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DAN BAR-ON - CHE IL 5762 SIA UN ANNO MIGLIORE...

1.2.2002, da UNA CITTÀ n. 101 / Febbraio 2002
Un anno iniziato con l’Intifada e conclusosi con l’attacco alle Due Torri. Il movimento pacifista troppo a lungo ha creduto di poter evitare di pagare anche un prezzo personale. Un approccio ambiguo all’uso della forza, che fa sentire gli israeliani potenti e al contempo vulnerabili. Nessuna pace stabile senza una discussione sul passato, anche sul ‘48. Intervento di Dan Bar-on.

Dan Bar-On è professore alla Ben Gurion University del Negev. Assieme a Sami Adwan, entrambi destinatari del Premio Alexander Langer 2001, dirige il Prime (Peace Research Institute for the Middle East).

Questo anno ebraico (5761) è appena finito. Un anno di speranze tramutatesi in paura, delusioni, dolore e rabbia. L’anno era iniziato in Medio Oriente con la violenta esplosione dell’Intifada Al Aqsa nella prima settimana e si è concluso con l’attacco terroristico a New York nell’ultima settimana. Il mio modo di pormi di fronte a questi eventi dolorosi è quello di cercare di trovarne un senso. Queste tragedie sono accadute in un mondo che dopo la guerra fredda avrebbe potuto tendere verso altri obiettivi: la valorizzazione delle differenze culturali, l’istruzione, la salute, l’ambiente. Mi sono messo a riguardare le cose scritte in questi anni, ogni volta mosso dal bisogno di uscire da una sensazione di frustrazione e impotenza. Auguro a tutti noi che l’anno ebraico 5762 sia un anno migliore, anche se temo che gli accordi internazionali nati dopo l’11 settembre possano condurci a una versione globale della violenza in Medio Oriente.

Con un cuore sanguinante -ovvero- Chi è il pazzo qui? Ottobre 2000
Lo ammetto: non mi hanno sparato, né mio figlio è stato rapito o ferito in guerra. Non mi sono state lanciate pietre, sebbene mi sia più volte recato a Talitha Kumi, vicino a Beit Jala. Con il professor Sami Adwan dell’Università di Betlemme abbiamo cercato di portare avanti il Prime (Peace Research Institute in the Middle East) con alcuni ricercatori israeliani e palestinesi. Non sono stato ferito nel corpo, ma il mio cuore sanguina, perché non abbiamo potuto fare niente per fermare la violenza degli ultimi giorni. Ascolto le grida “Morte agli arabi” e “Assassiniamo gli ebrei” che vengono trasmesse dai nostri media a tutte le ore. Sento la gente parlare dal barbiere o al supermercato: “Bisogna colpirli forte, capiscono solo la forza”. Immagino che da un barbiere di Gaza o in un supermercato a Betlemme i palestinesi parlino di noi con lo stesso spirito.
Ci sono situazioni in cui uno deve chiedersi: forse sono tutti pazzi e sono io l’unico sano?
C’è un racconto simile sull’Olocausto: in un villaggio ucraino tutti gli ebrei vennero fatti uscire da un gruppo di nazisti, che iniziò a sparar loro addosso. La gente del villaggio guardava in silenzio. Solo una donna cercò di fermare il massacro: “Siete pazzi, cosa state facendo?”. Si seppe poi che era la matta del villaggio.
So della denuncia per cui Sharon avrebbe istigato alla violenza andando alla moschea circondato da guardie e poliziotti, ma non sono così pazzo da pensare che quella sia stata l’unica azione che ha appiccato il fuoco. Qui c’era già un immenso potenziale per accendere un fuoco. C’era solo bisogno di una scintilla e Sharon l’ha fornita.
Ma è proprio l’immenso potenziale il problema: la paura, la sfiducia, l’odio e l’incapacità di rinunciare al sogno del “questo è tutto nostro”. Queste purtroppo sono ancora le emozioni dominanti tra tanti israeliani e palestinesi.
Dove sta la pazzia? La pazzia sta nel fatto che, col passare del tempo e dopo un numero imprecisato di ulteriori vittime civili, ci ritroveremo esattamente al punto in cui ci troviamo ora, solo più disillusi, stanchi e addolorati. Il cuore sanguina perché tutti quelli che sono stati uccisi lo saranno stati invano. Nessuno potrà riportare nel cuore di un padre che ha perso il figlio, la speranza per la pace…
Ci sono persone che non sono pazze, semmai solo un po’ naif, e che hanno bisogno di sperare, di lavorare per un futuro diverso e migliore per tutti. Queste persone hanno investito la parte migliore del loro tempo e delle loro energie nell’affrontare e nel lavorare sulle questioni esplosive che ancora esistono nel cuore e nella mente di così tanti.
Io ho preso parte a queste attività, consapevole dei miei diritti di ebreo israeliano e contemporaneamente dell’esistenza di un altro diritto -il loro. Ho imparato a capire quanto sia importante il riconoscimento dell’immenso male che è stato inflitto loro dalla mia gente (ma non solo). E loro hanno imparato a conoscere la mia sensibilità e il mio dolore. Noi sappiamo che anche quando verrà firmato un accordo di pace ci sarà ancora un grande lavoro da fare, lentamente, ma con molta energia e investimento emotivo, per riempire il trattato di contenuti e per creare un ampio consenso sociale alla sua realizzazione e mantenimento.

La fine dell’era Rabin per il movimento pacifista. Novembre 2000
Ho guardato le migliaia di persone radunatesi per commemorare Yitzhak Rabin a Tel Aviv: c’era qualcosa di patetico in questo evento. Fuori si potevano sentire i rumori di una nuova guerra e qui c’erano migliaia di persone che rifiutavano di accettare il cambiamento in atto nella realtà della società israeliana. L’ultima esplosione di violenza tra palestinesi e israeliani simboleggia più di ogni altra cosa la fine dell’era Rabin per il movimento pacifista israeliano. E’ stato facile per la sinistra israeliana nascondersi dietro le larghe spalle di quest’uomo, quando nel ’93 decise di seguire la via della pace. Sin dal suo assassinio c’è stato uno sforzo romantico di attaccarsi alla sua memoria, presumendo di poter continuare senza pagare anche un prezzo personale.
Qui bisogna dirlo apertamente: il movimento pacifista israeliano era composto da persone che hanno preferito condurre la loro vita agiata mentre Rabin faceva il lavoro sporco per loro.
Il campo pacifista ora sembra essersi svegliato a una realtà dura e crudele. E Barak non ha alcuna intenzione di portare avanti il lavoro per il movimento. Per lui è più importante mostrare a tutti che “è stato fatto tutto quello che si poteva fare”. Inoltre Barak nei rapporti interpersonali non ha avuto né la sensibilità né il fascino di Rabin, e nemmeno il suo coraggio nel prendere decisioni impopolari.
La caratteristica dell’era Barak, finora, è stata quella di riportarci al modello militaristico che era prevalso negli anni Settanta: “Gli arabi non vogliono accettare l’esistenza di Israele e quindi noi possiamo contare solo sulla nostra forza…”.
Il movimento pacifista israeliano è rimasto senza un padre e deve ancora maturare sotto molti aspetti. Le persone impegnate devono capire che dovranno pagare un prezzo personale: dovrà anche esserci una protesta più militante, per così dire; per esempio creando un movimento di genitori contro la leva dei loro figli nei Territori occupati, dove dovrebbero presidiare gli insediamenti dei coloni. Abbiamo visto che durante la guerra in Libano questo è servito a portarci fuori da quei territori.
Anche un convinto sostegno per la creazione di un tribunale internazionale che, per esempio, arrivi a mettere sotto processo quei generali israeliani che hanno dato l’ordine di uccidere civili palestinesi inermi. Su questo piano vale ricordare che l’uccisione di due donne palestinesi innocenti durante l’attacco contro un comandante Tanzim a Betlemme va considerato un assassinio e non uno “sfortunato errore”. Un’altra possibilità è un movimento più militante contro la presenza di Sharon nella coalizione: le mani di Sharon sono sporche di sangue, dai giorni di Kibiya negli anni Cinquanta, con Sabra e Shatila, all’ultima provocazione alla moschea nell’ottobre 2000. Avere “le mani sporche di sangue” è un’espressione che preferiremmo usare per i nostri nemici, non certo per gente della nostra parte.
Partecipare attivamente a queste proteste implica un costo in termini personali, soprattutto in una società che diventerà più militare e orientata a destra. Ci vorrà uno sforzo ulteriore per marginalizzare queste tendenze, che tradiscono l’ispirazione sionista originaria.
La domanda sarà allora: quanti israeliani saranno pronti ad avviarsi su questa strada, a pagare questi costi?
Il fallimento del processo di pace va condiviso da palestinesi e israeliani, anche se non c’è una situazione simmetrica tra le due parti. Anche se si può convenire sul fatto che Israele ha inchiodato Arafat in un angolo durante e dopo Camp David, non si può dire che sia stata la sola Israele a portare all’attuale violenza: entrambe le parti non hanno soddisfatto parte degli accordi da loro firmati. Le due parti, poi, non sono riuscite a contenere le forze distruttive che ci hanno riportato indietro a un circolo vizioso di violenze continue.
Barak non ha avuto la capacità (la volontà?) di dire ai coloni che molti di loro avrebbero dovuto evacuare. Ugualmente, Arafat non ha avuto il coraggio di dire ai rifugiati che per la maggior parte di loro il sogno di tornare alle proprie case in Israele non si sarebbe realizzato.
Ma Barak e Arafat hanno un’altra caratteristica comune: non hanno preso in considerazione gli sforzi fatti da migliaia di palestinesi e israeliani per la costruzione della pace, a partire dagli accordi di Oslo. Ignorare le attività che avvengono nel sottosuolo è un segno di debolezza da parte di leader che dovrebbero essere coinvolti in un processo di pace: dimostra che non conoscono la natura e la profondità di un processo di lungo periodo.
Nel frattempo noi perdiamo un’altra generazione che non conoscerà la pace. Oggi quelli che stanno dalla parte di Israele combattono per le colonie. Sembra che la generazione più anziana non sia ancora pronta a decidere che la prossima dovrebbe essere una generazione destinata a non vivere in guerra. Sembra che sia Barak che Arafat abbiano dimenticato di essersi impegnati in tale voto.

Noi, come i topi? Febbraio 2001
Israele e Palestina oggi appaiono come un laboratorio gigantesco in cui sono stati posti dei topini verdi e blu (per non dire bianchi e neri).
Ora, dato che ce ne sono troppi, gli sperimentatori hanno deciso di ridurre l’ossigeno nel laboratorio e di torturarli sistematicamente facendogli patire la fame. La domanda è: quando cominceranno a mangiarsi tra di loro? E mangeranno prima quelli della propria specie o quelli dell’altra? E quelli che sopravvivono, costruiranno delle relazioni più pacifiche e democratiche o continueranno per sempre a mangiarsi tra di loro?
La differenza tra questa analogia e il Medio Oriente è che noi siamo sia i topi che gli sperimentatori. L’ossigeno è la speranza di un futuro di pace che va via via dissolvendosi; la tortura attraverso la fame, che per i palestinesi è una realtà concreta, per noi è il quotidiano spargimento di sangue nelle strade, nelle auto prese di mira…
Quest’immagine mi è apparsa ascoltando un’anziana donna araba di Haifa, dove ho condotto una serie di interviste con ebrei e arabi che ricordavano Haifa prima del ’48. Lei era appena stata a far visita alla sorella che vive vicino a Damasco e cercava di raccontare come mai la sua famiglia avesse lasciato Haifa nel ’48: “Se ne andarono perché volevano salvare i figli da un massacro, pensavano di tornare a guerra conclusa. Oggi, succedesse di nuovo, sacrificheremmo i nostri figli, ma non ci muoveremmo di un dito da qui!”. Questi racconti mi hanno fatto vedere l’attuale conflitto sotto un’altra luce. Mi sono chiesto se non avessero interiorizzato la nozione che un generale israeliano espresse negli anni Settanta rivolgendosi ai vertici militari: “Metti un pollice tra le loro costole e spingi, spingi fino a che non se ne vanno”. Entrambe le parti stanno spingendo i loro pollici contro le costole degli altri, sperando che l’altra parte prima o poi se ne vada.
Ci si aspetterebbe che oggi la destra fosse soddisfatta: “Ve l’avevamo detto, non c’è nessuno con cui parlare! Capiscono solo la forza”. In realtà allo stato attuale anche la destra sembra confusa. Perché? Io credo che abbiano infine capito che la politica degli insediamenti, da loro violentemente promossa in tutti questi anni, può tornare indietro come un boomerang. Forse abbiamo raggiunto un punto di non ritorno. Se prima pensavano che gli insediamenti avrebbero forzato i palestinesi a trattare, ora proprio tali insediamenti potrebbero essere diventati il maggior ostacolo alla soluzione dei due stati, tra il mare e il Giordano. Alcuni palestinesi hanno espresso tale cambio di prospettiva ammettendo amaramente: “Anche i Crociati hanno controllato questa regione per duecento anni”.
Se la soluzione dei due stati non sarà più applicabile, non restano che tre opzioni. Uno Stato binazionale, che ben presto non avrà più una maggioranza ebraica. Un’altra opzione è la guerra totale, illustrata con lo scenario dei topi nel laboratorio. La terza possibilità è la riconquista del West Bank e di Gaza, con il controllo dei palestinesi in un regime di apartheid che farà implodere la società civile israeliana.
La paura mi attanaglia: pare che lo scenario dei topi sia quello preferito da entrambi i contendenti.
Ma come si è arrivati a tale situazione? Qualcuno accuserà gli accordi di Oslo, ma quello è stato solo l’inizio del processo: Oslo si fondava su assunti che non sono mai stati realizzati, ossia che lo sviluppo di una fiducia reciproca, della sicurezza e di interessi comuni avrebbe permesso ad entrambe le parti di confrontarsi con le questioni difficili in direzione della soluzione del conflitto.
Allora, anziché accusare Oslo uno dovrebbe cercare di capire perché tutto questo non è avvenuto; perché, anziché fiducia reciproca, sicurezza e interessi comuni, siamo arrivati allo scenario del laboratorio. Le ragioni sono diverse e in parte differenti per noi e per i palestinesi.
Ora però io vorrei focalizzare l’attenzione sulla nostra percezione degli altri, sulla nostra ambivalenza rispetto alla violenza interiorizzata e sulla nostra paura rispetto alla fine del conflitto. Il nostro concetto dell’altro è legato alla profonda sfiducia nel fatto che i palestinesi siano sinceri nelle loro intenzioni. Temiamo che, quando parlano di pace, questo faccia parte di un piano volto ad annientarci.
Il nostro approccio ambivalente all’uso della forza e all’aggressione ci fa sentire forti e potenti e al contempo deboli e vulnerabili, rinforzando la nostra auto-percezione di eterne vittime. Questa ambivalenza ci fa avvertire maggiormente ciò che il nostro avversario ci infligge, rendendoci invece quasi insensibili al danno inferto agli altri.
La nostra paura della fine del conflitto poi è associata al fatto che molte persone hanno costruito la propria identità sul conflitto, per cui la sua fine implicherà una difficile ricostruzione: dovremo ridefinire chi siamo, se non siamo più determinati dalla negazione dell’altro e dall’odio dell’altro verso di noi. Se ancora vogliamo arrivare ad un accordo coi palestinesi, basato sulla separazione e su due stati, dobbiamo avviare un processo che ci aiuti ad affrontare meglio le nostre ansie e la nostra ambivalenza rispetto a vulnerabilità e aggressività.

Perché sono falliti gli accordi di Oslo? Aprile 2001
Forse Israele non vuole condurre i negoziati coi palestinesi sotto il fuoco, ma si potrebbe comunque continuare a pensare e ad analizzare la situazione anche sotto il fuoco. E per entrambi la prima domanda dovrebbe essere: perché sono falliti gli accordi di Oslo? Quali ostacoli hanno impedito la conclusione del processo?
Ogni volta che si torna al tavolo delle trattative, bisognerebbe almeno sapere cosa andrebbe pianificato in modo diverso, così da non fallire di nuovo. E’ difficile trovare risposte ragionevoli alla domanda, sia tra gli entusiasti di Oslo che tra i critici più feroci. Questi gruppi non riescono così a guardare oltre, bloccati nel continuo denunciare o giustificare quelle scelte. Questo in parte spiega perché siamo ancora all’inizio di un’analisi volta a individuare le ragioni di quel fallimento. Sono state avanzate molte ipotesi rispetto alla questione. Di nuovo vorrei enfatizzare l’assunto implicito, sia in Rabin che in Peres e Barak, nei loro negoziati coi palestinesi: questi leader hanno creduto di poter raggiungere un accordo finale senza occuparsi delle questioni irrisolte concernenti il passato. Bisognava lottare per un nuovo e migliore futuro e quindi non c’era ragione per riaprire vecchie ferite. Credevano che il passato fosse immerso in dolorosi ricordi personali, in sentimenti negativi e in una varietà di interpretazioni che comunque non potevano impedire di andare avanti. Forse c’era la paura di perdere il controllo sul processo in corso e forse c’era anche una logica in questo approccio, soprattutto sul versante di Israele. Riaprire il passato poteva, per esempio, sollevare la questione dell’atteggiamento tenuto dai primi governi israeliani, che farebbe cadere su Israele parte della responsabilità del problema dei profughi palestinesi. I palestinesi poi, forti di questo, potrebbero avanzare delle rivendicazioni, per esempio il riassorbimento dei profughi da parte di Israele. E’ quindi evidente che la riapertura del passato ha delle conseguenze immediate sul futuro.
L’atteggiamento di Sharon e Peres è invece impegnato a giustificare in modo assoluto la posizione di Israele e degli ebrei negando giustizia all’altra parte. Riaprire il passato renderà consapevoli del fatto che c’è un’altra via, a lato di quella scelta da Israele, per capire quanto accaduto durante il conflitto. Per esempio, gli atti terroristici del ’36-’39, dal punto di vista palestinese, facevano parte della loro lotta per l’indipendenza. La Dichiarazione di Balfour per loro è stata un’interferenza britannica alla loro sovranità e così via… Dal mio punto di vista non importa se qui si tratti di una ricostruzione retroattiva del passato o se questi argomenti siano sempre stati presenti. La paura ebraico-israeliana è che il diritto dell’altra parte squalifichi totalmente il nostro diritto a uno Stato indipendente. Proprio questa paura, però, oggi, è la causa del nostro uccidere ed essere uccisi.
Credo che questa paura sia comprensibile, dato che non ci può essere un controllo totale su un processo quando ci si occupa di un passato di dolore. E tuttavia esistono altri modi di gestire questi timori, il Sudafrica con la Commissione per la Verità e la Riconciliazione ne è un esempio. Certo, il suo sviluppo non è stato perfetto, tra l’altro si tratta essenzialmente di un processo cristiano, mentre l’approccio musulmano ed ebraico verso il perdono e la riconciliazione sono senz’altro diversi.
Ora, non voglio paragonare la nostra situazione a quella del Sudafrica, prendo questo esempio per mostrare che ci sono altri modi di discutere il passato nel presente senza perdere il controllo della situazione. Sono convinto che nei futuri negoziati ci si dovrà occupare anche del passato, per riconoscere i diritti dei palestinesi, oltre ai nostri. Non credo che il riconoscimento dei loro diritti automaticamente cancelli i nostri; per esempio credo che il riconoscimento della nostra responsabilità nella creazione del problema dei profughi non comporti automaticamente l’assorbimento, oggi, di tutti i profughi nel nostro territorio. Ma cercare di nascondere il passato sotto il tappeto, credendo così di poter raggiungere una pace stabile, è pura illusione. Dovremmo dunque cogliere la sfida di non puntare a soluzioni immediate perché questo apre nuove chances a una pace stabile e sostenuta dal basso, anziché imposta dall’alto.
Tendo a essere d’accordo con Sharon su una sola cosa: che questo processo richiederà molto tempo e passi mossi da saggezza. Non possiamo puntare a una soluzione immediata e “una volta per tutte”, come sembrava fare Barak. Ci sarà bisogno anche della partecipazione di storici e autorità spirituali e morali. La stessa componente emozionale è importante, specialmente nelle culture del Medio Oriente; bisognerà lavorare anche su questo. Una comunità ebraica che ha sofferto così tanto per il silenzio sul suo passato dovrebbe mostrare maggiore sensibilità e capire quanto tale riconoscimento sia importante anche per l’altra parte. Questo è specialmente vero quando l’altra parte sente che noi, intenzionalmente o meno, le abbiamo causato così tanto danno.

Per la società ebraico-israeliana è tempo di decidere. Luglio 2001
La società ebraico-israeliana deve decidere ora quali sono i suoi obiettivi. La decisione di non decidere sarebbe comunque pessima. Un’assenza di decisione porterebbe, presto o tardi, a una disintegrazione politica, economica e sociale, anche se sul piano militare potremmo, per un po’, sopravvivere ugualmente.
Da questo punto di vista, l’immagine del matrimonio a Versailles Hall, a Gerusalemme, in cui le persone stavano ancora ballando mentre il pavimento sotto i loro piedi già crollava, riflette l’attuale situazione della nostra società. Noi continuiamo a ballare come se tutto andasse avanti normalmente, mentre la terra sta già tremando e presto verrà meno sotto i nostri piedi.
Oggi stiamo usando la nostra lotta contro i palestinesi (e la loro contro di noi) per evitare di prendere delle decisioni.
A mio avviso, la maggiore minaccia a Israele non viene dall’esterno: anche centinaia di esplosioni provocate dai suicidi fanatici di Hamas non distruggeranno Israele. La minaccia viene dall’interno e ha a che fare con l’indecisione della società, accompagnata dagli sforzi infiniti per trovare un compromesso tra i diversi gruppi che la compongono.
Ma la crisi attuale può anche trasformarsi in un’opportunità: per ridefinire il centro su cui fondare una nuova maggioranza sionista laica. Questo centro dovrebbe poi ridefinire, chiaramente e immediatamente, i propri obiettivi per le prossime decadi: se vuole mantenere un ruolo di leadership deve decidere, anche al prezzo di una dura lotta. Una delle caratteristiche della perdita della strada è il trasformare una lotta per degli obiettivi in una battaglia per il potere personale, accompagnata dalla mancanza di comunicazione tra i leader e la più ampia base sociale, con gap crescenti tra i ricchi e i poveri, tra il centro e la periferia.
Quali le questioni prioritarie che questo gruppo dovrà affrontare nel processo di ridefinizione degli obiettivi? Innanzitutto, abbiamo bisogno di uno Stato che abbia dei confini chiari, definiti, difendibili e riconosciuti sul piano internazionale.
Il ritorno ai confini del 1967 (più o meno) è soggetto a discussioni non solo tra noi e i palestinesi: richiede una chiarificazione anche tra la maggioranza della società israeliana e i coloni e i loro sostenitori.
Trentacinque anni di occupazione e controllo su un altro gruppo nazionale non l’hanno resa affatto più legittima, né ai nostri occhi, né a quelli del mondo. Al contrario, questa occupazione ci ha corrotto, rendendoci indifferenti a noi stessi e alle sofferenze dei nostri vicini.
L’immagine del soldato che sorride guardando i coloni che bruciano la terra degli arabi come vendetta per un bambino ebreo ferito avrebbe dovuto sconvolgerci. Il fatto che sia stata accolta con indifferenza è una misura di quanto siamo andati fuori strada.
In secondo luogo, dobbiamo decidere che tipo di Stato vogliamo all’interno di quei confini, una volta definiti. Io credo che vogliamo uno Stato democratico, con una maggioranza di ebrei che rispetti le minoranze che vivono all’interno di quegli stessi confini.
Questo significa che Israele non potrà assorbire tutti i rifugiati palestinesi, anche se comunque dovremo essere consapevoli e condividere, moralmente, una parte della responsabilità nell’aver creato questo problema. Qui bisogna chiarire la differenza tra il riconoscimento morale, necessario, con la partecipazione alla soluzione del problema sul piano economico e il nostro bisogno di mantenere comunque una maggioranza di ebrei nello Stato d’Israele. Quando dico maggioranza ebraica, non necessariamente ho in mente uno Stato ebraico sul piano religioso o nazionale: dobbiamo inventare modalità creative per permettere che esistano simboli, linguaggi, festival, istituzioni in cui anche le minoranze che vivono con noi possano riconoscersi.
Una tale decisione implica, prima di tutto, un maggior investimento nelle relazioni con la minoranza arabo-israeliana, i cui diritti e sofferenze noi abbiamo ignorato troppo a lungo, senza alcuna giustificazione: è stato soprattutto questo nostro atteggiamento a rendere la loro leadership così radicale come si è ora rivelata.
Il terzo obiettivo da definire è la relazione tra ebrei religiosi e laici in Israele. Di nuovo, è diritto della maggioranza secolare definire i bisogni generali, cercando di comprendere all’interno anche quelli della minoranza religiosa, così da creare un terreno comune e un senso di responsabilità condivisa verso lo Stato.
Il quarto obiettivo che il nucleo sionista dovrebbe ridefinire è la relazione tra il centro e la periferia, includendo una riduzione del gap tra i poveri e i ricchi nel nostro paese. Noi siamo una società piccola con poche risorse naturali che non può permettersi un gap tra ricchi e poveri come quello esistente negli Usa. Negli ultimi trenta-quarant’anni abbiamo sviluppato delle modalità corrotte nell’orientamento del potere, con una mancanza di senso di responsabilità che ci ha allontanato dalla visione sionista originale; ci farebbe molto bene riacquistare la modestia che caratterizzò il sionismo fin dalle sue origini.
C’è molto da fare anche sul piano dell’educazione, dello stato sociale e dell’apertura alle differenze, che significherà una riallocazione delle risorse che rifletteranno un cambio delle priorità. Dobbiamo allora decidere se vogliamo scivolare fino a diventare un paese del terzo mondo o se vogliamo combattere per essere parte dei paesi sviluppati. Questo dovrebbe essere determinato dalle nostre azioni e non dal debito morale che il mondo ancora sente verso di noi.
Probabilmente non c’è fine alla lista degli obiettivi, ma questa mi sembra una base abbastanza ampia per una discussione che deve cominciare ora e che non dovrebbe essere ulteriormente dilazionata. Questi obiettivi dovrebbero definire cosa sarà il sionismo del nuovo millennio, non secondo questa o quella scuola o tradizione, ma in accordo con ciò che lo Stato di Israele ha prodotto in questi 53 anni, nel bene e nel male.

Dove siamo e dove stiamo andando dopo l’11 settembre 2001?
Ogni volta che ho dovuto affrontare eventi dolorosi che si accumulavano ho cercato di scavare in profondità per trovare una ragione, un modo di uscire dal caos. Più il tempo passa e meno i miei scritti trovano consenso nella mia stessa comunità. Anche un giornale liberale come Ha’aretz non ha voluto pubblicare i miei ultimi pezzi; sono stati pubblicati solo all’estero, soprattutto in Germania. Proprio come palestinesi e israeliani devono impegnarsi per chiarirsi e affrontare difficili questioni, così dopo l’11 settembre anche la comunità mondiale sembra dover rivedere le proprie priorità. Negli ultimi mesi ci sono stati due eventi importanti, che impongono entrambi una nuova agenda mondiale. La Conferenza di Durban contro il Razzismo e l’attacco alle due torri di New York e al Pentagono a Washington. Ancora non siamo riusciti a metabolizzare nessuno dei due. La conferenza di Durban ha presentato alcuni aspetti interessanti, uniti a un ritorno a certi slogan in bianco e nero, per così dire. La copertura mediatica ci ha fatto quasi trascurare il fatto che stava emergendo un crescente potere da parte delle Ong, accanto al tradizionale lavoro dei politici. Certo, alcune Ong sembrano ancora un po’ “anarchiche” e “alternative”, ma altre suggeriscono una potenziale integrazione alle politiche tradizionali dei governi. Potrebbe essere un risultato della crescente frustrazione legata all’incomprensione dei processi politici, sociali e psicologici in corso. Comunque, dietro i più semplicistici slogan manichei è apparsa evidente l’esistenza di molte altre divisioni tra i partecipanti che non possono più essere incluse in uno schema Bene versus Male. C’erano l’India e il Sudafrica, la Cina e la Russia, lo Sri Lanka e la Colombia, il Rwanda e il Messico: rappresentavano tutti differenti aspetti culturali e di sviluppo, irrisolte crisi del passato e complesse situazioni economiche e sociali nel presente. Tutto questo necessitava, più che di banali slogan politici, di una comprensione, anche umana, del contesto più profonda e articolata. Tuttavia gli slogan hanno prevalso, anche grazie ai media.
Il bisogno di slogan forse era alimentato anche dalla frustrazione del Sud povero contro il Nord ricco. I paesi poveri hanno assistito al meeting del Forum Economico Mondiale a Davos e ad altri eventi in cui i paesi ricchi si incontrano per discutere la loro crescita economica mentre l’Africa muore di Aids e l’allarme globale sembra non disturbare nessuno.
La frustrazione di questi paesi poveri forse era legata alla speranza per cui la fine della Guerra Fredda poteva essere l’opportunità per una nuova ridistribuzione del potere economico e politico nel mondo: in realtà è avvenuto quasi esattamente il contrario. A causa delle pressioni dei paesi arabi, Israele è diventato il cuore della discussione, di nuovo equiparando sionismo e razzismo. I paesi arabi volevano una forte condanna dell’occupazione violenta da parte di Israele. Israele e gli Usa hanno lasciato la conferenza e successivamente altri paesi, in particolare Europa e Sudafrica, hanno contribuito ad adottare visioni più moderate, il che ha permesso una conclusione riuscita della conferenza.
Mentre si stava ancora cercando di riflettere e interpretare la nuova mappa delle questioni che la conferenza di Durban aveva sollevato, l’attacco alle due torri, la mattina dell’11 settembre, ha sopraffatto ogni cosa.
Lo shock, le immagini della distruzione di massa, il dolore per le perdite hanno preso il posto del senso di invulnerabilità che dominava la società americana dalla fine della Guerra Fredda.
Ora non si trattava più di un evento lontano, in Kenya, Kosovo o Medio Oriente. Ora avveniva qui, a casa. Ma chi è il nemico? Cosa voleva? Come rispondergli adeguatamente, e allo stesso tempo capire in che cosa gli Usa dovevano cambiare? Tutto questo si è trasformato immediatamente in un vuoto di senso e di comprensione non facile da riempire.
Qualunque sia il risultato delle indagini, non emergeranno risposte immediate alla questione. Ancora, il pericolo immediato oggi sta nella reazione, soprattutto se sarà volta solo a soddisfare il bisogno di rinnovare il senso di invulnerabilità. La situazione potrebbe ulteriormente deteriorarsi, potrebbe crearsi un ciclo di violenze su scala globale. Ma la crisi dell’11 settembre può anche diventare un’opportunità per gli obiettivi già menzionati, che potrebbero avere una chance di essere presi in considerazione. Qui io credo che il ruolo dell’Europa sia rilevante: per sostenere gli Usa nel dolore per le perdite, ma anche per prevenire il ritorno alla vecchia e familiare divisione tra i Buoni e i Cattivi.




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