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La causa della pace non può essere separata da quella dell’ecologia

1.4.1989, Emergenze, n. 6/88 - Azione nonviolenta

È difficile dire se, nella storia, i movi­menti per la pace abbiano ottenuto qualcosa. Mentre l'utilità per esempio dei pompieri può essere desunta principal­mente dal numero degli incendi domati, quella dei movimenti pacifisti è più complicata a misurarsi, ed andrebbe - ­semmai - esaminata soprattutto con ri­guardo alla prevenzione politica e culturale.

Operare per bandire le guerre ed il militarismo dalle menti e dai cuori della gente, prima ancora che dalle politiche dei governi, è sicuramente meritevole ed importante. Fa una gran differenza essere circondati da un clima di esaltazione "eroica" della guerra (come avveniva sotto i regimi fascisti tra le due guerre mondiali in Europa) o da quel "ripudio" della guerra che la Costituzione della Repubblica italiana esprime e che le iniziative pacifiste cercano, da sempre, di incoraggiare e rendere vivo.

 

Verso un nuovo pacifismo

Ma basta questo, e basta qualche azione simbolica – come dichiarare “territorio libero da armi nucleari” una Regione o un Comune, o aderire a giornate per la pace – per ritenersi efficaci “operatori di pace”?

A guardare alcuni conflitti recenti, verrebbe da scoraggiarsi sui risultati pratici dei movimenti pacifisti. Guerre tra Stati, grandi (come quella tra Iran e Iraq) o piccole (come il conflitto anglo-argentino intorno alle Falkland-Malvine), guerre di Stati contro popolazioni che vogliono l’indipendenza (dal Sahara alla Namibia), guerre di guerriglia (dall’Afghanistan all’Angola), guerre interne (come quelle contro i palestinesi, contro i curdi o contro i tibetani) continuano a sconvolgersi, e sembrano curarsi poco delle iniziative pacifiste. E se la corsa agli armamenti pare finalmente rallentarsi, non è tanto per merito dei movimenti per la pace, quanto piuttosto per lo storico accordo dell’8 dicembre 1987 tra USA e URSS che ha segnato per la prima volta “un passo indietro” nel processo di riarmo. (Non si nega che tale accordo possa essere stato “anche” influenzato dai movimenti pacifisti, ma chiaramente la regia è stata di altri elementi e soprattutto di favorevoli circostanze intenzionali).

Che ci stanno a fare, allora, i movimenti per la pace? Come possono sperare di contrapporre qualcosa di efficace ad una forza incomparabilmente superiore quale quella esercitata dagli interessi economici e di potere che spingono alle guerre?

Infatti un movimento per la pace che fosse fatto principalmente o esclusivamente di marce e petizioni per chiedere disarmo o condanna di certe aggressioni militari non avrebbe grande credibilità, soprattutto se si caratterizzasse davvero per partigianeria unilaterale (denunciare “certi” armamenti e “certe” guerre e tacere su altre) o se si limitasse ad invocazioni generiche di pace cui nessuno potrebbe dirsi contrario, ma dalle quali non deriva nessun effetto concreto. Da ciò i pacifisti di oggi – e le loro diverse associazioni, dal “Movimento Internazionale di Riconciliazione” al “Movimento Nonviolento”, da “Pax Christi” alla recente “Associazione per la pace”, dalla “Lega degli Obiettori di Coscienza” ai più diversi sodalizi grandi e piccoli, anche su scala locale – si rendono ben conto. Ed infatti, sembra assistere da tempo alla crisi del vecchio movimento per la pace e forse alla rigenerazione di un pacifismo di tipo nuovo, che promette bene, pur sapendo di dover affrontare immani sproporzioni tra le spinte alla guerra (che sono poi le stesse che comportano distruzione ambientale, sfruttamento economico, oppressione politica) e la necessità di pace (che vuol dire sostanzialmente autolimitazione e rispetto di un equilibrio giusto).

 

Ecologisti e pacifisti tra breve e lungo periodo

Ed è in questa sproporzione una prima e forte - anche preoccupante - analogia tra movimenti pacifisti ed ecologisti. Guardando, infatti, alle ragione del breve periodo, ecologisti e pacifisti non possono che apparire velleitari e sostanzialmente perdenti: chiedono, entrambi, di rinuncia­re ad un vantaggio, apparente ma imme­diato. "Non" spingere sull'acceleratore del vantaggio militare o economico, "non" spingere la competizione sino a minacciare o addirittura distruggere l'al­tro, "disarmare" le proprie tecnologie (produttive, militari ecc.), "rinunciare" ad uno squilibrio apparentemente ed immediatamente favorevole alla propria sete di potere e di profitto, ma nel lungo periodo distruttivo non solo per chi ne rimane vittima sul momento.

Le ragioni del lungo periodo, quindi, starebbero di per sé dalla parte dei pacifisti e degli ecologisti, ma nessuno si fida di accoglierle nell'immediato, perché assomigliano troppo ad un disarmo unila­terale della propria parte che procura vantaggi alla controparte. Rinunciare alla possibile superiorità militare, tecnologica o di mercato, rinunciare a sfruttare un vantaggio nella concorrenza produtti­va o commerciale o diplomatica, rinun­ciare ai fitofarmaci in agricoltura ed alla connessa speranza di produrre più e meglio degli altri, non utilizzare il deposi­to di scorie chimiche o nucleari accettato per pochi dollari dal contadino (o dal governante) nigeriano, rinunciare a qual­che "progresso" o "sviluppo" appare, ­agli occhi delle ragioni del breve periodo, svantaggioso e quindi tendenzialmente suicida, perché nel regime di competizio­ne e di concorrenza vige la regola "mors tua, vita mea" e viceversa.

I pacifisti - al pari degli ecologisti ­- dovranno quindi trovare un modo non solo predicatorio e moralistico per raffor­zare le ragioni del lungo periodo contro quelle del breve periodo. La paura non basta: né la paura della guerra, né quella della catastrofe ecologica. E comunque sarebbe cattiva consigliera. E anche l'uto­pia, intesa come quel "completamente altro" che si sa che non è di questo mondo, non basta: rischia di essere buona solo per le occasioni solenni, per le invocazioni liriche.

Bisognerà quindi rendere "attraente", convincente la pace: quella tra gli uomini e quella con la natura. Dirà qualcuno: non è stata sempre, la pace, il supremo desiderio dell'umanità, non è sempre stata insensata la guerra? Cosa occorre di nuovo e di diverso per rendere attraente la pace?

Ed è infatti facilmente intuibile che in un mondo in cui i supremi valori siano la ricchezza e la potenza (economica, milita­re, politica, personale ecc.), i beni altissi­mi, semplici ed immediati - la pace non meno che l'acqua o l'aria pura, la possibilità di fidarsi gli uni degli altri e di contare gli uni sugli altri non meno della salute -, finiscano per soccombere. Nel miope e vorace regno della potenza e dell'economia vince chi sa trasformare gli aratri in spade e l'acqua in oro, non viceversa.

Dove attingere per avere ragioni forti e robuste, così convincenti ed evidenti da apparire a molti credibilmente alternative alla guerra ed allo sfruttamento con cui il più forte si avvantaggia sui deboli?

 

Una nuova etica: qualità della vita, nesso tra “grandi” e “piccole” scelte e rapporto tra sud e nord del mondo

Certo, oltre alla paura anche la speran­za, ed oltre i divieti anche i precetti etici hanno una loro forza. Una forza in gran parte ancora da valorizzare, visto che il regno dell'etica - governato principal­mente dalle fedi religiose, ma non solo da loro - è uno dei pochi in cui il danaro non riesce interamente a dettar legge.

Ma occorre qua qualcos'altro ancora, per togliere al pacifismo - al pari dell'ecologismo - quell'odore di autolesionismo che gli è proprio. Sembra che l'azione ecologista o pacifista si addica solo agli asceti, ai valorosamente puri, a "chi non è di questo mondo". Ed invece dev'essere evidente a tutti che è anche questione di "qualità della vita". Liberarsi dalla guerra, dal militarismo, dalla distruzione ecologica, dall'incombere dell'apocalisse "civile" o "militare" che sia - non è solo un imperativo per chi vuole che i nostri figli o nipoti possano ancora vivere o per chi ama i popoli lontani. Non è solo questio­ne dei "generosi", per capirci meglio.

Basterebbe la parabola dei veleni man­dati in Africa o della deforestazione dell'Amazzonia per convincersene. Nell'immediato può sembrare una soluzione disfarsi delle scorie del nostro modo di produzione, mandandole agli antipodi per non inciamparci più, o far disboscare le ultime foreste pluviali per trasformare rapidamente in danaro delle ricchezze che per natura non possono essere afferrate e commercializzate nel breve volgere dei bilanci di voraci imprese.

Forse tra un centinaio d'anni - un periodo risibilmente corto, a fronte della storia anche del genere umano, per non parlare di quella del pianeta - della tremenda guerra tra Iran e Iraq non si ricorderanno più i morti e gli eroi, ma si soffriranno ancora le conseguenze dell'in­quinamento del Golfo. Quando forse il Nicaragua di Somoza e dei sandinisti non verrà più esattamente ricordato dai citta­dini del ventunesimo secolo (così come oggi è difficile fremere su Radetzky o entusiasmarsi per Garibaldi), la trasfor­mazione dell'America centrale in enormi allevamenti peserà ancora su tutti i suoi abitanti, rivoluzionari o "contras", poveri e - certo, magari in misura differente – anche ricchi.

Ecco perché la causa della pace non è più separabile da quella dell’ecologia, dalla salvaguardia della natura, così come non è separabile da quella della giustizia e della solidarietà tra i popoli, e tra sud e nord del mondo.

Ed ecco perché i movimenti pacifisti oggi dovranno assumere alcune nuove caratteristiche, come per altro sta avvenendo. Innanzitutto viene riconosciuto il nesso tra le “grandi” e le “piccole” scelte: lavorare per l’amicizia tra i popoli vuol dire costruire pace ed amicizia anche nella comunità: nei confronti di chi è diverso, di chi si trova in minoranza, di chi è circondato da incomprensione e ostilità. I rapporti tra popoli diversi, o tra città, non sono fatti solo di pranzi e doni tra sindaci e ministri, ma anche e soprat­tutto di incontri, scambi, gemellaggi, rapporti epistolari... tra la gente. La lotta per il disarmo può essere fatta anche dal personale rifiuto del servizio militare o dalla personale "obiezione fiscale” alle spese militari. "Contro la fame, cambia la vita", diceva una felice e ricca indicazione nel quadro delle campagne contro la fame nel mondo: altrettanto vale "contro la guerra, cambia la vita". Perché in qualche misura siamo tutti profittatori di guerra: i prezzi delle materie prime e degli alimenti di cui noi ci serviamo sono frutto di una guerra permanente anche cruenta! - nei confronti di gran parte della popolazione del pianeta.

Scoprendo e divulgando questi nessi e promuovendo i comportamenti personali di riduzione della violenza, i movimenti per la pace - al pari di quelli per la salvaguardia della natura o per la solida­rietà con il sud del mondo - sempre più diventano parte di una nuova e grande sensibilità: che cioè il nostro modello di vita attuale - dai consumi agli armamenti, dalla competizione produttiva a quella intellettuale - impone un altissimo livello di conflitti e di violenza, dove i più deboli soccombono per primi, ma dove anche i forti ben presto vengono colpiti dagli effetti-boomerang della distruzione. Con­viene "disarmare", finché siamo in tempo.

Azione nonviolenta, aprile 1989

(da “Emergenze”, n. 6/88)

Ora pubblicato in

Alexander Langer, Fare la pace – Scritti su “Azione nonviolenta” 1984-1995

Edizioni  del Movimento Nonviolento, Verona 2005

 

 

 

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