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Yolande Mukagasana - La morte non mi ha voluta (1998) e Le ferite del silenzio (2008)

31.5.2022

Yolande Mukagasana (1998) La morte non mi ha voluta - La Meridiana

Yolande Mukagasana : Alain Kazinierakis (2008) Le ferite del silenzio - La Meridiana

 

Sono passati quasi trent’anni da quando il Rwanda dall’essere un puro nome soffuso di mistero e fascino per i cittadini europei è diventato quel terribile film hard core dove la  grande puttana del diavolo rende le armi esterrefatta. I nomi di hutu, tutsi e twa, prolungano  la sanguinolenta scia che giornali e testate televisive inscrivono nella grande famiglia dei conflitti etnici. Pare a tutti  noi (quasi tutti) un modo per circoscriverne gli effetti, per  ricondurre tutto ad un mondo sotterraneo e marginale misteriosamente resuscitato, terreno di popoli senza storia o in cui la storia ha conosciuto, si crede, solo quella tappa. In qualche modo anche i fatti jugoslavi vengono iscritti dalla cultura di massa, in quell’ambito: il comunismo è stato come una specie di disinfettante che ne ha temperato gli eccessi e, soprattutto li ha tenuti lontani da noi.

Ma se c’è una vicenda emblematica che contraddice questa impostazione è proprio quella del Rwanda  perché al di la delle origini (assai controverse anche se l’origine comune delle loro parlate ne indicherebbe una genesi comune o parallela) pare chiaro che prima della colonizzazione  le distinzioni avevano una valenza sociale più che etnica. Fu con l’avvento degli stati coloniali che tale stato di cose divenne uno spartiacque “etnico”,  ovviamente in funzione dell’occupante – (il bianco domina il Tutsi che domina l’Hutu) che trovò nella “carta di identità etnica” invenzione degli eredi del tagliatore di mani Leopoldo del Belgio, il definitivo suggello.

Nel 1994 Yolande Mukagasana, che la Fondazione Langer ha insignito del suo premio nel 1998, a cui fecero seguito numerosissimi altri riconoscimenti di grande prestigio, era un'infermiera professionale con una sua piccola clinica a Nyamirambo. Madre di tre figli amava la vita anche nei suoi aspetti più frivoli, ci teneva ad indossare jeans e occhiali firmati per esempio. Era insomma una donna autonoma e con un certo successo, Non certo la norma in Rwanda. Ma con il genocidio tutto è cambiato. Colpita in quanto donna tutsi di successo, è stata separata dalla sua famiglia tradita da amici ed aiutata da supposti nemici ed ha dovuto infine fuggire via ed abbandonare tutto.

Il libro “La morte non mi ha voluta “ di Yolande Mukagasana, è la sua storia ed è in primo luogo la testimonianza dei massacri, delle angherie delle dimensioni gigantesche delle idiozie razziste e machiste, ma è anche un libro di autocoscienza: conseguenza inevitabile dopo esperienze simili, durante e dopo, perché il dopo è a volte più luttuoso del durante. Questo secondo piano, compare sottotraccia ed emerge soprattutto verso la fine del racconto quando per esempio afferma che lei forse se le è meritate tutte le umiliazioni subite, non può non venire in mente il Primo Levi de “I sommersi e i salvati” di cui anche condivide la riluttanza al racconto orale diretto per “paura di infastidire con le mie storie”. Il racconto riguarda la vita prima e la vita dopo, il centro buio trova espressione solo nella scrittura, una sorta di pudica penitenza.

Credo comunque che, anche se può parer strano sia questa donna coraggiosa che fugge, che aiuta, che cura, che scalpita, che non riesce più a piangere che perde tutto ciò che ha in senso letterale, che riflette sul senso di un mondo che crolla, la vera protagonista del libro non il genocidio.

Anni dopo sarà ancora lei a curare in un bellissimo reportage fotografico “Le ferite del silenzio”assieme al fotografo Alain Kazinierakis, il commento del testo di una serie di interviste a colpevoli rei confessi e vittime, nel Rwanda dei primi 2000, Riporto un breve stralcio dal colloquio con Seraphine M – 41 anni accusata di 9 omicidi:

Yolande : Che cosa hai fatto di buono nella tua vita?

Seraphine: (Lungo silenzio) Non sono in grado di rispondere a questa domanda.

Anche noi non sappiamo rispondere a tante domande ma di una cosa abbiamo assoluta certezza a cosa è certa: se la nascita della distinzione etnica è un processo fittizio, che sia creato ad arte o meno, il suo portato, il razzismo è realissimo.

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