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Irfanka Pasagic: Lettera da Tuzla

1.2.2000, UNA CITTÀ n. 83 / Febbraio 2000
Di nuovo un giorno cupo. La neve ha iniziato a sciogliersi, cambiando di colore e aggiungendo del grigio alla giornata. Sono appena ritornata dall’orfanotrofio e come sempre dopo tali visite mi sento strana. Cerco di definire i miei sentimenti e le ragioni dell’inquietudine dentro di me; lottando al contempo con il desiderio di indirizzare i miei pensieri su qualcosa di più bello, su qualcosa che fa meno male.

E’ strana la differenza tra le emozioni che provo quando mi trovo dentro l’orfanotrofio e quelle che mi accompagnano all’uscita. Con l’aprirsi della porta, ecco i bambini che mi accolgono con gioia, abbastanza trattenuti da non corrermi incontro, ma rimanendo comunque sempre abbastanza vicini da poter essere toccati, se mi venisse voglia di farlo, così da guadagnarmi il loro sguardo pieno di gratitudine; in quel momento mi sento come se proprio io stessi tentando di cancellare il loro passato e le sofferenze che hanno attraversato, ma anche il loro futuro incerto, e li guardo nel presente, in quell’attimo di gioia per l’incontro e per il bel momento creatosi intorno a loro. Non appena la porta dell’orfanotrofio si chiude però, dentro di me, nella mia mente, ritornano ad apparire le immagini delle loro disgrazie; vedo di nuovo le colonne di bambini tremanti che arrivarono all’orfanotrofio, portando con sé soltanto le loro nude vite, senza neanche una fotografia che ricordasse loro quelli che non ci sono più; non un giocattolo che custodisse il calore dell’infanzia, almeno nei loro pensieri. E’ come se vedessi di nuovo i loro sguardi pieni di dolore, ma anche di coraggio; di disperazione ma anche di speranza; piccole mani che accettano con gratitudine la prima tazza di latte caldo, il terrore negli occhi per gli incubi notturni o per quelle immagini che riportano nella loro memoria l’inferno attraversato. Riconosco un’inquietudine dentro di me: la paura che per i nostri propri traumi non abbiamo le forze per aiutare adeguatamente questi bambini. Più il tempo passa e più li circondiamo con il silenzio sul passato, non so se per la necessità di difendere loro oppure noi stessi.
I traumi fanno male; i traumi dei bambini più degli altri. Incontrarsi con le loro storie è sempre una nuova sofferenza; è impossibile non vivere il loro dolore come un dolore proprio. Forse è anche questa una delle ragioni del nostro silenzio. Forse anche per questo ritorniamo a ripetere lo sbaglio del passato, negandoci il bisogno di parlare dell’orrore che abbiamo attraversato, di urlare dal dolore quando fa male, di piangere quando la tristezza diventa più forte delle nostre difese, di dire chi è il colpevole del male che abbiamo vissuto e che ora brucia tanto. Anziché fare questo, noi rimaniamo in silenzio. Quello che fa più male è il silenzio di fronte a questi bambini, bambini che avendo perso i propri genitori in guerra sono stati costretti a cercare l’amore, indispensabile per la sopravvivenza, altrove (in un altro luogo). E non raramente nelle mie emozioni riconosco il senso della vergogna. Vergogna per l’impotenza di cambiare qualcosa, perché per la comprensione della situazione in qui ci troviamo non riesco a dire abbastanza forte: Parlate! Però di nuovo, dentro di me, sento la resistenza. Dire che cosa?
Nel territorio del nostro cantone ci sono oltre 800 bambini orfani di ambedue i genitori, tra i quali la maggior parte è arrivata dopo i crimini commessi contro le popolazioni di Srebrenica e Podrinje. Chi dirà loro la verità su quello che hanno vissuto ed il perché lo hanno vissuto, su come le persone possono semplicemente sparire; chi spiegherà loro la ragione per cui migliaia di persone sono state uccise in un solo giorno?
Tutto ciò questi ragazzi non possono studiarlo a scuola. Nei loro libri, per volontà della Comunità internazionale, non c’è né Srebrenica né Ahmic; non c’è Sarajevo, non ci sono i lager e non c’è Karadzic –e allora chi dirà loro la verità? Senza la verità sul passato, il futuro dei bambini bosniaci feriti rimarrà incerto. Se riusciremo a dare loro la possibilità di sanare le proprie ferite, con la verità; di capire, ma senza dimenticare; se la giustizia riuscirà a raggiungere i carnefici, questi bambini avranno un domani migliore.
In caso contrario, non saremo forse noi i colpevoli se il loro futuro sarà la vendetta?
Nell’orfanotrofio i bambini crescono circondati dall’amore degli educatori. Ci sono dentro anche nuovi amori, nuovi interessi, nuove speranze. Il sottile filo della vita si avvolge intorno a tutto quello che li circonda come l’edera, succhiando ciò che dà loro la forza di continuare ad esistere. Forse è da lì che deriva la loro gratitudine per ogni parola calda, perché per ogni abbraccio ti regaleranno certamente il più bel sorriso del mondo.
E’ incredibile l’amore con cui vi possono amare; è incredibile la speranza che portano dentro di sé, insieme alle persone che si prendono cura di loro. Forse proprio questa forza ci aiuterà a costruire insieme un mondo migliore. E’ più facile pensare così, ed è per questo che c’è il silenzio. Però noi non abbiamo diritto al silenzio. Per i ragazzi e per il futuro.
Irfanka Pasagic*

*Irfanka Pasagic, originaria di Srebrenica, profuga come tanti altri a Tuzla, è psichiatra e lavora coi bambini e le donne traumatizzati dalla pulizia etnica.


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