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Intervista a Valentina Gagic e Bekir Halilovic

8.7.2021, Intervista di Alfredo Sasso, progetto integrato Polo Internazionale Avere vent'anni nei Balcani

 

Nell’ambito del progetto integrato Polo Internazionale | Avere vent'anni nei Balcani l'Istoreto - Istituto piemontese per la Storia della Resistenza, Torino propone la video intervista "Giovani della Bosnia Erzegovina, tra memorie e futuro. Il percorso di Adopt Srebrenica", con Valentina Gagić e Bekir Halilović, fondatori e animatori dell’associazione Adopt Srebrenica, e Alfredo Sasso.

Video-intervista su https://www.facebook.com/ilpolodel900/videos/324439609226064/

 

Alfredo Sasso: Come è nato il percorso di Adopt Srebrenica, e in che modo i giovani sono stati motore e centro di questa iniziativa?

Valentina Gagic:

Prima di tutto vi saluto e vi ringrazio per l’opportunità di parlare oggi di Adopt, di Srebrenica, delle nostre esperienze.

Per iniziare, è importante dire che Adopt si è formata, come gruppo informale, nel 2005,

dopo che la dott.ssa Irfanka Pašagić ha ricevuto il Premio Internazionale Alexander Langer e quelli sono stati gli inizi della collaborazione,

il suo desiderio era che a Srebrenica si avviassero iniziative positive.

Così è nata l’iniziativa di un gruppo di, a quel tempo, giovani – questo è avvenuto quindici anni fa  -

che si sono uniti attorno alla stessa visione e abbiamo così avviato l’iniziativa che si chiama, ancora oggi, Adopt Srebrenica.

Siamo registrati ufficialmente come associazione, ma il nucleo portante resta quello delle attività che e dei valori che sviluppiamo,

sulla base delle memorie del passato con focus sul futuro, sulla base del komšiluk [buon vicinato], della comunità, di valori che in passato facevano di Srebrenica una città conosciuta e prospera.

Questo come breve introduzione. Voglio anche sottolineare che, sin dall’inizio, e ancora oggi, Adopt Srebrenica rimane un gruppo multietnico,

ci siamo concentrati prima di tutto sulle persone, e poi sugli eventi che caratterizzano e che rendono Srebrenica un luogo particolare.

Alfredo: In che modo Adopt è riuscita a costruire uno spazio di fiducia, non solo tra i giovani ma anche tra le diverse generazioni?

Bekir Halilovic:

Anch’io vorrei salutarvi e ringraziare per questa opportunità di partecipare a questo evento, anche se via zoom.

Per iniziare, non direi che la nostra costruzione sia completa,

penso che questo sia un processo significativo ma anche difficile, e che sia ancora in corso. Questo per diverse ragioni.

Una delle ragioni è che purtroppo, in generale nella società bosniaca e in particolare a Srebrenica, molto spesso ci si ricorda delle differenze che abbiamo.

Si cercano sempre le differenze, non importa se solo di tipo religioso o nazionale, oppure sociale, culturale o di qualche altro tipo.

Questa è la prima sfida, soprattutto per un’organizzazione come Adopt, perché noi ci basiamo sugli aspetti che sono in comune,

sui valori in comune, e vogliamo promuovere questo, con il nostro lavoro e i nostri sforzi.

Vogliamo essere un’alternativa, in cui le persone abbiano l’opportunità di parlare di temi comuni, di agire sulle cose che sono le stesse per tutti noi,

per offrire un’alternativa a tutto ciò che è problematico nella nostra società.

Io credo che le persone vengano da noi perché siamo uno spazio, un luogo, un’idea,

forse la cosa più importante è che siamo un’idea attorno a cui le persone possono riunirsi,

riguardo questioni che interessano tutti e che sono inclusive, che non escludono altri.

Io penso che la fiducia, che ripristinare la fiducia sia un processo che dura e che durerà. Ma non è davvero completato, non è finito.

Però è un fatto che nella nostra associazione, appena arrivano persone da ogni parte, si stabiliscono amicizie, iniziative comuni e attività,

che davvero rappresentano e incoraggiano il nostro essere un’altra parte, un’altra storia di Srebrenica che è diversa da tutto ciò che ci divide e che ci fa vedere le differenze.

 

Alfredo: Come è cambiata (se è cambiata) la vita a Srebrenica negli ultimi 15-20 anni?

Valentina:

Sarei felice di poter parlare di alcuni cambiamenti, perché è davvero da troppo tempo che non sono avvenuti cambiamenti positivi.

Voglio sottolineare che, anche se la guerra è finita nel 1995, noi ancora oggi viviamo in una cultura di violenza che i politici manipolano,

che i media spesso sfruttano e che ha al centro l’insistenza sulle differenze, sull’intimidazione, per ottenere e mantenere potere politico.

In questa situazione turbolenta in cui ancora ci troviamo, ci sforziamo di essere una scintilla,

che dia speranza per la convivenza e per una prospettiva migliore per le persone che vivono in questo territorio.

Questa è la nostra missione, se così si può dire. Vogliamo riportare valori umani attraverso cambiamenti positivi, nella comunità e nel paese in cui viviamo e lavoriamo.

Purtroppo, tutti i nostri sforzi di provocare cambiamenti positivi spesso vengono sopraffatti dai poteri politici dominanti,

che usano i discorsi d'odio e lo scontro politico per mantenersi nelle posizioni di potere,

attraverso le quali possono condividere tra di loro potere, denaro, e quello status che hanno mantenuto sin dai primi anni del dopoguerra.

Con questo non voglio sminuire l'importanza e il significato di ciò che facciamo noi, organizzazioni come Adopt, ONG e individui che contribuiscono a volte per piccoli passi avanti,

a volte anche con grandi cambiamenti. Anzi, sono molto importanti.

Ma questo non è sufficiente, non possiamo dire che oggi viviamo in armonia e in accordo,

né che è venuto meno il bisogno di parlare della guerra e del passato.

Al contrario, è importante ribadire che né a Srebrenica né in Bosnia Erzegovina si parla dei problemi che abbiamo avuto dal 1992 al 1995, o si impara da questi.

Viviamo ancora in un contesto in cui i temi della guerra si raccontano principalmente tra le quattro mura di casa, in famiglia,

e in genere si dice che è sempre colpevole colui che è dall’altra parte [etno-nazionale], che noi siamo vittime, e questo a prescindere dal gruppo etnico di cui si parla.

Non abbiamo ancora raggiunto quella capacità di confrontarci nel modo giusto con il passato,

di imparare da quelle lezioni ciò che non dobbiamo ripetere nel futuro, di costruire buoni rapporti tra esseri umani e tra popoli vicini, così come li abbiamo avuti nella Jugoslavia multietnica.

Bekir:

Aggiungerei che sì, è un dato di fatto che negli ultimi quindici-venti anni alcune cose sono cambiate. Purtroppo, molte non in meglio.

Se prendiamo il contesto di Srebrenica, che è stata una città che prima della guerra era conosciuta per cose belle, per cose positive, tra cui lo sviluppo economico,

oggi purtroppo tutto ciò è scomparso, anche se il territorio offrirebbe certe possibilità, dalla ricchezza naturale al potenziale di sviluppo dell’economia.

Purtroppo ci sono ingerenze politiche, incapacità o mancata volontà di prendere l’iniziativa, anche nell’aspetto economico.

Io sono profondamente convinto che l’economia dovrebbe essere l’interesse principale, a prescindere dalla parte da cui arriva.

Ma per varie ragioni questo non succede, non c’è sufficiente volontà, e questo è un problema

perché Srebrenica, oltre al difficile passato, non offre prospettive favorevoli per una vita normale,

prospettive in cui potete arrivare a un lavoro, in cui potete mettere su famiglia in condizioni normali.

Questo problema lo ha tutto il paese, ma in un luogo con un passato così difficile, è ancora più complesso.

Ribadisco: al di là del potenziale che esiste e del desiderio delle persone comuni,

gli abitanti di Srebrenica vanno verso dei cambiamenti negativi per tutta la società, invece di cambiamenti concreti che contribuirebbero a migliorare le condizioni della società.

 

Alfredo: Quali sono le attività e i progetti di Adopt oggi?

Bekir:

Come abbiamo già detto, Adopt è un processo. Questo è di importanza vitale.

Non potete solo fare un progetto che durerà un tempo determinato e aspettarsi un risultato immediato. Per me questo è innaturale.

Per questo è importante formare un processo. Adopt è un processo. E’ un processo per le persone che sono coinvolte nell’organizzazione,

un processo che dà l’opportunità di confrontarsi con il proprio spirito, è un processo per l’intera comunità locale.

Nel lavoro complessivo di Adopt, si sono realizzati molti progetti, alcuni sono durati solo un tempo determinato, altri invece sono di lungo periodo.

Noi, di tutto il processo di crescita come individui e come organizzazione, abbiamo avviato dei processi che sono diventati importanti progetti.

Ne indicherei due: uno è la Settimana Internazionale della Memoria, l’altro è il Centro di Documentazione.

La Settimana Internazionale della Memoria è annuale, si svolge una volta all’anno con la durata di cinque-sei giorni,

e ha l’obiettivo di fare conoscere Srebrenica alle persone in un aspetto e un significato un po’ diverso da quello che si fa qui normalmente.

Il Centro di Documentazione è un progetto a cui sono molto legato e di cui siamo particolarmente fieri,

e consiste nella raccolta di materiale d’archivio della Srebrenica prima della guerra.

L’idea è quella di offrire una sorta di servizio, sia per le persone che cercano tracce dei propri familiari con cui hanno vissuto,

sia per le persone che vogliono ricordare il tempo che, secondo tutti a prescindere dalla parte da cui provengono,

è stato il tempo più felice delle loro vite, cioè il tempo della Srebrenica prima della guerra.

Noi cerchiamo di raccogliere materiale, anzitutto fotografie che provengono da diverse fonti, da album di famiglia che i donatori ci cedono affinché possiamo pubblicarli.

L’obiettivo è che tutti coloro che sono interessati a questo materiale possono ritrovare in esso o se stessi, o persone a loro care, che in alcuni casi non sono più tra i vivi.

Questa dimensione ha a sua volta due fini. Da una parte, si difende la memoria di Srebrenica, dei suoi abitanti. Dall’altra parte, si offre un’alternative alle generazioni giovani.

Così le giovani generazioni possono vedere che la convivenza, o meglio, la vita in comune, è possibile

e non bisogna cercare determinati meccanismi, su come stabilire una comunicazione, su come stabilire una vita normale.

Semplicemente, si può vedere l’esempio nel passato, in cose che non sono avvenute così tanto tempo fa,

che la convivenza è qualcosa di normale in un luogo come Srebrenica, che non bisogna essere grandi filosofi né immaginare una modalità nuova,

ma semplicemente prendere alcune lezioni dal passato, forse migliorarle per il proprio utilizzo, e vivere seguendole.

Valentina:

Voglio solo aggiungere qualcosa. Come Alfredo e Bekir hanno ricordato, potete vedere da anche se formalmente li definiamo come progetti,

in verità sono le nostre vite, sono ciò che viviamo noi e le comunità con cui lavoriamo, e questo lo consideriamo un nostro contributo alla costruzione di pace e di un vivere in comune e con dignità.

 

Alfredo: Quali sono le principali prospettive dei giovani di Srebrenica? Come guardano al futuro? C’è apatia, conformismo, revanscismo, oppure si vedono atteggiamenti più costruttivi?

Bekir:

I  giovani, che sono nati anni dopo la guerra e che sono nati nel nuovo millennio, portano con sé il peso del passato.

Sulle proprie spalle caricano molte responsabilità e per varie ragioni si sentono coinvolti nelle vicende della guerra in Bosnia Erzegovina. E questo è un grande problema.

E’ un problema perché non viene loro offerta un’opportunità di vivere una vita normale, una vita propria.

Ho il timore che in questo territorio ci sia più vita [per separato, per conto proprio] che vita in comune.

Molto spesso abbiamo avuto l’opportunità di vedere una cosa che succede a Srebrenica quando gli alunni terminano la scuola media:

quelli che sono disposti amichevolmente gli uni verso gli altri, alla festa alla fine della scuola portano le rispettive bandiere [bosniaca e serba, vicine nello stesso corteo, ndT].

Questo gesto viene presentato spesso dai media come positivo, in quanto giovani che provengono da diversi gruppi e appartenenza nazionali possono ‘funzionare’ insieme.

Per me invece è solo la dimostrazione che i giovani, anche se condividono lo spazio comune, scelgono in verità di dividersi.

E questa divisione è esattamente l’inquadramento in una determinata categoria nazionale.

Questo rappresenta un problema, perché in un certo momento ci si identifica primariamente come appartenente a una certa nazione, e non come qualcos’altro.

E questo ‘altro’ è l’essere amici, occuparsi di hobby, di sport, o qualcosa di simile, che sia più normale e più inclusivo.

Recentemente abbiamo svolto una serie di workshop sul tema dei discorsi d’odio, in cui abbiamo chiesto semplicemente a giovani di diversi gruppi nazionali

se avevano mai percepito dei discorsi d’odio, o se eventualmente ne erano stati vittima.

Il discorso d’odio proviene soprattutto dallo spazio religioso e nazionale. Si odia qualcuno che appartiene a un’altra religione o a un altro gruppo nazionale.

I giovani sono semplicemente, o per ignoranza, o per incapacità, non in grado o timorosi di riconoscere il discorso d’odio che arriva dal proprio gruppo nazionale.

Pertanto, se un politico che appartiene al tuo gruppo nazionale, o un leader religioso che appartiene al tuo gruppo nazionale, ha usato un linguaggio d’odio,

tu semplicemente non lo riconosci come linguaggio d’odio, perché pensi che un politico o un capo religioso del tuo gruppo, semplicemente non può fare una cosa del genere.

Le giovani generazioni hanno paura di ammettere anzitutto a se stessi cosa è successo nella guerra, nel luogo in cui sono nati.

Questo è in parte comprensibile, perché in un contesto in cui i crimini si guardano attraverso l’aspetto dell’appartenenza nazionale,

voi subite un carico che durerà per generazioni, se siete la nazione che ha compiuto qualche crimine, che sia un genocidio o altri crimini.

Pertanto, il problema è che i giovani si caratterizzano per questo [carico del passato], questo diventa parte della loro identità,

ed è un grande problema che in futuro bisognerà risolvere, quello dei pesi del passato, che non sono, e non devono essere, a carico delle nuove generazioni.

Posso quindi esprimere la mia preoccupazione e timore per le nuove generazioni,

con i quali bisogna necessariamente lavorare su questioni universali, e ai quali è fondamentale togliere paura, così che possano vivere una vita normale

Valentina:

La situazione è quella di un trauma trans-generazionale di guerra.

I genitori sono condizionati dalla povertà, quindi le famiglie sono condizionate dalla povertà,

dalla situazione finanziaria, dal disorientamento legato al periodo post-guerra, dalle necessità di sopravvivenza,

pertanto devono schierarsi, nella sfera dell’appartenenza, con un determinato gruppo etnico, politico  o di qualsivoglia tipo, anche se va contro i propri valori, anche contro le proprie convinzioni.

Con il tempo ciò diventa una consuetudine e un obbligo, per il quale, perché possiate vivere, dovete fare ciò che vi dicono i superiori.

Che si tratti di leader politici o di autorità religiose, purtroppo sia le istituzioni religiose che quelle politiche abusano il proprio potere,

e la loro dominanza sugli uomini non è di aiuto ai processi di costruzione di pace e fiducia, ma al contrario mantiene certe divisioni e paure con cui vengono manipolate le masse.

La libertà non ha prezzo né alternativa. Ma quando mi capita di parlare con persone anche adulte, anziane, di famiglia… non sono pronti, né capaci di dire quello che pensano,

di sentirsi liberi al punto di uscire dagli schemi in cui l’appartenenza [etnica-nazionale] li fa sentire protetti, a prescindere dal gruppo.

Ciò che sono riuscita a costruire qui, cioè che alcuni giovani che vivono qui la propria libertà e che scelgono il percorso che preferiscono,

scegliendo di andare nello spazio pubblico senza quell’appartenenza che crea divisioni o tensioni nella comunità… non è stato affatto facile né semplice.

Si subiscono giudizi, condanne che diventano ostacolo per lo sviluppo e la libertà di pensiero. Ma dall’altra parte, quando dico che faccio ciò che mi piace e ciò che penso,

e quando sento di avere costruito questa integrità umana rispetto agli individui che vivono ancora nella paura,

penso che abbiamo un grande privilegio, penso che forse non siamo tanti, ma che comunque è una certa forza e che questa è la Bosnia Erzegovina che vogliamo.

 

Alfredo: avete accennato alle vostre attività sui discorsi d’odio, una questione di grande attualità in Bosnia Erzegovina e non solo. Potete parlarcene? Come lavorate per riconoscere e prevenire i discorsi d’odio nel contesto di Srebrenica?

Valentina:

Oggi il problema è che il discorso d’odio si nasconde dietro l’apparenza della libertà di pensiero.

Dall’altra parte, come ha detto Bekir precedentemente, quando abbiamo lavorato con i giovani

e abbiamo affrontato la questione se avevano già incontrato i discorsi d’odio, se l’avevano subito o se l’avevano usato loro stessi,

tutti hanno risposto in prima battuta “No, non li abbiamo mai sentiti”.

Però la verità è che il discorso d’odio è così presente nello spazio pubblico che non si può nemmeno riconoscere come tale,

perché è diventato una sorta di comunicazione normale, soprattutto quando lo sentiamo arrivare da politici, da leader religiosi, attraverso i media di ogni ambito dello spazio pubblico,

in particolare nei social network dove la gente può esprimersi pubblicamente in modo anonimo usando gli insulti più rivoltanti, fino all’intimidazione.

Ma non vediamo alcuna sanzione per queste espressioni, e nemmeno condanne per politici che usano discorsi d’odio.

Questo è ciò che mi preoccupa di più, il non saper riconoscere questo terreno scivoloso in cui si dice che il discorso d’odio coincide con la libertà di espressione.

 Questo nel territorio in cui si parla dei crimini di guerra e si celebrano i criminali di guerra come eroi, e questo causa tensioni verso le vittime e le famiglie che hanno vissuto traumi di guerra,

si creano abusi, si riaprono ferite, e i problemi reali con cui ci confrontiamo concretamente si nascondono sotto il tappeto

Bekir:

I discorsi d’odio non sono uguali, si differenziano tra di loro, soprattutto nel paese in cui questi discorsi si basano sulla guerra, sulle divisioni nazionali e religiose,

questo linguaggio d’odio si differenza da quello che è presente ad esempio da voi in Italia. E questo è importante da notare.

Noi, in questa serie di workshop che abbiamo svolto con i giovani, a un certo punto abbiamo dovuto svolgere una  lezione sugli errori logici,

perché è molto importante saper fare la giusta riflessione, e la sana riflessione, per potere riconoscere più facilmente un discorso d’odio, e condannarlo.

Infatti i giovani si accorgono del discorso d’odio attraverso qualcosa che riconoscono come autorità. Il discorso d’odio può esistere nella propria famiglia,

nella propria scuola, nell’istituzione religiosa che si frequenta.

Il solo fatto che provenga da queste istituzioni vuol dire che non è affatto insignificante, ed è importante riconoscerlo come tale, e quantomeno riflettere sulle cose che si dicono, condannarle.

Purtroppo viviamo in un sistema in cui una semplice notizia su un portale web scatena una valanga di commenti che sono pieni di discorsi d’odio.

Anche se si tratta di una notizia sulle previsioni del tempo, vedrete che qualcuno ricorda qualcosa riguardo alla guerra e a quel commento si accompagna un linguaggio d’odio.

A un certo punto vedrete che nessuno parla più delle previsioni nel tempo, bensì si parla di un terzo tema, che è una specie di lotta sul ring,

in cui le persone che non hanno altre idee trovano spazio per sfogare le proprie frustrazioni interiori ed emozioni sterili.

Purtroppo la legislazione bosniaca non è molto funzionale in diversi aspetti, tra cui questo. Proviamo a integrare strumenti del quadro legislativo dell’Unione Europea,

ma sono elementi decorativi che non cambiano la prassi.

Eppure penso che sarebbe molto importante che sui social network o nei portali web esistesse una opzione in cui si può denunciare il discorso d’odio,

così che qualcuno della redazione del portale o dei social network possa sanzionare e rimuovere i responsabili. Questa è una delle prime cose.

Un altro grande problema è rappresentato dall’istituzionalizzazione del discorso d’odio.

Il discorso d’odio proviene da istituzioni importanti e forti, che siano comunità religiose, determinati livelli di potere, o partiti politici che amministrano quei livelli.

Quindi, se volete davvero contrastare il discorso d’odio, e questo proviene dalle istituzioni, dovete lottare contro le istituzioni.

E’ molto difficile per una persona comune contrapporsi ad una istituzione.

Tra i meccanismi necessari dovrebbe esserci non solo la condanna verbale, ma anche delle sanzioni. E questa sanzione si può prevedere per legge,

stabilendo che colui che usa o abusa della propria istituzione per diffondere discorsi d’odio, oltre a una multa in denaro, subisca una condanna penale: penso che sarebbe giusto.  

In questo modo credo che tutta la società guarderebbe in modo diverso al discorso d’odio e che ci sarebbe molta più attenzione quando qualcuno lo usa.

E’ necessaria una migliore regolazione per legge e un rispetto di essa, in modo da mettere fine a questa malattia così diffusa in questo paese.

Alfredo: In che modo il vostro lavoro è influenzato dall’emigrazione e dello spopolamento che la Bosnia orientale, e tante aree dei Balcani, subiscono sempre più massicciamente? Coloro che emigrano da Srebrenica mantengono un legame con il territorio d’origine? Può il vostro attivismo costruire un “ponte” tra chi resta e chi parte?

 

Valentina:

Per iniziare, è bene fornire al pubblico un’immagine di come Srebrenica appare oggi, e di quante persone siano andate via da qui.

Il fatto è che prima della guerra vi erano poco meno di 37.000 abitanti nella municipalità di Srebrenica,

e oggi, anche se secondo i dati ufficiali sarebbero circa 13.000, in realtà a Srebrenica vivono sicuramente meno di 4.000 persone.

Quindi un numero molto piccolo di persone ha deciso di rimanere qui. Ovviamente, a questo hanno contribuito anche le migrazioni che sono seguite alle vicende di guerra.

Ma l’ambiente complessivo, non solo a Srebrenica ma in tutta la Bosnia Erzegovina, oggi è tale che sempre più persone, famiglie e soprattutto giovani, vogliono lasciare questo paese.

Questo non per cercare altrove qualche beneficio esistenziale che non hanno più qui, ma perché non hanno alcuna visione di futuro in un paese che vive costantemente delle tensioni

e che, come ricordavo prima, vive una cultura di violenza, tanto politica quanto mediatica, nei rapporti inter-etnici e così via.

La questione non è che la gente non vuole, ma che è la politica che non sa né vuole cambiare.

In accordo a questo, una delle nostre visioni e idee attraverso la nostra attività è quella di collegare tutti questi fili che si sono interrotti, a causa della guerra e di tutte le turbolenze che sono avvenute,

di porre il focus sulle persone e su coloro che oggi non sono più qui, che sono stati uccisi, o che sono tuttora dispersi, che non sono più tra i vivi,

e che in qualche modo, attraverso le memorie come spiegava Bekir prima, i giovani della nuova generazione che magari sono nati a Srebrenica,

ma hanno solo un certo legame con Srebrenica perché vivono da anni da un’altra parte, un legame che è mancato nelle loro vite,

noi cerchiamo di ripristinare quel legame, attraverso vicende emotive e umane, con cui loro possano mantenere, anche con piccoli pezzetti, alcune memorie che li legano a questa città,

che si tratti dei loro genitori, nonni, familiari o alcuni ricordi che hanno ricostruito oggi.

Questa risorsa [del Centro di documentazione] è a disposizione solo in parte, ma ci stiamo lavorando,

ci sforziamo di rendere disponibili le attività attraverso i social network, così come le attività che organizziamo in presenza a Srebrenica.

Cerchiamo di realizzarle nel periodo in cui la diaspora, le persone che non vivono più a Srebrenica possono partecipare.

Oggi ci sentiamo via Zoom e sinceramente credo e spero che, oltre a quelle persone legate a Srebrenica,

anche coloro che sentono e leggono che si parla di Srebrenica abbiano la possibilità di venire qui,

di conoscere le risorse e il potenziale che ha Srebrenica oggi, anche se non sono in funzione dello sviluppo come potrebbe essere.

Bekir:

Le migrazioni, come ha ricordato Valentina, sono avvenute in modo forzato al tempo della guerra in tutto il territorio della Bosnia Erzegovina, e così a Srebrenica,

mentre oggi abbiamo migrazioni volontarie di persone che psicologicamente non possono sopportare la situazione complessiva che esiste in questo paese.

Valentina ha parlato delle cifre, io voglio dire che oggi purtroppo a Srebrenica ci sono più morti che vivi. E’ una cosa triste, molto triste.

In una città che in passato ha avuto 36 mila abitanti, oggi ci vivono forse 5 o 6 mila persone, e ne abbiamo forse quattro volte tanto nelle tombe.

A volte è molto difficile allacciare dei legami con le persone che provengono da Srebrenica. Da una parte le cose che li legano a Srebrenica per un periodo della loro vita sono le più belle.

Lì sono nati, lì hanno messo su la propria famiglia, lì hanno vissuto delle belle vite.

Ma dall’altra parte, anche le cose peggiori delle loro vite sono successe a Srebrenica. Lì sono stati in guerra, lì sono stati testimoni di omicidi, hanno perso dei familiari, e lì vivono ancora degli scontri con altre persone.

Noi abbiamo purtroppo la nostra stessa diaspora che vive in Bosnia Erzegovina, se così posso dire.

Molti che vivevano un tempo a Srebrenica oggi vivono in altri luoghi della Bosnia Erzegovina, molti purtroppo ancora con lo status di profughi  nel proprio paese.

C’è ancora paura, sia di tutto ciò che è successo in guerra, sia la paura che impone l’ambiente politico di questo paese, l’ assenza di prospettive e di tutto ciò che è di vitale importanza per una vita normale.

Il fatto è che tutti, e soprattutto i giovani, meritano una vita normale.

A prescindere da ciò che è successo nel passato, che dobbiamo accettare, dalle cose negative che dobbiamo condannare.

Ma dobbiamo essere coscienti di essere umani, e come esseri umani abbiamo bisogno di metterci in relazioni gli uni agli altri, da persona a persona.

Penso che questo sia il messaggio che deve collegare e includere tutti, senza escludere nessuno.

Valentina:

Io vorrei dire che con molte energie, speranze e aspettative stiamo preparando la prossima Settimana Internazionale della memoria

Che si terrà ad agosto, in circostanze particolari perché, come l’anno scorso, anche quest’anno probabilmente non avremo partecipanti dall’Italia

ma con molte aspettative di superare queste distanze fisiche il prima possibile

e che avremo la possibilità di condividere le nostre esperienze e vite qui da noi,

sul terreno, dove le cose sembrano molto diverse e dove, oltre a tutti i temi difficili che ci legano al passato,

tuttavia esiste la vita e una certa scintilla che manteniamo sempre calda

e vogliamo condividere i nostri piani e le nostre aspettative con le persone con cui condividiamo una visione, l’amore per questo paese, per questo ambiente in cui oggi viviamo e lavoriamo.

Grazie ancora una volta per l’opportunità, per noi significa molto poter parlare delle nostre esperienze. Vorrei che le nostre storie fossero più serene e luminose,

ma sicuramente lavoriamo perché il futuro delle prossime generazioni lo sia.

 

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