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Barbara Bertoncin: I rientrati, diario di viaggio a Srebrenica

23.5.2003, Una città n.113 maggio/giugno 2003

A otto anni dalla fine della guerra in Bosnia, anche i musulmani originari di quella che dal 1995, con i patti di Dayton, è stata riconosciuta come la Repubblica Serba di Bosnia (Republika Srpska) hanno cominciato a tornare a casa.

Lo Stato della Bosnia Erzegovina (BiH) è composto da due entità, ossia la Republika Srpska (Rs) e la Federazione croato-musulmana (Fbih), e un Distretto (Brcko).
La Repubblica Serba di Bosnia, autoproclamatasi nel 1992 (presidente Radovan Karadzic, con capitale Pale) è una curiosa entità: senza continuità territoriale, si estende a macchia di leopardo sulle città e i villaggi che durante la guerra sono stati oggetto della pulizia etnica da parte delle forze nazionaliste serbe. I patti di Dayton hanno di fatto legittimato l’esito di tale operazione criminale.
A separare le tre entità che costituiscono la Bosnia Erzegovina sono confini amministrativi; non ci sono i controlli classici che si incontrano tra due stati. Viaggiando nelle aree circostanti Tuzla capita così di entrare e uscire dalla Repubblica Serba senza accorgersene. O quasi: nella Repubblica Serba la toponomastica è rigorosamente, a volte esclusivamente, in cirillico, come pure i nomi dei ristoranti, dei caffè ecc. Prima della guerra non era così. Nella stessa Serbia è raro trovare scritte in cirillico. L’uso della lingua, o meglio dell’alfabeto, qui è prettamente simbolico: l’intera popolazione della ex Yugoslavia è benissimo in grado di leggere e comprendere entrambi gli alfabeti; il cirillico però segnala una precisa appartenenza etnico-religiosa.

Sono arrivata a Tuzla domenica 18 maggio. Se si viaggia soli, con i mezzi pubblici, la rotta classica prevede un arrivo in treno a Zagabria all’alba, intorno alle 5, per poi prendere un autobus, alle 7, che nell’arco di cinque ore e mezza, variabili, porta a Tuzla.
Tuzla è una città della Bosnia nordorientale. Pur essendo stata colpita dalla guerra, non ha subìto i pesanti bombardamenti che hanno martoriato Sarajevo. Tuttavia le varie ondate di profughi cacciati dai villaggi contigui in seguito alla pulizia etnica, oltre 60.000 persone, hanno provocato uno stato di emergenza che ancora oggi pregiudica il ritorno alla normalità dell’intera regione.
Già nel 1992 infatti Tuzla vede arrivare le prime donne rifugiate provenienti dai campi di concentramento, quando ancora i racconti della sistematica pulizia etnica, dei massacri e degli stupri collettivi paiono inverosimili.
Nell’inverno del 1993 la città rimane completamente isolata.
La peculiarità di Tuzla è che, anche grazie alla tenacia e al coraggio dell’allora sindaco, Selim Beslagic, tutta la cittadinanza, senza riguardo per l’appartenenza etnica, rimane unita, anzi si compatta e organizza una difesa civica della popolazione dall’esercito, dai paramilitari e dagli altri gruppi estremisti; proprio questo farà di Tuzla una città “particolare” nel panorama dei centri colpiti dalla guerra.

Tuzla oggi sta ricominciando a vivere. Le strade sono trafficate. I giovani affollano le vie e i caffè del centro, i negozi hanno di nuovo gli scaffali pieni di merce. E tuttavia la città vive una situazione, per certi versi, schizofrenica: la popolazione locale sta molto lentamente riprendendo a vivere, anche se gli investimenti economici tardano ad avviarsi; ma i profughi che, soprattutto dopo la caduta di Srebrenica (1995), si sono riversati in massa nel cantone e nella città di Tuzla, sono ancora stipati nei vari centri di raccolta collettivi sorti all’inizio della guerra. Mihatovici, alle porte di Tuzla, fino a poco tempo fa, ospitava circa 4000 persone, tra cui 800 bambini.
In queste specie di “sale d’attesa”, la gente, perlopiù originaria dalle campagne, per anni è stata costretta all’inazione, chiusa in casette prefabbricate allestite ancor prima che la guerra finisse. Mihatovici, come gli altri campi, sembra essere stato intenzionalmente collocato in un luogo “nascosto” agli occhi della popolazione locale; per accedervi si sale lungo una strada sterrata, molto stretta e ripida, dalla cui cima si apre il panorama di questa piccola città infossata. Forse l’impressione maggiore viene proprio dal tipo di costruzioni: villette a due piani coi muri esterni color pastello, tutte uguali e disposte in file parallele, occupate mediamente da 2-3 famiglie, che significa anche più di dieci persone; a volte con un’intera famiglia per stanza. Al centro si trova la scuola -scelta quanto mai criticata: così i bambini del campo non escono, non si vedono, non si mescolano con la popolazione di Tuzla. Per gli adulti, del resto, la situazione non è migliore: lo statuto di “profugo” esclude infatti questa fascia della popolazione dal mercato del lavoro. (Non solo: se occorre riparare una centralina elettrica all’interno del campo, ci fossero anche esperti elettricisti tra i profughi, si deve chiamare un tecnico da Tuzla). Da qui l’aprirsi di un sempre più profondo baratro tra profughi e locali.

Qualche anno fa l’Alto Commissariato per i Rifugiati finanziò un progetto per donare a queste famiglie delle galline. Si tratta perlopiù di contadini. Nello stupore generale, la popolazione del campo si mostrò del tutto disinteressata. Ad un’ulteriore indagine risultò che semplicemente temevano di non essere più capaci di allevare questi animali, ossia di fare quello che avevano fatto per tutta una vita. Cinque-sei-sette anni di inattività coatta li avevano portati a una totale sfiducia nelle proprie capacità.
Irfanka Pasagic, psichiatra e coordinatrice di Tuzlanska Amica*, all’ennesimo incontro sulla situazione dei profughi, a chi denunciava l’assenza di un loro reale e visibile tentativo di riattivarsi, ha chiesto di provare a lasciare l’auto ferma in garage per otto anni e poi inserire la chiave: non partirà. Nell’area circostante Tuzla c’è ancora una decina di questi campi, di dimensioni e condizioni diverse.
Il campo di Memici, nei pressi di Kalesija, è costituito da una fila di piccoli caseggiati costruiti dalla Germania; l’interno degli appartamenti è curioso: si accede alla sala da pranzo, con arredamento tipicamente “europeo” (tavolo rettangolare circondato da sedie, libreria, tv, divano e tavolino basso); i mobili sono ugualmente forniti dalla Germania; nelle altre stanze: solo tappeti e i tipici divani bosniaci, senza braccioli, che di notte diventano letti.
C’è poi Jeginov Lug, il luogo del senso di colpa degli olandesi, un villaggio costruito per i profughi di Srebrenica, sempre di villette prefabbricate e dai colori pastello, questa volta con un terrazzino e una scala esterna, (una famiglia per piano; dietro la casa, o davanti, la baracca per la mucca). All’inizio della lunga e tortuosa strada che conduce al campo, sede di diverse piccole discariche, ci sono oggi alcune case isolate in costruzione. Dietro il caseggiato, una chiesa ortodossa ormai ridotta in rudere. Jeginov Lug era un insediamento serbo, dove ora è in atto un ritorno anche della precedente popolazione locale. Gli olandesi hanno costruito un centro di raccolta per i profughi di Srebrenica in un villaggio serbo.

Oggi è in corso un’operazione di evacuazione dei centri di raccolta collettivi. Dopo 8-10 anni si è deciso di smantellarli; i loro abitanti sono così tra i primi a tornare a vivere nelle proprie case.
Il ritorno riguarda ancora prevalentemente la fascia di popolazione con meno risorse; più costretta a tornare che intenzionata a farlo. Del resto tornare nella Repubblica Serba allo stato attuale comporta non pochi problemi, e chi può aspetta. Aspetta che ci siano dei “precedenti”, aspetta di vedere come le famiglie rientrate riescono a organizzarsi rispetto a scuola e servizio sanitario, aspetta di vedere cosa succede. Tra gli altri “costretti” a tornare a casa ci sono anche i musulmani che in fuga dalla pulizia etnica hanno occupato le case dei serbi a loro volta fuggiti, e che oggi ritornano anch’essi. La Federazione croato-musulmana infatti, pur tra problemi e difficoltà, già da tempo promuove un ritorno dei serbi fuggiti durante la guerra.

Il mio viaggio nei luoghi del ritorno è cominciato il martedì successivo, con tappa a Brcko e poi a Brezevo Polje. La famiglia che andavo a visitare è composta da una ragazza madre, Drita, il figlio di 5 anni, Suad, e la madre di Drita. La sorella di Drita da due anni vive in Italia, dove si è sposata. Il padre di Drita è morto poco più di un anno fa. Stava molto male, soffriva di Ptsd (post traumatic stress disorder), durante la guerra era stato internato in un campo di concentramento. I sintomi di questa sindrome sono terribili, ci sono uomini che una volta tornati non sono riusciti a dormire per settimane, e poi allucinazioni, incapacità di compiere anche la più piccola operazione; molti diventano aggressivi, violenti, cominciano a bere. In tutte le mie visite precedenti, vidi sempre il padre di Drita a letto; solo una volta venne nella stanza dove stavamo prendendo il caffè per salutarmi; alto e magrissimo, aveva un aspetto spettrale.
La famiglia di Suad, all’inizio della guerra, fu costretta a lasciare Brezevo Polje dalle forze paramilitari, quando Drita e la sorella erano ancora delle ragazzine. In questi viaggi, a volte a piedi, a volte in pullman è accaduto di tutto, anche l’inimmaginabile. In fuga verso Tuzla ripararono a Jasenice, un villaggio a circa un’ora da Tuzla, a cui si accede attraverso una strada che d’inverno diventa impraticabile. La madre di Drita, sarta, durante le mie visite a Jasenice, scherzava spesso sul fatto che dopo aver fatto tailleur e camicette e gonne, da quando era arrivata in quel villaggio si era ormai specializzata nel fare i “bragoni” che portano le donne di campagna, una specie di larga gonna, chiusa all’altezza dei polpacci, con due fessure per le gambe.
Per raggiungere Brcko, da Tuzla, c’è una nuova linea privata; per 6 marchi e mezzo (in Bosnia è ancora in uso il “Marco Convertibile”; prima era una moneta ancorata al Marco Tedesco, oggi non ho capito) si sale in un bell’autobus, aria condizionata e musica folk, che in due ore e mezza arriva a destinazione. (Al ritorno, a 7 marchi e mezzo, ho acquistato il biglietto della linea pubblica; era una giornata calda e afosa e l’aria condizionata questa volta non funzionava). A Brcko sono rimasta solo qualche ora. E’ una cittadina con una forte presenza internazionale; data la posizione (durante la guerra il “corridoio di Brcko” rappresentava l’unico collegamento tra la parte orientale e occidentale della Republika Srpska, tra Pale e Banja Luka) gode di una legislazione differente rispetto al resto del paese, con cui la comunità internazionale ha tentato di soddisfare entrambe le comunità che abitano il Distretto.
L’atmosfera parrebbe pacificata. Nel centro però, non lontano dal municipio, vedo una statua di Draza Mihajlovic, il capo dei Cetnici.
Per arrivare a Brezevo Polje si percorre una strada che da Brcko scorre lungo il fiume Sava; il paesaggio è molto bello. Brezevo Polje è in un’area pianeggiante, le case tutte piccole e pressoché monofamiliari (finalmente). La casa della famiglia di Suad è su un unico piano, ci sono tre stanze spaziose e un angolo cucina, all’esterno un giardino. Drita non ha ancora trovato un lavoro; Suad a settembre dovrebbe iniziare la prescuola. Vivono dei soldi dell’adozione a distanza di Suad, 35 euro al mese, più qualche lavoretto di sartoria; il giorno della mia visita sono entrate diverse donne con delle tende o lenzuola, o stoffe per vestiti. In questo primo periodo di rientro gli incontri vertono ancora sul destino dei vari vicini e amici precedenti, se sono ancora vivi, dove sono stati durante la guerra, come sono vissuti, se i figli si sono sposati, con chi…
La casa è stata ricostruita lo scorso anno; varie organizzazioni umanitarie forniscono il materiale, poi si assolda qualche operaio locale; a ottobre a Jasenice è arrivato un camion e c’è stato il trasloco.
L’area di Brcko rappresenta però un caso particolare, certamente più monitorato. Diversa la situazione di chi torna in altre zone.

Mercoledì era previsto il viaggio a Srebrenica. Durante la notte la temperatura era scesa di almeno 15 gradi e una pioggia battente si è abbattuta sull’intera regione ininterrottamente fino al giorno della mia partenza, il sabato.
A Srebrenica non ero mai stata. Avrei potuto andarci prima, ma dopo un iniziale impeto di curiosità, a trattenermi era stato un senso di disagio al sapere che, di nuovo, paradossalmente io potevo camminare per le strade di una città, fotografando le case di chi non avrebbe mai potuto metterci piede (del resto così sembrava fino a poco tempo fa; dopo la caduta, a Srebrenica, città a larga maggioranza musulmana, non era rimasto un solo musulmano, e beffa maggiore, era diventata Repubblica Serba: il cartello che segnala l’inizio del Comune è in cirillico). Situazione piuttosto diffusa del resto, nei Balcani, ma anche in Medio Oriente, e immagino altrove. Così mentre l’amico serbo da anni, nonostante i vari incartamenti presentati all’ambasciata, non riesce e a far visita alla nonna che vive in Croazia, tu puoi andarci per un weekend al mare, con la sola carta d’identità. Come tu puoi entrare (e uscire) a Ramallah, mentre i suoi abitanti no. Il privilegio di percorrere l’enorme autostrada che collega Belgrado a Zagabria, a due-tre corsie per senso di marcia, in un’assenza di traffico irreale, un’autostrada nel deserto, perché loro, serbi e croati, difficilmente ne hanno accesso. Un privilegio imbarazzante.
A Srebrenica sono andata con Gianna, una ragazza italiana che da due anni lavora a Tuzla, che mi ha assistito con le traduzioni, e con Asim, l’autista di Tuzlanska Amica, che lungo la strada ci illustrava, indicandoci la collina, il percorso che lui aveva fatto, a piedi e in direzione opposta, dopo la caduta della città, l’11 luglio del 1995. Ci ha spiegato anche di quali piante ha mangiato le foglie. A Srebrenica Asim è di casa, non solo perché lì c’è la sua casa (ora occupata da una famiglia serba, in procinto di andarsene), ma anche perché sembra conoscere tutti.
Due anni fa mi aveva raccontato di come, una volta tornato a Srebrenica, fosse andato “a casa sua a prendere un caffè” con gli attuali inquilini.
C’è da dire che, essendo stata in passato una città musulmana, a Srebrenica oggi i serbi non sono “locali”, perlopiù sono anch’essi profughi di qualche altra area, fuggiti durante la guerra. Questo però crea ulteriori tensioni: tra musulmani e serbi e tra i serbi che si sono macchiati di qualche delitto e i serbi arrivati lì come profughi (che infatti stanno anch’essi cercando di tornare alle proprie case). In particolare tra questi ultimi è difficile capire quanto ci sia di copertura dei “pesci piccoli” e quanto invece di reale paura di questi criminali.
Non a caso Srebrenica, la “città d’argento” (srebren significa infatti argento) è diventata la “città fantasma”. Il passato pesa. C’è una sorta di omertà che crea diffidenza e silenzio.
Srebrenica era una città nota per le terme, frequentata dagli abitanti di tutta la ex Yugoslavia; abbiamo visitato il vecchio hotel e il centro termale, con la passeggiata tra le varie fonti. Tutto totalmente dismesso e abbandonato. Doveva essere un bel posto.
Per arrivare a Srebrenica si percorre una strada che passa per Zvornik, lungo il fiume Drina, che un ponte collega a Mala Zvornik, la piccola Zvornik, che però è già Serbia. Un altro ponte per soli “privilegiati”, cioè, per assurdo, per chi non è nativo di una delle sue due sponde.
A Srebrenica incontriamo Omer Spahic, l’ennesimo conoscente di Asim, il “primo” rientrato, che ha riaperto il suo vecchio ristorante; nel giro di pochi minuti il posto si riempie -Asim mi spiega che era un luogo molto noto e frequentato- e Omer ci saluta per andare a salutare una famiglia appena rientrata dagli Usa. All’esterno del locale, c’è una vecchia Trabant.

La vera sfida sull’andamento del ritorno per il momento, più che la città, dove molti dei “rientrati” figurano più formalmente che effettivamente (la gente ci va, si ferma qualche giorno e poi torna a Tuzla, o altrove), riguarda le colline circostanti, in particolare la zona di Bratunac.
A Bratunac si misura la fatica di un ritorno che comunque fino a poco tempo fa pareva impossibile.
Nella prima casa in cui sono entrata, benché la famiglia, quattro persone, siano tornati a giugno 2002, “dopo la fine dell’anno scolastico”, hanno precisato i genitori, manca ancora l’elettricità.
Da quella casa erano stati costretti a fuggire nel 1992, “il 2 maggio” ci tengono a dirmi. Come molte altre famiglie dell’area, che se ne andarono con la prima ondata di pulizia etnica, per tragica ironia del destino, ripararono a Srebrenica, l’ “area protetta” dall’Onu. Lì sono rimasti fino al luglio 1995, quando, cacciati di nuovo, sono finiti a Lukavac. Due anni fa è iniziata la ricostruzione della loro casa. Gli operai li hanno dovuti pagare con una parte del materiale per la costruzione della casa. Non avevano altro. La casa, evacuata nel ’92, era stata completamente distrutta nell’intervallo tra il ’92 e il ’95, quando di preciso non si sa, la zona era chiusa; è capitato che queste case, inizialmente risparmiate, siano state distrutte nella fase finale della guerra, come ultimo affronto.
Oggi i due figli, Nermina, di 13 anni, e Nermin, di 12, sono entrambi gli unici bambini musulmani nelle loro classi della scuola di Bratunac. Il programma scolastico è quello serbo. Era stato previsto un insegnante musulmano per i bambini che rientrano, ma nessun maestro è disposto a spostarsi nella Repubblica Serba, con tutte le tensioni del caso, per ricevere peraltro uno stipendio inferiore.
Anche loro appartengono alla categoria dei “rientrati coatti”. Gli ultimi due mesi a Lukavac li hanno trascorsi ospiti del proprietario della casa in cui erano riparati, un serbo a sua volta rientrato.

Queste case, per quanto piccole e precarie, all’arrivo di un estraneo si riempiono regolarmente di parenti e vicini, per cui è difficile capire la composizione familiare degli inquilini. Nella seconda casa di Bratunac in cui entro a bere l’ennesimo caffè, un ragazzo mi spiega che in quella stessa stanza dormono in nove, “come a Zivinice”, dove erano riparati durante la guerra. Tra una telefonata al cellulare e l’altra (qui il cellulare, per quanto in un ambiente in cui manca acqua e elettricità possa apparire un lusso stravagante, in realtà è l’unico mezzo di comunicazione) mi spiega che sono già rientrati da due anni. La casa è stata ricostruita da un’organizzazione svizzera. Erano rimaste solo le fondamenta.
Avevano lasciato Bratunac nel ’92, “il 15 maggio, la sera tardi, io avevo 15 anni”. Sono trascorsi 11 anni, ma lui se lo ricorda bene. Anche loro sono riparati a Srebrenica. Anche loro fino al luglio 1995. Lui per fortuna è stato scartato dalle “selezioni” di Potocari, la fabbrica divenuta base del contingente Onu, dove furono raccolti e poi massacrati migliaia di musulmani (le stime sono ancora incerte). Oggi non lavora, ha un problema alla gamba (forse è quello che l’ha salvato, non gliel’ho chiesto) ma non c’è alcuna assistenza sanitaria, non per loro almeno.

La terza famiglia che visito ha lasciato Bratunac il 22 maggio 1992, poi le storie iniziano a ripetersi. Quello che colpisce è che oltre alle difficoltà già menzionate, a volte si scopre che molti bambini smettono di andare a scuola perché non possono acquistare il biglietto dell’autobus (se il rientro avviene in zone contigue all’area musulmana, i bambini continuano a frequentare la vecchia scuola), o un paio di scarpe invernali.
Nei giorni seguenti visito altre zone, Kalesija, Hrasno, Rainci, Stuparic, nella Federazione, dove restano molti profughi; il rientro riguarda una percentuale ancora minima. Le distanze sono enormi. Alcune case sono in posizioni talmente nascoste e difficili da raggiungere che non si riesce a capire come abbiano fatto a scovarli. Qui però il servizio “informativo” tra vicini è incredibile; a volte sono gli stessi bambini (casomai già loro adottati a distanza per le difficili condizioni) a segnalare ai genitori, e quindi all’associazione, il compagno di classe che vive peggio di loro.
Un’altra cosa che mi risulta ormai evidente è che soprattutto nelle campagne, la guerra è intervenuta su situazioni di grave povertà pregressa, non solo materiale, ma anche di risorse culturali; a volte l’intera famiglia è analfabeta, o l’unico in grado di porre una firma è il figlio.
Questo però accade anche a Tuzla, dove basta prendere una strada in salita appena fuori dal centro, per trovare a poche centinaia di metri condizioni di miseria inverosimili.

Prima di andarmene, Irfanka, un po’ scherzando un po’ sul serio mi dice che dopo l’apertura di una casa a Brcko, la prossima sede dell’associazione sarà a Srebrenica, la sua città natale. In inglese c’è questo termine “cleaned”, ripulito, che a tradurlo dice che i paramilitari serbi cacciando i musulmani “pulivano” le loro città. Da Srebrenica lei è stata cacciata nell’aprile del 1993, senza poter portar via nulla. So che le mancano soprattutto i suoi libri; facile immaginare cosa significhi per una psichiatra aver perso il proprio materiale di studio, di ricerca in un paese in cui le persone specializzate in questo campo si contavano nelle dita di una mano.
Quei libri intanto non ci sono più; le famiglie di serbi, profughi anch’essi, che ripararono nella sua casa -così mi raccontò- li hanno sicuramente usati per scaldarsi nei freddi inverni. O li hanno gettati. Lei comunque, da allora, a distanza di dieci anni, a Srebrenica non è ancora tornata.
Barbara Bertoncin

NOTE
* Tuzlanska Amica è un’associazione nata a Tuzla nell’ambito di una rete internazionale, “Ponti di donne tra i confini”, creata nel 1993 dalle donne di Spazio Pubblico di Bologna assieme ad altre donne della ex Jugoslavia. L’obiettivo originario è stato la creazione di un centro per l’assistenza e la cura delle donne traumatizzate. Dalle donne l’intervento progressivamente si è orientato verso gli interi gruppi familiari, assistendo bambini, anziani, disabili. La situazione più drammatica resta ancora oggi quella delle campagne. Nella maggior parte dei casi infatti i musulmani in fuga da Srebrenica, Zvornik, Bratunac, Bijelijna, Brcko e l’area circostante si sono limitati a occupare le case abbandonate dai serbi, spesso già pesantemente danneggiate, dove ancora oggi sopravvivono in abitazioni prive di porte, finestre, acqua, elettricità e, cosa più grave, completamente isolati e dimenticati.
Tra l’altro, in queste zone, la famiglia-tipo è composta da nonni e nipotini, perché la generazione di mezzo è stata decimata dalla guerra.
Tuzlanska Amica ha però presto avuto la felice intuizione che i casi più difficili non si sarebbero presentati all’associazione per chiedere aiuto. Bisognava quindi andare a cercarli.
In realtà non è infrequente che si presentino anche uomini a chiedere aiuto all’associazione. La pulizia etnica che ha colpito la Bosnia ha decimato la popolazione maschile; i superstiti hanno spesso riportato gravi traumi in seguito alla reclusione nei centri di detenzione, alla perdita dei familiari, per non parlare della gravissima frustrazione -si tratta di una società, specie nelle campagne, ancora profondamente patriarcale- per non aver saputo proteggere la parte più debole della famiglia, ossia donne e bambini.

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