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Verdi e guerra nel golfo

1.12.1990
Di fronte allo scoppio della guerra nel Golfo, quasi l'intera famiglia verde europea ha reagito con un suo riflesso ecopacifista "genetico". No alla guerra, per le vite umane che costa, per le ferite alla natura che infligge, per la rottura tra i popoli che comporta, per la sconfitta della civiltà che significa, per gli sviluppi incontrollabili che induce, per l'imbarbarimento generale che sollecita in chi la conduce, in chi la approva, in chi la subisce, in chi la osserva e commenta.

"Quasi", perché c'è stato anche chi l'ha ritenuta invece dolorosamente inevitabile, come qualche parlamentare ed esponente verde (non solo Rosa Filippini in Italia, ma p.es. anche Karl Partsch al P.E. o l'olandese Roel van Duin di "De Groenen", piccolo partito verde).

Ma in generale il fermo ripudio della guerra e la ricerca di iniziative per rendere manifesta questa posizone e per contribuire a vaccinare le società europee contro il bacillo bellico, hanno nettamento prevalso, e così i verdi sono stati dovunque schierati nel "fronte pacifista", in particolare in Francia, Germania, Gran Bretagna, Olanda, Belgio, Austria, ecc. Ed anche dove il termine "pacifista" è stato alzato come una clava contro chi era considerato reo di alto tradimento, le risposta verde è stata netta e pacata: così p.es. quando Antoine Waechter è stato intervistato alla TV francese.

"No alla guerra del petrolio", "niente sangue in cambio di petrolio", "non un soldo per questa guerra", "obiezione di coscienza", "mai più guerra", "sanzioni sì, guerra no" tra gli slogans più usati nei cortei, sui cartelli, nei sit-in, con qualche oscillazione tra settori più apertamente filo-palestinesi e filo-arabi e settori (soprattutto in Germania ed in Olanda) più preoccupati anche della salvezza di Israele.

Difficile la ricerca di vie efficaci per contribuire a soluzioni di pace: l'esaltazione della non-violenza, la ricerca di un diritto internazionale capace di farsi valere anche senza la guerra, la riforma delle Nazioni Unite, il dialogo tra società civili, la richiesta di una conferenza di pace e più in generale di soluzioni negoziate, un timido sostegno ad un ruolo europeo (o anche solo di Mitterrand) nel dialogo euro-arabo, l'invocazione di corpi ONU non-armati o comunque direttamente sottoposti all'ONU, riferimenti piuttosto incerti alla "difesa popolare non-violenta", qua e là appelli alla diserzione (tra i verdi in Germania), qua e là invece anche l'esigenza di distinguere la comprensione e persino solidarietà per i soldati inviati in guerra e la riprovazione più netta per i responsabili del loro invio. Comune, in tutti i paesi, la preoccupazione e solidarietà per gli immigrati e per altri possibili bersagli di fiammate xenofobe e razziste (comunità ebraiche comprese).

Non sempre facile per i verdi distinguersi dal classico pacifismo "gridato" della sinistra tradizionale, caratterizzato piuttosto da un'impronta c.d. "anti-imperialista" (anti-USA) e qualche volta da una sottovalutazione dei diritti umani e della giustizia (p.es. in riferimento ai kuwaitiani), soprattutto nei paesi in cui quel pacifismo è diffuso (come tra i comunisti francesi o laburisti inglesi) o è addirittura fortemente presente tra le stesse file dei verdi (in Germania, p.es.). Non sorprende, a questo proposito, che parecchi verdi dell'est - come in generale i popoli dell'Europa orientale - sentano poco il dramma di questa guerra.

Negli USA, invece, sono proprio i pacifisti ad invocare una visibile solidarietà dei verdi europei: il gruppo verde al P.E. ha risposto inviando due sue rappresentanti (Birgit Cramon Daiber e Claire Joanny) alle manifestazioni del 26-1-1991.
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