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DAN BAR-ON E SAMI ADWAN - CHI HA SEI FIGLI?

1.7.2001, da UNA CITTÀ n. 97 / Luglio-Agosto 2001
L’incontro, il racconto delle rispettive storie, la scoperta di valori condivisi, la familiarità di visi che ora bisognerebbe dimenticare. Il duro lavoro di due costruttori di pace, che ora rischia di andare a male. L’impegno di Dan a incontrare in Germania i figli dei carnefici. Come lavorare sulle differenze, sulle asimmetrie, che forse possono pure tornare utili. Gli interventi di Sami Adwan, palestinese, e di Dan Bar-On, israeliano.

Dan Bar-On e Sami Adwan, docenti universitari e co-direttori del Prime (Peace Research Institute for the Middle East), hanno ricevuto quest’anno il premio Alexander Langer.

Sami Adwan
Credo di poter dire, anche a nome del mio collega Dan, che siamo veramente felici di essere stati invitati qui e siamo onorati di ricevere il Premio Alexander Langer dell’edizione 2001.
Avrei preferito che fossimo stati invitati prima del settembre 2000, per potervi parlare delle buone cose a cui ci eravamo dedicati, per infondervi un senso di fiducia su come la cooperazione può portare pace e comprensione, anche a livello individuale, personale, familiare, di comunità.
E’ infatti un peccato che la situazione, da settembre 2000, si sia deteriorata a un punto che non era stato previsto in alcun modo, ad alcun livello.
Da quando era stato firmato Oslo, nel 1993, ci sentivamo così vicini, così legati dall’impegno per la pace, come due entità che si stavano per unire.
Sfortunatamente, questa cosiddetta “era di pace”, iniziata appunto nel 1993, sembra essere finita. La gente ha smesso di avere fiducia e speranza in un futuro migliore. E questo è risultato insopportabile per tutta la gente che ha dedicato tanto tempo e sforzi ed energie per mantenere quella piccola speranza, anche in un momento cruciale e buio, come quello che stiamo attraversando.
Naturalmente, non è facile mantenere la speranza in questo conflitto, anche perché parliamo di un conflitto sanguinoso. Mantenere la forza per continuare a credere in se stessi è una grande sfida. E allora è fondamentale per gente come noi non smettere di incontrarsi e parlare. Il periodo di pace tra il 1993 e lo scorso anno ci è servito per svelare i nostri volti, come appartenenti a esseri umani, a persone, con un nome, delle speranze, una vita familiare. Ecco, purtroppo ora è forte la tentazione di far scomparire queste immagini, questi visi così faticosamente scoperti. E io stesso tante volte mi sono trovato a combattere per mantenere impressa l’immagine dei miei amici israeliani, come volti umani.
La lotta, ma anche la paura di perdere le immagini conquistate, sta diventando dolorosa per me, per la mia famiglia e i miei figli. Perché la mia famiglia è anch’essa pesantemente coinvolta in ciò che faccio personalmente.
Noi abbiamo degli incontri, degli scambi con Dan, e allora ogni visita, ogni viaggio che facciamo insieme, gli incontri a cui partecipiamo, vedono sempre anche il coinvolgimento delle nostre famiglie. Eppure questo tipo di relazioni, che deve essere coltivato e sostenuto dalla speranza, è fondamentale anche nei momenti più difficili del conflitto.
Sfortunatamente quello israeliano-palestinese è un conflitto che si protrae da tempo. E questo rende ancora più difficoltosa la ricerca di una pace.
Naturalmente questa è una sfida anche per i peace-makers, i politici. Dopo la firma degli accordi di Oslo noi abbiamo assunto delle iniziative, abbiamo cominciato a lavorare a un progetto, cercando di raccogliere della gente, di metterla assieme, a raccontare le proprie storie, a condividere le esperienze, portando avanti una ricerca, ma soprattutto promuovendo un dialogo. E parliamo di un dialogo che certo non è stato facile perché ci ha fatto scoprire che noi abbiamo così tanto da condividere, ma anche così tanto che invece non condividiamo, e che dobbiamo quindi cercare di comunicare per farci capire.
Dal 1993 sono stati avviati molti progetti, ci sono tante Ong che lavorano per la costruzione della pace; alcune hanno forme di cooperazione con altre Ong, altre invece si basano sui rapporti tra persone delle due parti.
Come Prime (Peace Research Institute for the Middle East) abbiamo pensato che il modo migliore per realizzare la nostra cooperazione sarebbe stata la costruzione di un’istituzione equamente condivisa e partecipata.
Ci sono molti progetti che stanno andando avanti, qui e là. Sfortunatamente questi progetti non sono stati seguiti da un progresso nell’ambito dei discorsi politici, a livello dei leader. Se guardiamo indietro, dal 1993, fino al settembre 2000, vediamo quasi solo accordi dopo accordi, dopo accordi, e fallimenti dopo fallimenti…
Ed è così che siamo arrivati a questo settembre 2000, quando il conflitto è ripreso e ha proseguito in questi mesi in un’escalation di violenza ed esasperazione. Gli accordi politici dovrebbero invece appoggiare sul terreno il processo di pace in corso. Perché il processo di pace ha maggiore influenza ed efficacia quando tocca il cuore e la testa degli individui, così da sbarazzarsi degli stereotipi e delle immagini negative dell’altro. E però, tutto questo non basta, abbiamo bisogno anche degli accordi politici, per sostenere questi tentativi. Per cui entrambi, i peace-builders e i peace-makers, devono parlare lo stesso linguaggio, le stesse parole, devono acquisire la stessa comprensione della situazione.
Dagli accordi di Oslo, molti palestinesi e israeliani hanno scambiato le proprie esperienze, a diversi livelli. La prima volta che ci siamo incontrati, palestinesi e israeliani, è stato nel 1997, quando un gruppo di 15 palestinesi e 15 israeliani si trovarono assieme per valutare la possibilità di un progetto comune. Da un lato si trattava di avviare questo progetto condiviso, ma dall’altro il vero successo fu che riuscimmo innanzitutto a costruire delle relazioni tra persone, tra individui. Questo ha poi permesso di costruire interessi condivisi, visioni comuni; così dal livello individuale si è passati a un’istituzione formale.
In queste situazioni è importante trovare e mantenere valori e interessi condivisi tra le persone. E ciò che sorprende è che si può cominciare da cose molto piccole, banali.
In quel primo incontro, ricordo che eravamo seduti attorno a questo tavolo e si stavano ancora solo facendo delle battute per sdrammatizzare un po’ la situazione. Per rompere il ghiaccio qualcuno aveva chiesto: “chi ha un figlio, chi due?”, cioè chi ne aveva uno, doveva alzare la mano, chi due idem. Ebbene, quando si arrivò a “chi ha sei figli?” ci siamo guardati tra di noi e abbiamo scoperto che proprio Dan aveva alzato la mano e anch’io la mia.
Allora, sapete, questo è stato un messaggio molto forte, riguardo alle differenze che ci hanno separato in tutti questi anni di inimicizia e conflitto: ecco, c’era qualcosa di condiviso.
Quando poi, sempre durante quel primo incontro, abbiamo raccontato le nostre storie, anche in quell’occasione abbiamo scoperto, a vari livelli, che c’erano degli aspetti condivisi sul piano delle esperienze e dei sentimenti.
In relazioni conflittuali quello che in genere si vede sono solo le differenze; tu percepisci solo di essere differente, di non essere come lui, e che lui non è come te. E se questa formula si fissa nella tua testa, non puoi trovare una via condivisa per uscire da questa situazione bloccata.
Io sono stato politicamente coinvolto nell’Intifada, nel 1987, la prima, con il gruppo di Al Fatah; stavo lavorando nel distretto di Hebron, il più grande. Sono anche rimasto 5 mesi in una prigione israeliana. E quella non è stata un’esperienza facile: stare lontano dalla tua famiglia, isolato, in una cella, in una prigione che era stata costruita all’inizio dell’Intifada.
Io fui portato via subito dopo la nascita di mio figlio, che oggi ha dieci anni; allora aveva tre giorni: lui venne portato a casa dall’ospedale e io fui portato in prigione.
L’esperienza carceraria può essere distruttiva, ma anche molto interessante.
Per me, per quanto sia stato duro, credo sia stata un’esperienza che mi ha insegnato delle cose. Non voglio farla di nuovo però!
Sicuramente quest’esperienza ha avuto un effetto di rottura sul mio modo di vedere e capire la situazione. Io ero stato arrestato senza un processo perché, in base alla legge amministrativa, loro possono trattenerti per sei mesi, e poi ancora per un anno, fino a due, il tutto senza un processo formale.
Comunque al mio arrivo, uno di questi soldati venne da me e mi chiese di firmare una carta. Era in ebraico, era la mia sentenza, lo scoprii successivamente, era la sentenza che mi condannava per essere politicamente coinvolto con il movimento di Al Fatah. Ma io non sapevo leggere l’ebraico, per cui mi rifiutai: non posso firmare un documento che non capisco. Ebbene, l’ufficiale insistette che dovevo firmare. Ma il soldato replicò (io capii il senso): ma come si può chiedergli di firmare una carta in una lingua che non conosce?
Ecco, quest’episodio, in qualche modo, mi ha scioccato: anche nella stessa uniforme, ci sono persone diverse nel modo di pensare. E ancora quando arrivammo al carcere, l’ufficiale rifiutò di darci dell’acqua, ma uno dei soldati, dopo che l’ufficiale era andato via ci disse: no, potete andare e bere. Insomma disobbedì agli ordini.
Oggi, quando guardiamo agli accordi di Oslo, è incredibile quanto ottimismo avessero trasmesso sul fatto che la pace poteva essere conquistata. Ricordo che anche i palestinesi, che fino al giorno prima gettavano pietre ai soldati israeliani, a Ramallah o in altri luoghi, si misero a offrire loro fiori e dolci, e onesta amicizia.
Era proprio una gioia legata alla firma di quegli accordi. Ma dal 1993 a oggi, il processo di pace non si è mai mosso dal livello politico al terreno, che vuol dire che la vita dei palestinesi non è cambiata poi tanto.
Certo, l’area è stata divisa in zona A, B, C, ma la libertà di movimento resta lontana, la colonizzazione è continuata anche durante il governo laburista, durante il Likud, viaggiare all’estero è diventato un problema; ci sono stati dei miglioramenti qui e là, ma i palestinesi, i palestinesi normali, non hanno sentito che la pace fosse vicina. Ed è per questo che i palestinesi sentono che quegli accordi sono falliti sia per quanto riguarda Gerusalemme, che per le colonie.
E’ evidente che per costruire un futuro solido, per una pace reale, i peace-makers devono trovare una formula realistica. Perché se non si pensa in questi termini alla questione del conflitto, la prossima generazione non la accetterà. E noi certo non vogliamo una nuova ondata di vendette e di violenze.
Credo poi che anche gli israeliani siano molto delusi da come la situazione si è recentemente deteriorata.
Non è certo un caso se oggi siamo testimoni, da entrambe le parti, di uno spostamento preoccupante, dalla sinistra, o dal centro, verso la destra.
La sede del Prime è nella scuola Thalita Kumi. Anche la scelta del posto, nel mezzo del conflitto, è stata emblematica. Comunque la sede è nell’area C, accessibile a ebrei e palestinesi senza bisogno di permessi. Del resto noi palestinesi non avremmo potuto entrare nelle altre zone.
Abbiamo un’assemblea generale e un comitato esecutivo compartecipati, in cui ci incontriamo periodicamente.
All’inizio ci vedevamo e incontravamo in vari posti. Ma ora è diventato difficile anche organizzare un breve incontro a Thalita Kumi o a Gerusalemme o a Betlemme, per cui spesso ci troviamo ai check-point, tra Gerusalemme e Betlemme, e ormai ci siamo abituati a parlarci davanti ai soldati dei check-point; certo non è un gran posto per un ritrovo, ma è l’unico modo che abbiamo trovato, al momento, per continuare il lavoro. Non abbiamo più potuto indire assemblee generali, né del comitato esecutivo.
Io non credo che il conflitto israeliano-palestinese possa essere risolto, in alcun modo, con l’uso della forza. Fino a che Israele ha le armi, fino a che ha questa tecnologia avanzata, non posso pensare che una vera pace possa arrivare da una formula di questo tipo. E poi non credo che gli israeliani possano prevalere su persone che vogliono innanzitutto vivere, dato che i palestinesi da sempre lottano per la loro dignità e indipendenza, per uno Stato. Per cui loro possono vincere la guerra sul piano militare, contro un regime, ma non contro la nostra gente.
Dall’altra parte, poi, non credo che l’uso della strategia della forza da parte palestinese possa portare a una situazione di pace. E’ una strategia votata al fallimento, noi lo sappiamo, porterebbe solo a dell’altro spargimento di sangue, senza risolvere il conflitto. Per cui la formula dell’uno contro uno, a somma zero, non può funzionare.
Questo è un momento veramente cruciale e noi oggi non riusciamo a essere ottimisti, perché il rumore delle armi, degli elicotteri, degli F 16, dei cannoni, degli Ak 47 è più forte, molto più forte della domanda di pace di tante persone.
Allora l’unico modo per uscire da questo momento credo sia il nostro riconoscimento reciproco quali esseri umani, con i loro diritti e la loro dignità. Dall’altra parte, dato che sono testimone della mia stessa esperienza, posso dire che la continua occupazione da parte israeliana dei territori non sta colpendo solo i palestinesi; sta mettendo a repentaglio anche le infrastrutture israeliane, oltre che l’immagine di Israele e degli ebrei, della loro etica e moralità.
Questo è qualcosa che già si può leggere in molti articoli. Israele si sta autodistruggendo con questa occupazione. E’ da troppo che dura ormai, sono andati troppo lontani con questa occupazione.

Oggi diversi paesi europei, come pure gli Usa stanno facendo delle proposte. Credo che il miglior ordine del giorno per porre fine a questo conflitto debba però venire dalla Palestina e da Israele e poi essere sostenuto e finanziato dall’esterno. Siamo noi a voler vivere qui, la nostra convivenza non può venire dagli Usa che dicono: noi vogliamo che voi viviate in pace…
Non a caso, l’ultimo intervento degli Usa a Camp David è fallito. Io poi credo che il ruolo dell’Europa dovrebbe essere più positivo e incisivo, perché la storia del conflitto israeliano-palestinese è strettamente legata alla questione degli ebrei europei, all’Olocausto. Noi potremmo dire, in un certo senso, che entrambi, palestinesi ed ebrei, sono vittime dell’Olocausto.
Infine vorrei anche dirvi che quando abbiamo saputo di questo premio ci trovavamo in una situazione veramente terribile, così ci siamo detti: “Guarda, Dan, c’è della gente che ci ascolta, che ascolta le nostre parole”, e questo ci ha almeno un po’ sollevato dalla disperazione. Perché è importante sentire che c’è qualcuno che condivide la nostra battaglia, che apprezza il nostro lavoro, che lo riconosce e lo sostiene. La gente che vive in una situazione di conflitto ha bisogno di questo. Grazie.

Dan Bar-On
Mi unisco a Sami nel ringraziarvi dell’invito. Ricevere un premio è un momento che spaventa anche. Non so quanti di voi abbiano visto il film “The nasty girl” su una giovane donna tedesca che cerca di scoprire il passato nella sua città ricostruendone le vicende e scoprendo improvvisamente che la storia nazista è ancora viva. Lo stesso sindaco della città sembra essere stato coinvolto, con altre persone. Così lei viene perseguitata dalla gente, anche minacciata. Ma pur essendo una giovane donna va avanti e lotta per portare alla luce questo passato. Ebbene, alla fine del film, viene abbracciata dall’intera comunità che le conferisce un premio. Ecco è a quel punto che lei è spaventata.
Allora, io non mi preoccupo così tanto per quanto riguarda me e Sami, perché quando torneremo a casa, non verremo certo abbracciati! Resta però il fatto che questo premio ci onora e ci spaventa. Vorrei condividere con voi qualcuna delle pietre miliari della mia storia, che mi hanno portato a lavorare con Sami al Prime. Noi, Sami e io, veniamo da diverse origini, ma questo non significa che non possiamo trovare un terreno comune tra noi.
Io sono la prima persona della mia famiglia ad essere nata in Israele, Palestina a quel tempo. E forse il mio nipotino sarà il primo della famiglia a guardarsi indietro con occhio distaccato. Perché credo che l’immigrazione necessiti di almeno tre generazioni prima che la gente sappia chi è e dove vive.
Allora, se mi paragono a Sami, che è cresciuto in una famiglia che vive in quel villaggio palestinese da generazioni, è già sufficientemente chiaro con quali diverse prospettive vediamo la situazione.
Tuttavia, nei primi anni questo per me non significava molto. Io ho cercato di essere un israeliano come quelli che già vivevano qui. E così ho cercato di cancellare il passato della mia famiglia e forse anche della mia gente. E di comportarmi come se tutto questo non fosse mai accaduto. Mi ci sono voluti degli anni per arrivare alla mia crisi personale, per capire anche la crisi che stava coinvolgendo il paese, la mia società, per capire che dimenticare il passato, o reprimerlo, non può funzionare.
Infatti io avevo bisogno di integrare la mia eredità, quella della mia comunità, e quindi anche ciò che è accaduto alla mia gente prima che io nascessi. E’ stato un processo difficile, che però mi ha offerto degli appigli anche per capire le difficoltà di chi mi vive attorno.
Nel mio lavoro di psicoterapeuta mi sono trovato ad operare, fin dall’inizio, con sopravvissuti dell’Olocausto ma anche con i loro figli.
Eravamo nella metà degli anni ’70 e si trattava ancora di un argomento pressoché sconosciuto, non solo in campo professionale, ma anche nella società israeliana. Attraverso quel lavoro ho cominciato a capire quanto il passato sia ancora drammaticamente presente nella nostra vita quotidiana. E questa è diventata una delle mie conquiste professionali, che più tardi mi ha portato anche a cercare di capire cosa fosse accaduto dall’altra parte, con questa stessa prospettiva; mi ha portato a fare delle interviste in Germania ai figli dei criminali nazisti.
Credo sia stato un passo anomalo per uno psicologo israeliano andare in Germania; in fondo era contro la natura della nostra stessa eredità e società. Tuttavia io posso dire che questo mi ha aiutato a uscire dall’immagine in bianco e nero con cui ero cresciuto. Noi eravamo le vittime, infatti abbiamo anche sviluppato una sorta di cultura della vittima, che io credo continui a sussistere anche oggi. E dall’altra parte c’erano i cattivi che hanno fatto quello che hanno fatto. Noi eravamo i buoni e loro i malvagi.
Ecco, attraverso i miei studi ho imparato intanto a riconoscere come le cose siano più complicate. Alcuni degli intervistati mi raccontarono di genitori, che mentre fuori stavano partecipando all’assassinio di molte persone, a casa erano amorevoli padri e mariti.
Ho dovuto cercare di capire come fosse possibile. Insomma ho imparato che le cose sono più complicate e che il male e il bene possono stare nella medesima persona, e spesso non si può sapere cosa emergerà per primo. Questo lavoro mi ha aiutato a riflettere anche su di me e la mia gente. Perché anche noi non siamo solo vittime, possiamo anche noi infliggere sofferenza ad altre persone, a volte anche in nome della nostra stessa sofferenza.
Così, dopo aver formato un gruppo di tedeschi, nel 1988, con cui ho lavorato per 4 anni, ho suggerito e chiesto loro se volessero incontrarsi con un gruppo di figli di sopravvissuti all’Olocausto provenienti da Israele e Stati Uniti. Ebbene, la risposta è stata affermativa, così nel 1992, abbiamo formato un gruppo di 18 persone, 9 tedeschi e 9 ebrei, che ha cominciato a incontrarsi regolarmente ogni anno.
Ciò che abbiamo fatto nel gruppo è stato fondamentalmente condividere le nostre storie. Le storie di vita non sono una cosa che si formula una volta per tutte. Le storie di vita sono qualcosa per cui, quando tu ascolti quella di un altro poi, sei portato a rivedere anche la tua, interamente.
Per esempio, una delle scoperte più sconcertanti fu che da entrambe le parti i bambini erano cresciuti nel silenzio dei loro genitori. Che non significa che i genitori non dicessero niente: i genitori parlavano di qualsiasi cosa, mantenendo però il silenzio su una parte specifica della loro biografia; in particolare, per i sopravvissuti, quello per cui erano passati durante l’Olocausto; per gli aggressori quello che avevano fatto nel periodo nazista. Ma il meccanismo era lo stesso. E’ molto difficile per un bambino percepire cosa viene tenuto sotto silenzio, perché alcune vicende vengono narrate, però resta sempre qualcosa di non detto all’interno della storia. E tuttavia, abbiamo individuato anche delle differenze, perché il silenzio per i figli dei sopravvissuti riguardava storie di sofferenza, dolore e perdita; invece il silenzio nelle famiglie degli aggressori riguardava ciò che questa gente aveva commesso.
Ebbene, ciò che tu puoi condividere di queste storie ti porta a riflettere nuovamente, a guardare indietro alla tua storia. Anche più di una volta. Ma oggi, in questi gruppi, la gente si capisce e assume atteggiamenti e sentimenti positivi gli uni con gli altri.
Il fatto è che poi se tornano alle loro case e raccontano di questa esperienza, la gente li guarda come fossero impazziti. Per cui quando ti incontri nuovamente devi decidere se vuoi rinunciare al legame con la tua comunità o se vuoi rinunciare all’esperienza di condivisione.
E io credo che una delle cose belle di questo gruppo sia che i partecipanti non hanno optato per alcuna delle due parti. Hanno deciso di continuare con questa tensione, di vivere questa esperienza senza perdere il contatto con la comunità. E questo mi ha insegnato molto, per esempio, anche rispetto al lavoro che svolgo in gruppo con Sami.
Non si tratta solo di Sami e me. Noi condividiamo molto della nostra vita. Siamo amici, ci vogliamo bene. E poi io sento una forma di responsabilità e affetto per i suoi figli, e credo che Sami provi lo stesso per me e i miei figli. Il fatto è che noi però continuiamo a essere parte integrante delle nostre comunità. Non ci lasciamo marginalizzare. E questa tensione è molto difficile da sostenere. Tra l’altro, è anche una situazione asimmetrica. La società palestinese si trova in una fase diversa rispetto alla società israeliana. E per Sami mantenere questa tensione è a volte molto più difficile di quanto non sia per me, perché io non vengo minacciato direttamente perché lavoro con lui.
Nel 1998 si è deciso di far entrare nel gruppo di ebrei e tedeschi anche persone di altri paesi. Così abbiamo tenuto un seminario vicino Amburgo, dove abbiamo invitato persone dal Nord Irlanda, professionisti che lavorano da entrambi i lati, protestanti e cattolici; abbiamo invitato persone dal Sudafrica, e poi c’erano palestinesi e israeliani; anche Sami e qualcun altro impegnato nel Prime vennero a quella conferenza.
Quell’incontro ci ha dato l’opportunità di capire delle cose nuove. Quell’occasione ci ha dato soprattutto la possibilità, per la prima volta, di avere nella stessa stanza tedeschi figli di aggressori, ebrei figli di sopravvissuti, e palestinesi.
Uno degli aspetti più illuminanti di quell’incontro -è difficile per me parlarne, c’è una preoccupazione per la mia stessa gente- fu vedere che gli ebrei presenti nella stanza si sentivano più a loro agio coi tedeschi che coi palestinesi.
Ci sono diverse spiegazioni possibili. Intanto c’era sicuramente il fatto che quel gruppo di ebrei e tedeschi per anni si era già incontrato, si conoscevano, c’era confidenza. Ma io credo ci fossero anche altre ragioni. E una è che gli ebrei si sentivano meglio nel ruolo di vittime -dato che comunque coi tedeschi erano le vittime dell’Olocausto- piuttosto che affrontare la relazione coi palestinesi, in cui sono ancora vittime -non direi infatti che gli ebrei non siano vittime- ma è innegabile che noi siamo anche “vittimizzatori”.
L’altro aspetto è che questa sensazione di “vicinanza” aveva anche una componente culturale. Gli ebrei si sentivano più a proprio agio nel contesto culturale europeo che nel contesto mediorientale. Noi ci sentiamo forse più vicini a una cultura ebraico-cristiana che non a una ebraico-musulmana.
Allora io credo che tutte queste questioni non siano marginali, che ci parlino anche del perché ancora il conflitto non è stato risolto.
Questa esperienza ha aiutato anche me e Sami a pensare al Prime non come a un luogo in cui risolveremo i problemi, bensì a un luogo in cui cercare di comprendere il processo.
C’è una differenza di base tra peace-makers, ossia i politici, i responsabili della costruzione di una pace, e i peace-builders, come noi, che siamo più coinvolti in attività sul terreno.
Noi abbiamo forse il lusso, ma anche la responsabilità, di guardare ai processi, che in genere sono difficili da misurare, e si svolgono su lunghi periodi. E però conosciamo anche l’importanza di ciò che viene dall’esterno per invertire il processo.
Insomma a noi è chiaro che bisogna arrivare a degli accordi politici tra palestinesi e israeliani. Sappiamo che lo stato palestinese è una necessità per proseguire in questo processo; che dobbiamo lasciare i Territori affinché tale stato possa costituirsi. In definitiva ci è chiaro che le proposte politiche esterne sono importanti. L’asimmetria riguarda il fatto che i politici -noi sentiamo- invece non sono consapevoli dell’importanza di lavorare sul processo. E se posso analizzare quanto accaduto a Camp David, dal mio punto di vista è evidente che Barak si è rivelato assolutamente incapace di capire il processo.
Questo ci porta a una delle questioni più frustranti per Sami e me. Ossia che noi sappiamo perché i politici sono così rilevanti per noi, ma non sentiamo lo stesso riconoscimento rispetto a come anche noi siamo rilevanti per loro. E io sono convinto che questo debba cambiare. E so anche che ci sono luoghi dove le cose vanno diversamente.
Ho analizzato per esempio l’accordo fatto, il compromesso con Mandela in Sudafrica, da cui è uscito il Trc, la Truth and Riconciliation Commission. Allora vediamo che ci sono leader che sono maggiormente orientati ai processi. E se analizziamo quanto accaduto in Irlanda del Nord, dove c’è un conflitto delicato e difficile, ebbene anche là i peace-makers sono stati coinvolti nei negoziati. Per cui ci sono posti dove questo può accadere e anzi è accaduto. Se volessi cercare di definire il lavoro che facciamo, direi che noi cerchiamo di introdurre -ed è molto complicato- un’immagine più articolata di come le relazioni tra ebrei e palestinesi potranno configurarsi in futuro in quest’area. E una delle questioni fondanti è che innanzitutto bisogna affrontare il fatto che noi non siamo monolitici, non siamo fatti di un solo blocco. La gente ama la semplicità, noi tutti amiamo le costruzioni semplici, le descrizioni parsimoniose; amiamo le cose di cui si può parlare in modo semplice. Invece è difficile per noi accettare che siamo figure complesse, che siamo costituiti da parti che spesso non stanno così bene assieme, per quanto noi cerchiamo di figurarci come unità coerenti. Banalmente, non siamo fatti così. E tuttavia, se riusciamo ad accettare che non siamo un blocco unico ed omogeneo, forse riusciremo ad indirizzare tale complessità anche nell’immagine che abbiamo degli altri.
Israele del resto è costituita di così tanti e differenti pezzi, che si è cercato di imbrigliare in quest’identità monolitica all’inizio del nostro Stato!
Allora, anziché cercare di sopprimere le differenze dobbiamo riconoscerle. Perché una volta che riusciamo a conoscerle e conviverci, non proietteremo questa nostra difficoltà dall’altra parte. E spero che questo succederà anche ai palestinesi, una volta che saranno riusciti a costituire il loro Stato: quando si sarà sedimentato un senso di sicurezza tra di loro, saranno poi in grado di convivere anch’essi con le loro differenze interne.
Perché le differenze interne possono essere tradotte anche in un’opportunità, in qualcosa che può diventare una fonte di forza, non solo di debolezza.
Perché fino a oggi, nella nostra società, tutto questo è stato interpretato solo come debolezza da reprimere, e da proiettare all’esterno, sull’altro lato del conflitto: sono loro la fonte del nostro male, quelli che non ci permettono di vivere in pace.
Vorrei infine enfatizzare che allo stato attuale israeliani e palestinesi con la parola “pace” intendono cose differenti.
Per gli israeliani la pace significa che saremo in grado di continuare la nostra vita preferibilmente senza essere disturbati. Uno dei nostri studenti palestinesi a un seminario una volta provocò l’amico israeliano dicendo: “Per voi la pace significa svegliarsi un mattino e vedere che noi non ci siamo più. Che non vi disturberemo più”.
Per cui io credo che per gli ebrei israeliani “pace” significhi sostanzialmente mantenere lo status quo, per quanto possibile. Per i palestinesi invece “pace” significa cambiare lo status quo. E i palestinesi hanno buone ragioni per pretendere tale cambiamento. Penso allora che parlare solo di “pace”, senza chiarire le diverse interpretazioni e aspettative, senza capire quale ne sia l’origine, e come si può negoziare, trovando dei compromessi, non solo non serva, ma sia ipocrita. Grazie.



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