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Per l'Est niente di nuovo: la cortina di ferro non è ancora caduta
1.12.1992, Il Manifesto - Viaggiatore leggero
Prima del 1989 tutto sembrava più facile: c'erano ad ovest i buoni e all'est i cattivi; a metà strada i neutrali. La NATO proteggeva i buoni, il Patto di Varsavia i cattivi. La Comunità europea aveva idee semplici e chiare in testa: secondo il suo stesso statuto, ne poteva diventare membro ogni Stato che si trovava in Europa ed aveva un ordinamento democratico parlamentare. Per cui ogni discussione sull'allargamento della Comunità poteva al massimo riferirsi a quel club degli auto-esclusi dalla C.E. denominato EFTA, area europea di libero scambio (Austria, Svezia, Svizzera, Finlandia, Norvegia, Islanda, Liechtenstein), e - in tempi che soprattutto i greci auspicano lontanissimi - la Turchia, in virtù di quel pezzettino d'Europa conquistato dai sultani ottomani al tempo del Rinascimento. Per il resto - "hic sunt leones", il comunismo, la cortina di ferro, in pratica dei non-europei.
Poi è caduto il muro, ed una prima fetta dell'est veniva direttamente annessa all'ovest: la Germania orientale entrava a far parte della Germania federale, e quindi anche della Comunità, che nella sua lungimiranza aveva da sempre inserito nei suoi trattati una clausola di salvaguardia in favore di una eventuale (mai davvero ritenuta possibile) unificazione tedesca. Se anche gli altri Paesi dell'est - espressione che loro non amano e che sostituiscono volentieri con Paesi europei centro-orientali - avessero potuto fare altrettanto, ne sarebbero stati felicissimi. Ma dov'è la Polonia occidentale, l'Ungheria occidentale, la Cecoslovacchia occidentale cui chiedere di annettersi in virtú di qualche art.23 della Costituzione, come hanno fatto i tedeschi dell'ex-DDR?
Non essendoci il gemello siamese ad ovest cui ricongiungersi, molti europei dell'est speravano in una rapida integrazione nella Comunità europea. I pellegrinaggi a Bruxelles dei vari Vaclav Havel, Lech Walesa, Joszef Antall e persino Salih Berisha e Petre Roman li hanno ben presto delusi. "Non crediate che basti essere europei ed aver instaurato la democrazia parlamentare, qui bisogna prima dimostrare di avere un mercato sano... quindi ripassate non prima del 2000", è stato loro risposto. Il dinamico presidente della Commissione esecutiva della C.E., Jacques Delors, sfoderava anche una teoria semplice e convincente (per l'ovest): i tre cerchi dell'integrazione. Primo: consolidare ed approfondire quello interno, dei 12 partners attuali della Comunità, poi (secondo) allargare - tramite lo "spazio economico europeo", che dovrebbe scattare in contemporanea con il mercato unico dal 1° gennaio 1993 - il mercato e qualche forma di cooperazione politica ai Paesi dell'EFTA, ed infine - terzo cerchio - attrarre l'est europeo nella propria orbita, purché non esporti il suo marasma economico e politico e non diventi una sorta di enorme Mezzogiorno assistito, a cura e spese dell'ovest. Il vice-presidente Frans Andriessen, commissario competente per le relazioni con l'Europa dell'est, cominciava a girare le diverse capitali, incoraggiando - senza troppa enfasi - alcune indipendenze (quelle baltiche più che Slovenia e Croazia, dove tuttavia ha supplito la sistematica seduzione tedesco-austriaca e veneto-democristiana) e dispensando consigli sulle privatizzazioni e le politiche di disboscamento sociale. Forse davvero all'inizio questi signori credevano, come il cancelliere Kohl proclamava riguardo alla Germania orientale, che l'integrazione dell'est sarebbe potuta avvenire in forma graduale, non troppo traumatica ed a basso costo.
Poi si sono acuite le crisi politiche del post-comunismo, ed il crollo economico ha superato ogni previsione. Aggrapparsi ad una speranza di rapida integrazione europea era, per i nuovi dirigenti dell'Est, spesso l'unica carta da giocare - quando non era manifestamente troppo tardi, come nel caso della Jugoslavia, alla quale forse una tempestiva e generosa inclusione nella Comunità europea avrebbe potuto risparmiare moltissime sofferenze. Le pressioni per una corsia preferenziale si sono moltiplicate ed intensificate, e soprattutto i tre Paesi contigui - Polonia, Cecoslovacchia ed Ungheria - pretendevano di non essere messi nello stesso sacco della Romania, della Bulgaria o addirittura dell'ex-Unione Sovietica. Ma anche i Paesi della seconda e terza fila, dai Baltici all'Albania, dalla Georgia alla Bielorussia, non accettavano di vivere solo di lontane promesse, ed alcuni di loro (soprattutto Lituania, Estonia e Lettonia) avevano anche qualche santo nel paradiso comunitario, ben deciso ad intercedere per loro.
Così l'Europa occidentale, presa improvvisamente in parola, quasi non sapeva più come diluire l'impazienza dell'est ed apprestare congrue sale d'attesa, dove sistemare per intanto gli aspiranti inquilini della casa comune. Farli accomodare al Consiglio d'Europa costava poco e poteva, dunque, essere fatto subito: bastava che firmassero un po' di impegni sul rispetto dei diritti dell'uomo, ed ecco che le bandiere ungherese, polacca, cecoslovacca, ecc. potevano salire sul pennone davanti alla sede dell'organismo gestito da Madame Lalumière: da non confondersi col Parlamento europeo (della Comunità europea), che pure si riunisce nello stesso Palais d'Europe a Strasburgo. Ma il Consiglio d'Europa non comporta legami economici, e quindi i nuovi aderenti non si lasciavano accontentare a così basso prezzo - nonostante qualche generosa colletta per le scuole albanesi o qualche missione di osservatori elettorali, organizzate dall'assemblea strasburghese. Anche l'ammissione alla CSCE, la Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa, non sembrò agli europei orientali quella grande conquista: in fondo ne avevano fatto parte - quelli che esistevano già come Paesi sovrani - anche ai tempi del comunismo.
Cominciò così la lunga trafila, che è tuttora in corso, per dare ai Paesi dell'est accesso ad istituzioni europee comuni: la Comunità europea - traguardo sognato, ma sempre meno a portata di mano - offriva aiuti umanitari ed alimentari d'urgenza, poi accordi di commercio e cooperazione (un primo gradino di relazioni economiche e commerciali), accesso ad alcuni programmi comunitari (PHARE, TEMPUS: essenzialmente di formazione quadri, consulenza economico-aziendale, cooperazione culturale, ecc.), ammissione alle istituzioni finanziarie (la BERD, Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo: la "Bamca Attali", con sede a Londra) e sostegno per l'ingresso nel Fondo monetario e nella Banca mondiale, ed infine accordi di associazione: un livello più elevato di rapporto con la C.E., che teoricamente dovrebbe portare poi alla piena adesione (limitati sinora a Polonia, Cecoslovacchia ed Ungheria). Un ulteriore gradino è poi rappresentato da speciali "accordi-Europa" che - pur di non dover aprire le porte della Comunità all'adesione di nuovi membri scomodi e poveri - riserveranno a loro condizioni particolari di scambio, aprendo almeno parzialmente il mercato anche ai loro prodotti agricoli.
La NATO, alle cui porte i paesi dell'Europa centro-orientale bussano con altrettanta insistenza, in questa loro faticosa ricerca di pari dignità, si trova anch'essa in imbarazzo: come integrare subito gli ex-nemici, come cogliere la loro disponibilità senza doverne pagare conseguenze indesiderate? Viene così inventato il Consiglio di cooperazione atlantica, in cui ammettere gli Stati ex-comunisti, e magari anche i neutrali che lo vogliano (in Austria il ministro della difesa sembra sognarlo, in Finlandia si comincia a parlarne apertamente).
Ma al tempo stesso vengono conclusi accordi che prevedono il rimpatrio forzato degli immigranti dell'est: come tra Germania e Polonia, come l'accordo sugli zingari rumeni, come le intese italiane con l'Albania, e così via. Le famose quattro grandi libertà del mercato comune - di persone, capitali, merci e servizi - sono ben lontane da valere anche per l'est.
In fondo l'Europa occidentale, liberata praticamente "a gratis" dall'incubo comunista, non ha alcuna propensione di aprire davvero, da parte sua, la vecchia cortina di ferro e di permettere o promuovere subito la reale unificazione del continente. Accettare un rallentamento del proprio ritmo di unificazione e di crescita economica ed aggiustare il tiro a misura dell'intera Europa, non rientra nei parametri della Comunità. Maastricht parla d'altro e si riconferma un disegno per la sola Europa ricca o comunque capace di stare al passo del mercato unico, mentre il problema prioritario dell'integrazione politica dell'Europa resta rimosso. Il ritorno del figliol prodigo non ha mai fatto particolare piacere al fratello ricco, che lo sperava disperso per sempre, lontano dalla sua vista. Altrimenti magari tocca dividere l'eredità.