individuo, non sono solo un’entità politica: l’intero popolo è a tal punto intenzionato a rimanere qui, che l’idea degli israeliani di portarci all’esasperazione al fine di espellerci è un sogno senza fondamento. I palestinesi sono pronti a essere uccisi, a essere investiti da un tank o da un bulldozer piuttosto che andarsene.
A Gaza a un uomo era stato intimato di lasciare la casa prima che gliela distruggessero; lui ha deciso di restare, scegliendo così di morire sotto le macerie. Ecco, questo è uno dei tanti casi che mostrano il livello di attaccamento dei palestinesi alle proprie case, alla propria terra.
Un’altra cosa da dire è che i palestinesi ormai non temono nemmeno i massacri. A suo tempo il massacro di Deir Yassin si rivelò un modo semplice per cacciarli. Ma oggi se avviene un massacro alla porta accanto, tu neanche consideri l’idea di potertene andare.
Anche a Jenin, nonostante tutto quello che è accaduto, nessuno se n’è andato; si sono spostati di casa in casa, di rifugio in rifugio, ma sono rimasti, casomai nelle vicinanze…
Allora, di nuovo, se gli israeliani credono di poterci convincere a fare i bagagli e andarcene commettendo questi massacri, beh, è una pura illusione.
Quindi non rimane che la pulizia etnica o un genocidio. Oppure devono accettare il nostro diritto a vivere qui. Noi abbiamo riconosciuto il loro diritto a vivere e creare uno Stato qui. Non neghiamo più l’esistenza di Israele. Noi siamo consapevoli dei nostri limiti. Sappiamo che in ogni caso noi non avremo mai il potere e la forza di sopravanzare Israele. E neanche ci interessa. Anche per questo, come Stato palestinese, non vogliamo investire troppo in forza militare, non vogliamo uno Stato militarizzato; vogliamo uno Stato in cui sviluppare la democrazia, la società civile, in cui investire nell’istruzione e nello stato sociale, nel sistema dei media, della tecnologia, nel turismo, nella nostra economia in generale, specialmente in agricoltura. E’ di questo che abbiamo bisogno. I palestinesi poi sono dei buoni lavoratori; possono formarsi nuovi intellettuali, le potenzialità non ci mancano. Tra l’altro per noi l’istruzione ha un valore enorme; tra i paesi arabi i palestinesi sono quelli col tasso di istruzione di gran lunga più elevato; da noi l’analfabetismo ormai non esiste, se non per quel tasso dell’1-2% riguardante i vecchi.
Vorremmo avere l’opportunità di sviluppare un sistema democratico, uno stato di diritto, in cui vivere liberamente e in cui essere anche chiamati a rispondere delle nostre responsabilità. Crediamo che, se ci fosse data la possibilità, potremmo diventare un esempio, un modello di preservazione della cultura nel processo di costruzione della democrazia. Non vogliamo diventare l’ennesimo regime autoritario, vogliamo un sistema politico in cui siano le elezioni a stabilire chi governa, e in cui la gente possa anche votare contro il leader che non si riveli adeguato.
Eppure tanta parte del sostegno a Israele deriva dall’idea che i palestinesi, in fondo al cuore, vogliano distruggerlo…
No. Questa propaganda è stata utilizzata nel ‘66-’67. Addirittura circolava un programma (poi si scoprì esserci lo zampino del Mossad) in cui lo slogan era che noi palestinesi avremmo cibato i pesci del mare con gli ebrei.
Intanto non dimentichiamo che all’inizio, prima dell’avvento del sionismo, gli ebrei e i palestinesi in Palestina vivevano in un paradiso. Mi riferisco al sionismo inteso come interesse coloniale a instaurare una patria, anche utilizzando la religione.
Ci sono molte storie di ebrei e palestinesi che vivevano gli uni accanto agli altri, condividendo la terra, il lavoro, il cibo, le feste. Insomma, noi non abbiamo mai iniziato una guerra. Anche perché eravamo troppo ingenui, non abbiamo mai sviluppato un tale odio verso gli altri.
Ora sto seguendo un progetto di storia orale su quel periodo e i palestinesi che ho intervistato, profughi, mi hanno raccontato: “Lavoravamo assieme e poi, da un giorno all’altro, abbiamo scoperto che gli ebrei erano entrati nell’Haganà. Noi abbiamo iniziato a spaventarci, ma loro negavano, e il giorno dopo li vedevamo usare le armi”. Su questo bisogna essere onesti: l’inizio è stato che noi palestinesi siamo stati attaccati e cacciati dalle nostre case e villaggi; e tutto è avvenuto con il sostegno degli inglesi, il loro esercito, le loro infrastrutture, i loro soldi…
Nel 1948 abbiamo pensato: è un’ingiustizia e ci siamo battuti per la nostra terra. Allora, io arrivo qui, entro nella tua casa, come ospite, e iniziamo a lavorare assieme e improvvisamente io comincio a proibirti di sederti su quella sedia, e il giorno dopo non ti permetterò di sederti a questo tavolo; il terzo giorno tu non hai più il permesso di entrare in questa stanza; il quarto giorno anche l’accesso alla cucina ti è impedito. E alla fine scopri che la chiave dell’entrata principale non va più bene, che anche quella serratura è stata cambiata… E tu rimani chiuso fuori da casa tua.
Ecco, così si sono sentiti i palestinesi nel 1948.
Ora, gli accordi di Oslo -un vero punto di svolta nella nostra storia- con il reciproco riconoscimento, per noi hanno anche sancito la presa di coscienza del diritto di Israele di continuare ad esistere. La questione a quel punto è diventata: essere pragmatici o ideologici? Siamo diventati molto pratici. Già l’Intifada dell’87 ne era stato un segnale, rappresentando il primo movimento nazionale sorto spontaneamente. L’Intifada colse di sorpresa lo stesso Olp, il Mossad, lo Shin Bet; non era stata pianificata in anticipo. Semplicemente la gente sentì che il momento era arrivato e colse l’opportunità con un incidente verificatosi a Gaza, e da lì partì tutto. Il messaggio era: fine dell’occupazione, e questo in un certo senso riconosceva l’esistenza di Israele. Credo che oramai gli stessi israeliani si siano resi conto che, anche volendolo, noi non potremmo mai distruggere Israele, e tuttavia hanno alimentato questo argomento come alibi per mantenere l’occupazione.
E il mondo intero gli è andato dietro.
In realtà la Giordania ha contribuito, direttamente o indirettamente, alla crescita di Israele. Questo è documentato. L’Egitto ha firmato degli accordi con Israele; certo è ancora una pace fredda ma perché ci sono i palestinesi sotto occupazione; se i palestinesi tornassero a essere liberi la pace sarebbe più stabile, non solo con l’Egitto, ma con tutto il mondo arabo. E anche sul versante sicurezza la situazione cambierebbe radicalmente. Ora, Siria e Libano hanno le loro ragioni, l’occupazione delle Alture del Golan; ma di nuovo se Israele si ritirasse…
Per noi è chiaro: se i confini del ’67 verranno rispettati come i confini del nostro Stato, senza coloni all’interno, che potrebbero rientrare in Israele, lo spazio c’è; ecco, a quel punto noi potremmo iniziare a occuparci di noi.
Inizio anche a pensare che la soluzione di una confederazione vada considerata seriamente. E’ un nodo importante, tra l’altro è uno scenario a me più affine rispetto alle mie convinzioni e anche alle mie ricerche… Ci sto pensando.
Noi infatti conosciamo i limiti di un neonato Stato palestinese: economici, politici… Allora, noi intanto vogliamo uno Stato autonomo e indipendente, i cui confini siano chiari. Dopodiché non potremo che cercare accordi, anche nell’ambito di una confederazione con Israele.
L’area è così piccola, e questo significa collaborazione, non separazione. Il nostro mercato è buono per i beni prodotti in Israele; le loro aziende e fabbriche necessitano della nostra forza lavoro. Questo evidentemente non significa che siamo disposti a continuare a essere loro schiavi. Anzi sarebbe ora che i palestinesi non venissero impiegati solo come operai, ma anche nell’ambito delle università, della ricerca, non abbiamo solo delle braccia…
La piaga del collaborazionismo sta minando le basi della società civile…
Gli israeliani non ci permettono di essere liberi da vari punti di vista. Non solo sfruttano le nostre risorse, la terra, l’acqua, stanno anche mettendo a repentaglio i nostri equilibri interni, i legami familiari, stanno distruggendo la nostra società.
Ancora oggi gli israeliani continuano a reclutare collaborazionisti tra i palestinesi, li seducono o fanno pressioni proprio tra quelli più deboli, che diventano facili strumenti nelle mani dei servizi di sicurezza. Io so che almeno una novantina di questi collaborazionisti sono essi stessi delle vittime delle pressioni dei servizi israeliani. Quindi dobbiamo prenderci cura anche di loro; non possiamo certo ucciderli, non farebbe che perpetuare questo ciclo di miseria umana; qual è la colpa dei loro figli o nipoti? Bisogna riabilitarli e reintegrarli nella società.
E’ evidente il legame fra la Shoah, e il fatto che a Israele sia concessa una licenza di sottrarsi alle leggi internazionali. Questo però significa che a pagare il prezzo di quella tragedia sono i palestinesi…
Noi abbiamo accettato e superato questo. Conosciamo il dramma degli ebrei, umiliati e maltrattati in tutto il mondo nel corso della storia. La Shoah è stata un’enorme tragedia. E noi ne abbiamo pagato il prezzo. Ma non vogliamo continuare a pagarlo. Nel 1948 i palestinesi sono stati espulsi dalla loro terra; il 72% della Palestina è diventata Israele. E’ stato un prezzo molto alto. Il fatto è che ancora oggi noi continuiamo a pagare. Fino a quando saremo costretti a farlo? Anche l’area che abbiamo perduto nel 1967 fa parte di quel prezzo? Dirò di più: i palestinesi vengono definiti gli “ebrei” degli arabi, per via della diaspora e delle sofferenze patite. Ebbene, questo, come dicevo, sta creando una sorta di empatia con gli ebrei… Insomma, di nuovo, noi non vogliamo che gli israeliani vivano nell’insicurezza. E però vogliamo essere liberi. Oggi pensiamo che il mondo intero debba farsi carico di questo fardello, politicamente, economicamente e moralmente.
E’ sempre doloroso vedere che qualcuno compie un crimine e sono altri a dover scontare la pena, ma questo noi l’abbiamo accettato. Dopodiché però avremmo voluto poter dire: “Va bene, è andata così, ora ricominciamo da zero”. Invece non è stato così.
Insomma, io credo che oggi Israele sia l’unico paese al mondo che si sottrae a tutte le leggi internazionali, alle risoluzioni Onu. Allora immagina uno Stato che non teme, un giorno o l’altro, di essere chiamato davanti a un tribunale; immagina un soldato che non teme, nel caso violi i diritti umani o la Convenzione di Ginevra, di essere processato; immagina cosa potrà fare. Che a Israele sia concesso di rimanere al di sopra delle leggi che governano il mondo per noi è ai limiti della sopportazione. Noi vediamo tutto il mondo dalla sua parte.
Insomma Israele può mantenere tutte le armi illegali altrove bandite e nessun ufficiale o Ministro della Guerra (mi rifiuto di chiamarlo Ministero della Difesa) verrà mai processato per questo. Potrebbe mai diventare argomento di discussione la messa al bando dell’arsenale nucleare di Israele? E’ una pura illusione. Certo, resta questo nodo doloroso del passato, e dall’altra parte però c’è questa continua violazione dei diritti dei palestinesi.
E’ anche per questo che la nostra causa non può trovare soluzione solo all’interno. La comunità internazionale dovrebbe trovare il coraggio non di prendere le parte dei palestinesi o degli israeliani, ma di agire in modo giusto, bilanciato, di imporsi anche: “Ora è finita: gli insediamenti vanno smantellati; i palestinesi hanno il diritto di creare il proprio Stato; Gerusalemme Est è sotto mandato internazionale”.
La sovrapposizione tra critica a Israele e antisemitismo crea una sorta di cortocircuito…
E’ vero, ormai la lista nera di Israele sta includendo mezzo mondo; chiunque osi dire qualcosa contro Sharon viene immediatamente ingabbiato nello stereotipo dell’antisemita, se non del neonazista. La gente dovrebbe però iniziare a distinguere tra le due cose: tra la critica contro una lampante ingiustizia e l’antisemitismo. Non si può fare un miscuglio che giustifica tutto.
Non so nemmeno più quante siano le risoluzioni dell’Onu e del Consiglio di Sicurezza riguardanti la nostra regione. Non una è stata rispettata da Israele. Non una. Ora non ricordo il numero preciso, ma un giorno vorrei raccoglierle tutte e metterle una dietro l’altra.
Prendiamo la 194 per il diritto al ritorno dei profughi: dopo 50 anni, oggi si comincia a “negoziare”… Eppure la risoluzione era chiara: coloro che sono stati espulsi, se lo vogliono, hanno il diritto di ritornare; se non vogliono, verrà offerto loro un risarcimento. La 242, la 338… la stessa cosa.
L’intero mondo potrebbe mobilitarsi e fare delle pressioni a vari livelli. A me non piace l’idea di far pressione sulle persone, e tuttavia per vedere la giustizia rispettata…
Chiedo: perché i paesi europei e gli Usa continuano a rifornire Israele di armi? Queste armi vengono usate quotidianamente contro i palestinesi. Anche per quanto riguarda il sostegno finanziario: Israele usa i soldi per costruire gli insediamenti e le infrastrutture che li mettono in collegamento. E perché dopo 14 anni dalla caduta del Muro di Berlino, i soldi dell’America vengono usati per costruire un nuovo muro? Perché tutte queste contraddizioni?
Qui c’è qualcosa che ha a che fare con la strumentalizzazione del passato per giustificare il presente e per mantenere questo presente anche nel futuro. Questo non è leale.
Vuoi aggiungere qualcosa?
Per concludere, vorrei citare una donna israeliana, che secondo me ha davvero toccato un punto nodale. E’ un’amica, la conosco bene, è una persona onesta e sincera. Ad un recente incontro lei ha detto: “Io sono terribilmente triste, e sento ancora un grande dolore -ha perduto la figlia in un attentato palestinese- e tuttavia provo un senso di sollievo a sapere che l’assassino di mia figlia sia morto anch’egli. Ad essere onesta mi chiedo però come debbano sentirsi le madri palestinesi sapendo che gli assassini dei loro figli o figlie sono ancora vivi e liberi, senza nemmeno la paura di essere portati in tribunale”. E’ stata un’esperienza molto forte sentire questa donna parlare così; c’erano circa 50-60 israeliani presenti all’incontro e qualche palestinese. E lei aveva premesso: “Mi sento legittimata proprio dal mio dramma a dire quanto sto per dire e credo nessuno possa contestarmi”. E poi l’ha detto. E i palestinesi si sentono esattamente così: i loro assassini oggi sono liberi e vivono nell’impunità.



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