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Quando l’economia uccide… bisogna cambiare

27.1.1995, Centro Ricerca Pace Viterbo-conferenza
Vorrei innanzitutto fare un ricordo per tutti significativo: oggi, in tutto il mondo, si svolge il ricordo dell'olocausto di Auschwitz e forse molte crisi di umanità che oggi stiamo affrontando ci richiamano anche a questo abisso nel quale non un solo popolo, ma la comunità, la nostra comunità europea civilizzata ed industrializzata, è precipitata. Il ricordo di Auschwitz, in questi giorni, forse sta proprio a significare, per ognuno di noi, che mai più questo possa accadere.

Una delle grandi difficoltà di oggi è quella di trovare, non solo buone ragioni o valide cause in cui impegnarsi, ma anche ragioni perché questo impegno abbia un senso, non solo di testimonianza o per mettere a posto la coscienza. Il punto di partenza è proprio questo: il riconoscimento di una reale grande difficoltà.
Ci sono oggi molti fatti scoraggianti e, guardando alle guerre, alla fame, all'enorme dislivello che aumenta tra ricchi e poveri, una persona potrebbe scoraggiarsi in anticipo ancor prima di cominciare ad impegnarsi. Ci sono tanti fatti scoraggianti per chi è, ad esempio, impegnato sui temi ambientali e che, in particolare, di fronte alla natura di oggi, constata come la velocità della distruzione è talmente superiore ai tempi della ricostruzione: ci sarebbe voglia di disperare. Pensiamo a quanto tempo ci vuole per far crescere un albero e in quanto poco tempo si abbatte, a quanto tempo ci è voluto per formare le nostre riserve e quanto ci è voluto perché i nostri mari si riempissero e come in molti casi oggi li abbiamo già vuotati. Insomma, se si confrontano i tempi della distruzione e i tempi, viceversa, della manutenzione e della ricostruzione, ci sarebbe da scoraggiarsi. Credo ci siano poi anche altre ragioni che ci impongono degli interrogativi, senza peraltro che si possano trovare a tutti delle risposte soddisfacenti.
Guardiamo per esempio a come è oggi l'Italia.
L’Italia venti anni fa era considerato il Paese più politicizzato, il Paese con la più alta partecipazione civica e passione politica del mondo, non nel senso di tifoseria, ma di alta partecipazione, di attivazione civica, di intensità. Guardiamo invece a cosa siamo arrivati oggi: da un lato la degenerazione della politica ad affari, a procacciamento di posti, di vantaggi, di interessi, e dall’altro, verificatosi negli ultimi mesi, il trionfo della politica-spettacolo. Io penso che le ragioni del dubbio e anche qualche volta di un certo sconforto, siano presenti. Tanto più se si guarda a quanto sia difficile poi costruire una alternativa che abbia senso.
Oggi siamo di fronte a numerose ed a notevoli crisi di molti dei grandi orizzonti, delle grandi ideologie o ideali, di ciò che in qualche modo dava un senso positivo all'azione, all'impegno, dava insomma motivazioni, sostegno, speranza e spiegazione al mondo di quel che si faceva e sembrava, per questo, indicare un indirizzo. Credo che queste crisi attraversino un po' tutti i campi, perché mi pare che sia in crisi, allo stesso grado e allo stesso tempo, l'idea del progresso. Per esempio a me sembra difficile definirsi oggi progressisti senza autoironia così come sono fortemente in crisi le varie idee di nazione: guardiamo a che cosa portano oggi i vari nazionalismi. Al tempo stesso sono in crisi le esperienze sovranazionali: guardiamo la crisi ad esempio delle Nazioni Unite, la loro impotenza e scarsa credibilità, ma guardiamo anche ad altre grandi idee, grandi ideali, comprese le religioni, compresa la fede nel mercato.
Ecco, tutto ciò è fortemente in crisi.
Per ipotizzare una via di ricostruzione bisogna fare uno sforzo per sgomberare il campo da alcuni idoli. Non parlo di idoli come false divinità, ma di idoli in senso più modesto, come veniva detto dal filosofo illuminato Bacon. Egli aveva individuato degli idoli che, per comodità, voglio richiamare. Questo faciliterà l’esposizione non solo rispetto a ciò che può fare il potere, il mercato, il governo, i sindacati o altri, ma anche a quello che tocca ad ognuno di noi fare: è molto importante capire a quale ispirazione, orientamento ci sentiamo impegnati.
Bacon aveva utilizzato questi quattro tipi di idoli: quelli del foro, quelli del teatro, quelli della tribù e quelli della caverna.
Quelli del foro erano quelli del mercato.
Io credo che oggi gli idoli del mercato siano ampiamente presenti nell'idea che il fine supremo della vita sia quello di fare soldi. Questo ci viene quasi quotidianamente propinato dalla televisione, dai concorsi a premi, dall'idea che comunque la vita è una lotteria e che in particolare il primo premio, o comunque che i premi vincenti, siano quelli che portano molti soldi. Tutto sembra poter essere trasformato in soldi compresi gli organi, la creatività intellettuale, ogni surrogato di solidarietà che può essere pagato, dall'assistenza all'anziano alla maternità, fino all'utero in affitto. Da questo punto di vista, l'idea dei soldi e della ricchezza come obiettivo riconosciuto ed unificante è oggi un po' il primo di questi idoli, e, se non riusciamo a preparare il terreno in un'altra direzione, assai difficilmente è immaginabile anche la costituzione di una alternativa civile.
Il secondo, quello del teatro, mi pare non ci voglia molto a comprenderlo.
Siamo oggi, molto più che ai tempi di Bacon, in una società dell'immagine, ed è una constatazione sufficientemente realistica dire che oggi sembra che solo ciò che esiste a livello di immagine ha diritto di cittadinanza. Io credo che oggi, tra i requisiti per un cambiamento per un'alternativa civile, etica, sociale, una condizione di grande importanza sia quella di sfuggire alla frenesia e alla sudditanza dell'immagine. Credo, per esempio, che chi opera in politica ed in altri enti pubblici, sa benissimo che anche la migliore idea non serve se poi non viene riconosciuta o se più semplicemente viene deformata. La concorrenza sull'immagine e per l'apparire sulla stampa e sulla televisione fa parte quindi di un certo senso del mestiere.
Credo però che una costruzione di alternativa sia possibile solo da parte da chi, non solo si sia appunto liberato dall'idolo del foro, cioè del denaro e del mercato, ma anche di questo dell'immagine. Altrimenti non c'è dubbio, e lo vediamo in questa fase politica, che tutto, tutto verrà sottoposto alla utilizzabilità sul piano dell'immagine, della spettacolarità, della finzione, insomma della non-verità.
Sostanzialmente quindi, se si vuole lavorare in un cambiamento, occorrono ambiti, persone, comunità che in qualche modo incoraggino anche chi sia stanco della dittatura dell'immagine, cioè che incoraggino per esempio chi non è servo dell'immagine televisiva o della stampa, sia che si tratti di magistrati o che si tratti di vescovi, sia che si tratti di sportivi o che si tratti di medici. Sappiamo che nel momento in cui l'esercizio di una funzione, l'esercizio di una partecipazione civile o di qualunque altra cosa, si svolge sotto il condizionamento dell'idolo del teatro e della sceneggiata, allora è pressoché impossibile la reale partecipazione e il peso della gente, e la stessa verità in tanti ancora sarà assente.
Il terzo tipo di idolo di cui parlava Bacon, riferendosi a tempi un po' diversi, è quello della tribù, cioè quello dell'appartenere alla tribù.
Se io oggi uso questa immagine mi riferisco fortemente ad una intesa di spirito quasi tribale, etnico, nazionalistico, e, comunque vogliamo chiamarla, di una ipervalutazione del noi: noi che abbiamo lo stesso colore di pelle, noi che apparteniamo alla stessa nazione, noi che tifiamo la stessa squadra, noi che pratichiamo la stessa religione.
In questo smodato ed esagerato bisogno di bandiere vi sono bandiere di identificazione e di compattazione, vi sono bandiere contro qualcuno, bandiere che dovrebbero obbligare chi non vuole stare in un campo a scegliere e a delimitarsi, e quindi anche a contrapporsi a qualcun altro. Io credo che oggi anche la ripresa della crisi di ideali internazionalisti o sovranazionali, comunque di affratellamento di popoli, porta ad una forte emergenza di idoli della tribù e mi pare che sia una delle cose che impediscono la costruzione di alternative più pacifiche e più civili.
Il quarto di questi idoli che voglio citare, abusando di Bacon, è quello della caverna.
Bacon diceva che l'uomo, la specie umana, non ha una conoscenza piena delle cose. Egli ha una conoscenza velata che deriva dal nostro essere finiti e limitati. Bacon diceva che l'uomo è come se stesse in una caverna e vede passare alle sue spalle le cose delle quali in realtà ne vede solo l'ombra, e quindi è vittima in un certo senso di questa illusione ottica, di questa sua ridotta percezione.
Tra le illusioni ottiche della caverna di cui siamo oggi particolarmente vittime e particolarmente esposti, c’è una illusione di onnipotenza. In questo senso oggi il "diventerete come Dio” è più forte che in ogni altro tempo che l'umanità abbia mai vissuto. Si pensi che oggi appunto non solo si teorizza, ma si pratica, la stessa costruzione artificiale di vita, della natura ed in generale delle fonti energetiche, dell'equilibrio termico o di qualunque cosa. Si pensa che attraverso una artificializzazione della natura, della vita, del pianeta intero, si riesca, con fughe in avanti, a risolvere i problemi ed a puntare su una ulteriore crescita, un'ulteriore arbitraria soddisfazione di presunti bisogni.
Questo è il quarto dei grandi idoli che rendono appunto difficile oggi il cambiamento. Qualcuno lo ha chiamato il Faustismo, richiamando l'idea di poter fare tutto, facendo anche il patto con il diavolo, fino alla ri-creazione dell'uomo secondo i propri desideri.
Io penso che per costruire un mondo oggi più sostenibile, termine con il quale intendo molte cose, bisogna prima riuscire ad affrancarsi da questi idoli e la cosa non è facilissima perché tutto tenderebbe a spingere nella direzione opposta.
Cosa potrebbe voler dire un mondo più sostenibile? Oggi si parla, anche nei documenti dell'ONU, di sviluppo più sostenibile, e, al di là del nome tecnologico, una lettura realistica potrebbe voler dire “continuiamo come prima, ma cerchiamo di moderarci un po‘”. Però, al di là di questa lettura, è importante capire che la nostra civiltà, così come appare, non è compatibile con la natura perché, se continuassimo solo con questa produzione di rifiuti, non ci basterebbe il pianeta che abbiamo. La stessa cosa si potrebbe dire per l'energia e per tutti gli altri campi.
Tutto questo, accanto ai molti paradossi della vita economica, della vita sociale, della vita ecologica, credo che ci obblighi ad un cambiamento di rotta. Io cerco di individuare solo alcune strade possibili, non un affresco di come potrebbe essere il nuovo mondo, perché mi pare che non si possa avere un affresco del genere. Ci sono però alcune cose che si possono già dire.
Una è la forte rivalutazione e rivitalizzazione delle comunità locali.
Io credo che oggi una delle vie del risanamento passa attraverso la rivitalizzazione ed il rafforzamento delle radici, anche delle pluralità delle radici. Quando dico radici non parlo di realtà biologica, ma, sostanzialmente, di ciò che ci permette di sentirci a casa, di ciò che ci permette di sentirci parte di generazioni, di storia, di tradizione, di cultura, anche di prospettiva di senso. Credo che oggi ci sia un forte bisogno di rafforzare le radici e, siccome su questo bisogno si specula con tante forme di integralismo, la comunità locale deve essere la ragionevole alternativa su cui coltivare le radici senza abusi ideologici.
Coltivare le radici vuol dire fare quello che noi tanto ammiriamo nei cosiddetti popoli indigeni, che vivono da custodi della terra in cui stanno. Da questo punto di vista oggi qualunque politica si proponga un'alternativa deve fortemente rivalutare la dimensione locale, che porterà poi a rivalutare la dimensione del vicinato, delle vicinanze, del radicamento, per restituirgli un senso.
Radicamento non vuol dire che uno deve concentrarsi egoisticamente sul proprio territorio o che sarà obbligato a vivere sempre nello stesso posto, anche perché in ogni caso la nostra civiltà obbligherà sempre più persone ad andare via, ad emigrare, per necessità, per poter migliorare la propria vita e per altro ancora. Però se oggi non si riscoprono le radici, ho paura che si è molto più esposti a qualunque soluzione totalitaria, a qualunque inganno televisivo, agli idoli sopra esposti.
Serve quindi la rivalutazione della comunità locale dove comunità non vuol dire solo unità amministrativa, non vuol dire solo un quadratino sulla carta geografica, ma vuol indicare qualcosa che è cresciuto, che poi si modifica ma che ha dei legami.
Penso invece che la frase ormai molto usata, del pensare globalmente ed agire localmente, è fondamentale, ed oggi nessuno può fingere di non sapere che qualsiasi scelta facciamo a livello locale ha delle ripercussioni globali molto forti: i prodotti che compriamo cominciano ad essere quelli che rifiutiamo, quelli che versiamo nel rigagnolo sotto casa hanno delle conseguenze anche altrove, il motore acceso della macchina ha conseguenze anche globali, i sacchetti di plastica hanno conseguenze anche altrove, eccetera. Il fatto che utilizziamo dei detersivi più rispettosi dell'aria e dell'acqua ha conseguenze globali. Anche delle piccole scelte quali l’andare in bicicletta e non in macchina hanno conseguenze un po' su tutto e non solo sui nostri polmoni.
Un altro settore importante di rigenerazione è la assoluta necessità di agire per una politica, per una cultura e una amministrazione per la convivenza tra diversi. Non esistono più, e se mai esistevano, non esisteranno più soprattutto nelle città, ma anche nelle campagne, realtà perfettamente omogenee dal punto di vista etnico, culturale.
Siamo cioè in un mondo molto più mescolato di quanto magari non ci piaccia, però abbiamo solo due alternative di fondo: o puntare, chiamiamola pure così, sull'epurazione etnica, cioè creare una forte omogeneità, e questo significa usare violenza, reprimere, cacciare via, sterminare, ghettizzare; oppure sviluppare l'arte della convivenza.
Io credo che lo sviluppo dell'arte della convivenza, tra etnie, tra Nord e Sud, tra noi diversi, tra professioni, tra persone con diverso colore della pelle, tra lingue, culture, eccetera, è oggi una delle condizioni fondamentali per il riequilibrio e per la conservazione della stessa pace. Penso che a questo proposito sia molto importante dire che la convivenza non è in contrasto con la politica del luogo, perché il luogo è ospitale anche con chi ha diverso colore della pelle o parla una lingua diversa se sa rispettosamente inserirsi.
Io credo che al di là dei grandi disegni che si possono fare, oggi un punto di svolta verso un'alternativa di ricostruzione, che è forse possibile, mi pare che possa sintetizzarsi abbastanza bene intanto con una parola molto comune che io chiamerei la semplicità. Credo cioè che oggi ci sia molto bisogno di una svolta verso la semplicità, da molti punti di vista. E quando dico semplicità non lo dico per negare che il mondo è complesso, anzi, le semplificazioni sarebbero pericolosissime.
Non voglio significare l'idea manichea della massima semplificazione di decidere chi è il buono e chi è il cattivo, con la quale le destre del mondo a volte hanno successo, non dico quindi semplificazione o semplicismo, dico proprio semplicità, che vuol dire sostanzialmente operare una svolta nei nostri comportamenti, nelle scelte economiche che facciamo, nelle scelte di come organizziamo la convivenza. Svolta che a mio giudizio si potrebbe sintetizzare bene capovolgendo esattamente nel suo contrario il motto dei giochi olimpici.
Il motto dei giochi olimpici ci spinge al massimo della competizione: “più forte, più alto, più veloce”. Io credo che la svolta verso la semplicità può facilmente capovolgere questo.
Invece di dire più veloce probabilmente abbiamo bisogno oggi di una svolta verso una maggiore lentezza (lentius).
Invece di dire più alto, che è poi il massimo della competizione, io credo che possiamo puntare viceversa sul più profondo (profundius), cioè sul valorizzare più le dimensioni della profondità che significa tante volte rinunciare alla quantità, alla crescita, guadagnando in qualità.
E invece di più forte oggi possiamo cercare invece il più dolce, il più mite (suavius): nei comportamenti collettivi ed individuali invece di puntare alla prova di forza, al massimo della competizione, si punti, anche in questo caso, sostanzialmente alla convivenza.
Più di duecento anni fa, Kant cercando di capire una regola generale che potesse illuminare tutti, credenti e non credenti, su che cosa fosse giusto fare, disse: "noi dobbiamo agire in modo tale che i nostri criteri di comportamento possano essere anche i criteri di ciascun altro".
Io credo che oggi questa regola ha una comunicazione in più: oggi dovremmo dire che, di per sé, ogni nostro comportamento, per essere equo, dovrebbe teoricamente essere moltiplicabile per cinque miliardi, tali siamo gli abitanti del mondo, e credo che allora molto presto ci accorgeremo che molti dei nostri comportamenti non sono eticamente accettabili perché non sono moltiplicabili per cinque miliardi.

[Trascrizione non rivista dall’autore]
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