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Racconto di Michele Colafato: Albanesi

1.8.1997, Una Città n° 61 / 1997 Agosto-Settembre

Gli ultimi giorni del dicembre 1990 furono i giorni della caduta e della crisi finale

del regime albanese. Proprio allora Michele Colafato viaggiava in Albania invitato da Alexander Langer, capo della delegazione inviata nel paese degli Illiri dal parlamento europeo.

Successivamente Michele Colafato tornò in Albania nel 1992.

I racconti che seguono, insieme ad altri che pubblicheremo prossimamente, sono frutto di quei viaggi e di incontri con albanesi in Italia.

Frankly Speaking
A Bari, alle ore 16 di una piovosa giornata di dicembre, ero tra un gruppo di passaggeri sulla scaletta del Fokker dell’Air France diretto a Tirana e avente per ultima destinazione Bucarest. Non più di una diecina di persone in totale. Il viaggio era già stato rinviato tre volte, l’ultima l’estate passata, quando gruppi di giovani avevano trovato rifugio nelle ambasciate occidentali della capitale albanese e il Partito del Lavoro aveva proclamato lo stato d’emergenza e sospeso ogni rapporto con l’estero. Nell’atterraggio mi sentivo tutt’uno con l’aeroplanino: prima sul mare poi sopra una terra chiazzata di mare, poi sopra campi disseminati di igloo di cemento, e poi i giovani soldatini ci rincorrevano saltando ridendo e sventolando il berretto d’ordinanza. Quando uandol’aereo fu fermo, dall’ingresso a cui era stata appoggiata la scaletta si profilò in tutta la sua mestizia l’aeroporto di Riinas. Ai confini della pista pascolavano alcune muccherelle dal pelo color nocciola o pezzato, accovacciate sotto l’ala di apparecchi in disarmo o di cartone, o ritte, immobili, ruminanti alle spalle dei soldatini che avevano smesso di correre. Piovigginava e di fronte al Fokker l’edificio della aerostazione dal corpo basso, lungo e rassegnato all’acqua sembrava una masseria abbandonata in un interminabile inverno.
Una lesione del manto d’asfalto separava l’interprete Ilir Gurakuqi, dal capo del cerimoniale dell’Assemblea Popolare, Vehid Borici. Borici si guardò intorno e poi non sapendo risolversi a fare qualcosa di produttivo si fece dare dall’interprete l’unico ombrello a disposizione dei delegati e lo aprì sopra la testa di Alex Langer.
"Delegazione" continuò a ripetere per un pezzo con una voce bassa e ufficiale alle autorità di frontiera il capo del cerimoniale.
"Delegazione" ribadiva facendosi largo Gurakuqi desiderando in tutti i modi che fosse chiaro che questa era una delegazione speciale, forse l’ultima delegazione nella storia del Partito del Lavoro d’Albania. Ci lasciammo alle spalle la dogana e i compagni di volo che si preparavano a una lunga attesa. Alla fine di una stretta curva a gomito emerse dal nulla un uomo grosso vestito di scuro che vedendoci apparire scagliò in terra un cencio con cui stava ripulendo da una macchia di fango il parabrezza e aprì la portiera della Peugeot. Lo chauffeur. Dentro l’abitacolo albeggiò confusamente la pelosa corona circolare che cerchiava la testa del capo del cerimoniale, ci si sistemò con qualche spinta di troppo e quando l’auto si mosse, voltò le spalle all’edificio che nascondeva alla vista degli albanesi la prova settimanale dell’esistenza dell’Europa e si lasciò inghiottire da una rapida pellicola di grigio. Passarono alcuni minuti durante i quali l’automobile navigò in silenzio in una terra di nessuno e all’uscita da una curva riapparve davanti a due ragazzi bagnati che la lasciarono sfilar via senza muoversi dal ciglio della strada. Uno dei due calzava gli stivali di gomma enormi, che dovevano probabilmente soddisfare il fabbisogno di calzature di tutta la famiglia.

Dentro gli stivali il ragazzo aveva infilato i pantaloni di pezza rattoppati sulle ginocchia, indossava una maglia di lana grossa e dietro di lui e il suo compagno la terra si affacciava stretta tra una balza e il cielo basso, squallida, condannata e come non ancora strappata al fango e alla guerra.

Non mostrava filari di viti, non alberi né orti, né case che tenessero il terreno ancorato o poderi con davanti sull’aia trattori e mezzi agricoli. Solo zolle fradice, acquitrini, ciuffi ispidi di sterpaglia, macchie di rovi e le cupole di cemento degli igloo che protendevano in tutte le direzioni le loro

feritoie simili a orbite vuote.
Poi, risalendo sulla sommità d’un dosso, l’auto raggiunse un gruppetto di donne e di uomini confusi dalla pioggia e con l’asfalto che avanzavano ai lati e al centro della strada. Questi ultimi scansandosi al suono del clacson si chinarono per guardare dentro la vettura. Non c’erano altre macchine per strada ma solo questi camminatori che andavano come tante gambe, braccia, teste, coordinate dall’abitudine. La carrozzabile in quel tratto era cinta da entrambi i lati da bei platani alti. L’auto accelerò obbedendo all’invito della prospettiva lineare e rivelò dopo una rapida corsa una sequenza di tronchi recisi ad altezze diverse, come mozziconi conficcati nel terreno, e alcuni ancora piangenti davanti ai resti del proprio corpo, amputati e lasciati cadere.
"Po po" rispose in quel momento lo chauffeur a una frase pronunciata a mezza bocca dal capo del cerimoniale, rallentò davanti alle buche che coprivano in tutta la sua larghezza la carreggiata, e sterzò portando la macchina vicino alla cunetta dove comparvero tre uomini chini, le loro mani, due asce e la gola indifesa d’un platano.
"Why do they cut the trees?" domandai al capo del cerimoniale.
Passò qualche istante prima che Borici rispondesse fissando le unghie: "Matches. There’s a factory of matches nearby."
Poi, si rivolse con gli occhi ad Alex, come per avere da lui conferma dell’esistenza della fabbrica di fiammiferi ma Alex non gli rispose in nessun modo. Allora il capo del cerimoniale in un tono più sostenuto aggiunse: "Frankly speaking siamo in un momento molto particolare in Albania. Ma non è un problema. Molti dirigenti di governo e di partito sono scomparsi, impegnati per le prossime elezioni politiche generali e purtroppo, a causa di questi impegni, non tutte le personalità che avrebbero desiderato incontrarla saranno libere di farlo... No, non è un problema. L’interprete, l’autista, e io stesso rimaniamo sempre a vostra disposizione!"
Si portò la mano destra alla tasca interna della giacca, ne cavò con scrupolo sacerdotale un biglietto da visita e mormorò: "Questo è il mio indirizzo privato. Ecco il numero di telefono...”

Frankly speaking è un numero riservato, ma lei può chiamarmi quando vuole, giorno e notte..." e quando vide Alex tendere la mano, il suo viso rotondo si aprì, gli calò addosso un’espressione soddisfatta da bambino che ha pescato la figurina più preziosa del mazzo, gli occhi chiari persero per qualche secondo la presa fredda sulla realtà e acquistarono una luce allegra.
Stese la mano destra e portò contemporaneamente la sinistra verso la tasca interna della giacca. Per un secondo sembrò una marionetta molesta, sofferente e irridente, poi, ritirato il biglietto da visita dell’inviato dell’Europa in cambio del suo lo accostò alla bocca, lo fermò dolcemente tra le labbra e aprì la busta da lettera di color rosa che aveva estratto dalla giacca, ne sollevò l’orecchio con il massimo di soavità e di accuratezza sotto la famiglia raccolta nell’envelope e avendogli trovato un posto in cima agli altri cartoncini allargò il sorriso, contento.
"Dalle sue parole mi sembra di capire che stiano avvenendo cose importanti in Albania..." lo assecondò Alex.
"Frankly speaking, siamo al passaggio più delicato della democratizzazione albanese..."

Era la terza volta che aveva iniziato il suo eloquio con lo stesso motivo e non si era accorto che gli era rimasto attaccato addosso come la corona di capelli
Mostrava di apprezzare la domanda come una prova di credito e di fiducia. Indugiò con lo sguardo prima sul dorso delle mani, poi sulle scarpe, e finalmente sfiorò le labbra con le dita in un gesto che arricchiva la parola democratizzazione di gusto e di senso, come volesse dire: "Lei sa, senza delicatezza non c’è democratizzazione..."
La periferia della capitale mostrava una faccia disadorna e malandata. – non c’erano insegne luminose ma poche lampadine che mandavano un chiarore scarno e flebile come l’ultima brace del giorno.

La berlina nera incrociò un autobus che si piegava e gemeva con i fari spenti e quando la strada si allargò, lo chauffeur disse: "Tirana". I rari passanti avevano perso anche l’aria un po’ eccentrica e curiosa della campagna e non dimostravano di avere altro scopo nella vita se non il singolo passo che stavano completando. La Peugeot occupò il centro d’un viale di querce e di pini obbligando due ciclisti a far largo. Costeggiò nella sera la statua divina e umida d’un faraone dalla pelle d’oro, varcò una piazza capace di grandi folle, e ne uscì sotto palazzi alti e deserti. Poi venne finalmente all’arresto.
Lo chauffeur, disse: "Dajti sezione 2" e smontò lestissimo per aprire la portiera.
Al mattino, dopo la colazione, scoprimmo il Boulevard davanti all’Hotel Dajti che scivolava lunghissimo e diritto come un fiume non impensierito dal suo modestissimo carico: un camion con dei soldati giovani, qualche bicicletta, qualche pedone. Oltre il Boulevard c’era un giardino senza fiori, qualche panchina e due vialetti che s’incrociavano sotto un chioschetto con in vendita le opere di Hoxha e delle cartoline. I lecci e i pini del giardino avevan l’aria di dire: siamo stati graziati, viva il comitato centrale del partito e il proletariato albanese.
In effetti, scritte giganti, inneggianti al partito e al proletariato, e a Enver Hoxha, montate sulla facciata dei palazzi o su tralicci segnavano, come pietre miliari, il corso del Boulevard che spaccava Tirana in due dalla zona delle sedi dei giornali fino alla città universitaria. Non è strano che nei passanti e negli oggetti fermi la sensazione di essere stati prescelti li avesse convinti di essere soggetti privilegiati, anzi l’aristocrazia del presepe monista. Alcuni piccoli gitani ci inseguirono implorando, insistenti, l’elemosina, fino a un ponticello in pietra lanciato oltre il letto asciutto d’un torrente che incrociava il Boulevard a duecento metri dal Dajti.
"Democratizzazione..." disse Alex.
La coda dell’occhio di Vehid Borici saettava dietro ai piccoli mendicanti. Alex rifiutò il passaggio offertogli dicendo che preferiva raggiungere a piedi l’ambasciata. Il capo del cerimoniale allora salutò: "Frankly speaking stiamo affrontando un momento delicato... Siamo minacciati da huligani, delinquenze, distruzioni, vagabondi. Tutto ciò è indegno dell’Albania e dell’Europa. Le autorità devono far rispettare la legge come in tutti i paesi civili!"
Poi si congedò sospirando: "In Occidente anche la religione predica la non violenza!"
Ogni mattina ci aspettava in sala da pranzo seduto davanti a un piatto di scrambled eggs + bacon e consumava la sua colazione a spese di Langer. Sul giornale c’era una foto di alcuni giovani ammanettati. Frankly speaking la mostrò e spiegò che ci sarebbero stati dei processi, subito, rigorosi, esemplari. Pubblici e pubblicizzati. I tribunali avrebbero chiarito il rapporto tra le violenze e le prossime elezioni. I complici, i mandanti, i legami con i serbi e con i greci:
"Hooligans ! The plot will be unfolded! Because, this is clear, there’s a plot on a national and international scale designed to throw Albania into a caos. Everything will be analyzed and made available for scrutiny to those who want to see!"
L’ultimo giorno della visita ufficiale si alzò all’avvicinarsi di Alex, schioccò le dita per richiamare il cameriere, e aspettò a sedersi che la delegazione prendesse posto. Lo vidi ingollarsi un bel pezzo di pane, ma ancora con la bocca piena richiamò subito a sé il cameriere battendo il coltello sul bicchiere colmo di succo d’arancia, e poi lo rimbrottò perché il pane non era tostato a sufficienza. Il cameriere spiegò che l’energia elettrica era venuta meno durante la tostatura e il capo del cerimoniale gli indicò, alzando gli occhi, le luci accese del lampadario che gli stava sospeso sulla testa ordinandogli di riprendersi quel pane freddo e di riportarne al più presto di commestibile. Una volta che fu sicuro che in cucina si era ripreso a lavorare per lui, la fronte prese un aspetto meno minaccioso e il futuro sembrò più abbordabile.
"My daughter would have liked to meet you... Immensely! She plays the piano. She’s a good girl and she studies all the time. What a shame... You leave too soon... What a shame... There’s no time left!"
Poi pose mano a due pacchetti confezionati con una carta a fiori ch’era sopra il tavolo a fianco e ce ne porse uno ciascuno, prima a Langer e poi solo previa accettazione e gradimento da parte di questi, il secondo pacchetto attraversò lo spazio che lo separava dalle mie mani.
"My daughter conveys all the best to you and she hopes you can accept this little present. It’s nothing, just a souvenir of Albania..."
Alex, scartato l’involucro, si ritrovò tra le mani un orribile vaso da fiori in ceramica, un vaso disgustoso smaltato di blu e verde, con motivi simili a melanzane spaccate, lo rimirò un attimo e ringraziò cordialmente.
"Genuinely local art and craft: very very old albanian tradition, made exactly as they used to 500 years ago..."
"Thank you, thank you very much."
Frankly speaking apparve molto soddisfatto, per la bella figura e per l’arrivo del pane tostato.
Più tardi mostrai il mio vaso a Guraquki che l’osservò e disse: "Fondo di dotazione dell’ufficio del cerimoniale!". Lo prese in mano e lo studiò ancora e più da vicino: "Stanno veramente raschiando il fondo del barile anche lì ..."
Il mattino della partenza dimenticai di proposito il vaso di Frankly speaking in un angolo del bagno. F.S. mi aspettava nella hall. Cominciò a raccontarmi che era stata fissata la data del processo agli huligani quando le cameriere arrivarono trafelate e mi riconsegnarono il vaso. Era il momento di andare. Dalla Peugeot, il Boulevard e Tirana si stagliavano già lontani come un mondo che un’astronave incrocia e ne fotografa l’effigie sullo schermo di bordo. Un gruppo d’uomini uniti sopra una cunetta, alcuni in ginocchio, altri in piedi, che si davan man forte per scannare una capra e sulla faccia portavano il ritratto della soddisfazione e dell’allegria. Passammo tra i mozziconi dei platani amputati ed eccoci al Fokker che era stato parcheggiato al fianco della masseria.

Una domenica di maggio scesi al fioraio del mercato di Testaccio. Presi due mazzetti di fiori e ritornato a casa scoprii che il vaso donato da Frankly speaking era attraversato da una crepa invisibile ma sufficiente a lasciar scorrere l’acqua posta messa lì per le fresie. A questo punto non posso più nascondere che F.S godeva di un secondo soprannome presso il popolo albanese:

“il figlio del prete". che naturalmente in lingua albanese celebrava un lungo e onorato servizio celebrando la sua acconciatura. Ricordo Ilir Gurakuqi dire che “il figlio del prete” aveva mantenuto il suo posto di capo del cerimoniale del parlamento. Se così è andata vuol dire che gli insegnamenti di questa nostra storia meritano di essere ricordati anche dopo la caduta del monismo.


Lo studente triste
Gli studenti incontrati all’università di Tirana nel dicembre 1990 erano umili e poverissimi, senza libri, senza scarpe. Ilir Gurakuqi diceva che avevano bisogno di tutto: libri, scarpe, se possibile a misura, di cibo, di sesso, di riscaldamento nei dormitori, e nelle aule…

Uno di questi giovani seguì in silenzio Alex e me che ritornavamo per la cena al Dajti risalendo il corso del Boulevard. Era un percorso non lunghissimo ma neanche molto breve. Un gruppo piuttosto nutrito di giovani era come al solito partito con noi dalla piazza dell’Università e strada facendo si era assottigliato: tra i molti bisogni che li distinguevano c’era ancora e soprattutto quello di proteggere la propria più profonda e importante opera: la costruzione della propria identità.

Volevano strappare qualche parola e persino qualche frase al rappresentante del mondo della libertà e della verità, che era incredibilmente lì a una distanza di mezzo metro (e come vedete questo imbarazzo della distanza di sicurezza è rimasta in Europa anche dopo la fine del comunismo europeo più estremistico rappresentato da Enver Hoxha)…Ardevano questi giovani che avevano bisogno di tutto, ardevano dal desiderio di sapere tutto il necessario dal Parlamento Europeo, ma nel frattempo erano stati formati a non sporgersi troppo… alla fine anche questa sera come nelle precedenti quando mancavano pochi passi al nostro albergo e ci guardammo attorno, un solo studente era rimasto a distanza di sicurezza tra noi e lui. Spingeva a mano una bicicletta. Aveva gli occhi tristi e una faccia malinconica. Tutto a un tratto quel “bisogno di Europa”, sintetizziamo così, gli forzò la mano e il ragazzo la spinse in avanti e si presentò: "Sono Albert, uno studente di fisica..."
"E allora" domandai "che cosa sta succedendo in Albania? Gli studenti fanno la rivoluzione?".
Sulla faccia dello studente si fece largo una smorfia di rassegnazione: "Comandano sempre loro..."
Dal buio sbucarono due scopine gitane che spazzavano e fumavano. Una terza scopina arrivò spingendo un carretto carico di rifiuti.
"La nostra vita" riprese Albert "è passata nel non vedere, non parlare, non sentire. E adesso siamo un po’ ciechi, un po’ muti, un po’ sordi. Hanno distrutto tutto. C’era solo la famiglia. Ma hanno cercato di distruggere anche quella. Per loro vivevamo nella perfezione e solo questa perfezione poteva migliorare e diventare più perfetta!"
"E adesso?"
Lo studente si strinse nelle spalle.
"Tutti vogliono scappare. Mio fratello, nell’estate scorsa, si è rifugiato nell’ambasciata tedesca e adesso è in Germania. Ogni tanto telefona. La mia famiglia si sente orfana."
Arrivammo davanti all’Hotel Dajti. Alla vista di un gruppo di persone in attesa sulla scalinata, Albert spiegò: "Sono albanesi. Aspettano i diplomatici stranieri che sono a cena nel ristorante per chiedere un visto. E’ così tutte le sere."
Lo invitai a bere qualcosa con noi. Entrammo. Nessuno osò avvicinarsi e fermare l’albanese che era con noi, ma sentimmo il peso di sguardi che ci pressavano, spingevano in un angolo, e ci dividevano.
Albert arrossì ma alzò la testa e camminò dritto al mio fianco.
Il bar era chiuso, il ristorante ancora pieno di gente. Prendemmo posto a un tavolo. Invitai Albert più volte e quasi lo pregai di ordinare qualcosa ma ebbi come risposta soltanto dei cortesissimi no.
Il cameriere guardava me e Alex e ignorava Albert. Noi esistevamo, lui no. Quando sentì che Albert non mangiava si mostrò irritato ma poiché parlava solo albanese doveva rivolgersi ad Albert, e lo fece non guardandolo ma voltando la bocca dalla sua parte, perché chiedesse a noi se volevamo ordinare qualcosa per Albert. Quando fu detto e ridetto che non voleva niente, il cameriere portò via le stoviglie, il tovagliolo, e anche il bicchiere da sotto il naso dello studente.
Alex lo fermò, il cameriere mostrò di non capire, e forse davvero non capiva, e nella confusione posò tutto sul tavolo tranne il bicchiere. Io mi alzai e ne presi uno dal tavolo a fianco. Questo movimento ebbe l’effetto di attirare sul nostro tavolo l’attenzione degli altri clienti che sedevano al ristorante come fossero a casa loro. Notammo che c’era non solo confidenza ma complicità tra loro e chi li serviva. Albert accettò di bere. Appena fuori accennò all’albergo e disse: "Non c’ero mai stato. Ma adesso devo avere coraggio".
Per Natale ricevetti una commossa cartolina di auguri da Albert.
Lo cercai due anni dopo. Fu difficile incontrarlo. Era molto indaffarato. Dopo un periodo di disoccupazione adesso lavorava all’ufficio brevetti. Mi sembrò cambiato, più spigliato, più attivo. Gli chiesi come se la passava. Mi disse che non aveva voglia di andare a fare il manovale in Grecia e qui l’unica maniera di sopravvivere era di adeguarsi all’ambiente. La politica, ripeté molte volte, si sa quel che è: compromessi, imbrogli, affarismi, carrierismo. I giovani preferiscono la musica. Non si aspettava che un nuovo partito o un nuovo giornale potessero cambiare la situazione perché l’Albania era un paese per forza di cosa dipendente dall’estero e necessariamente ogni attore politico doveva avere un protettore all’estero. Perciò guardava con sospetto alle manovre di chi voleva nuovi partiti o nuovi giornali perché l’Albania per decollare aveva bisogno di unità e solo di unità. Solo l’unità nazionale poteva favorire gli investimenti esteri. Prendemmo qualcosa da bere al bar della Casa della Cultura. La piazza adesso non era più dominata dalla statua del faraone. Sulla faccia di Albert non c’era traccia di soddisfazione e neanche più quella dignità compressa e sfuggente di una volta.



Mir u pafshe!
Genti Sanku era un albanese sparuto e alla mano. Genti veniva da Tirana: Sanku, il cognome aveva camminato fino a Tirana da un villaggetto sulla strada per Elbasan. Quando incontrava un conoscente Genti allargava le braccia, poi le alzava, contento, esultante, e infine riabbassandole le allargava, sorridente, pronto all’abbraccio, cantilenante: "Mir u pafshe!". Si commuoveva facilmente: era pronto al riso e al pianto. Si diceva anche pronto a gettarsi in un pozzo per l’amico, ed era prontissimo a portargli via il portafogli per poi pentirsene, buttarsi ai suoi piedi, stracciarsi i vestiti e piangere a dirotto confessandosi falso, bugiardo e traditore. L’onore era per lui il sentimento principale, o almeno lo era diventato, nel momento in cui agli albanesi, come anche lui riconosceva, non era rimasto altro: ma anche con l’onore era disponibile a venire a patti, a bere, mangiare, e uscire un po’ dalla regola. Di fisico Genti era smilzo, e di carattere forse anche debole, ma con una sua socievole e prorompente vitalità. Era venuto in Italia nel 1993 "in viaggio di fortuna" e lo incontrai al matrimonio di Burhan Derhemi. Dopo la cerimonia, Diana, la sposa, aveva preparato anche il pranzo. Ne era contenta, anche se, in quel giorno, avrebbe voluto accanto a sé la mamma e la sorella. A un certo punto doveva rivestirsi dell’abito bianco e dovevamo partire per il ricevimento ufficiale in un ristorante sulla collina di Perugia. Qui sarebbero venuti gli amici, i conoscenti, e la famiglia del datore di lavoro di Burhan. La sposa però tardava. Era luglio. La casa era una vecchia casa di campagna che Burhan aveva rimesso a posto con le sue mani dietro promessa che ce lo avrebbero lasciato per qualche anno: invece, qualche mese dopo lo sfrattarono. Adesso ch’era stata rimessa a posto guarda un po’ gli serviva! C’era l’aia, qualche albero, un pollaio, l’orto, insomma un villaggetto di campagna dove Genti si ritrovava alla perfezione, perché lui ama il popolo e la vita rurale, anche se è nato a Tirana, che paragonata al villaggetto di montagna dove dopo la laurea fu spedito a insegnare chimica, è quasi New York. Così, la nostra sposa tardava e noi l’aspettavamo nell’aia e dopo qualche tempo udii Genti cantare una specie di nenia.
In Albania, per la tradizione, il gruppo dello sposo parte dalla casa dello sposo e va a prendere la sposa a casa sua. A volte, in questo giorno di felicità, la sposa tarda, perché deve lasciare per sempre la casa dove è nata, piange, abbraccia la madre, si ricorda di questo e intanto si dimentica quello, e allora per sdrammatizzare l’attesa, che può diventare anche un pochino lunga, a casa dello sposo, per non stare sulle spine, gli invitati dello sposo cominciano a cantare, e cantano così:
solo: Se hai l’intenzione di venire...
coro: O sposa nostra...
Genti, invece, che aveva a suo tempo partecipato a un matrimonio in cui la sposa s’era fatta desiderare più del dovuto, cantava come aveva udito quella volta, con il coro che rispondeva con un ritornello diverso dall’originale, e cioé:
solo: Se hai l’intenzione di venire...
coro: O culo beato...
Cantava di cuore, rigirando gli occhi e allargando le braccia, e alzava il tono quando si volgeva dalla parte delle scale, da dove la sposa doveva arrivare.
Genti Sanku, il nostro eroe, era stato condannato alla laurea, anche se non aveva fatto niente per conseguirla perché suo padre era docente di mineralogia all’Università

 

 

 

Agli sgoccioli del monismo si scopre

la fortunatissima Bibbia di Zorro

 

. Dopo il tempo della laurea, siamo agli ultimi sgoccioli del monismo, obbligato com’era a fornire il suo individuale "contributo alle zone da sviluppare" Genti alle Gent andava a lavorare in fabbrica o a insegle fanarebbriche erano gia tutte non aveva alternative al suo individuale “contributo alle Gent andava a lavorare in fabbrica o a insegnare.Le fabbriche erano già tutte chiuse o semi-chiuse, andavano a pezzi o mancavano di materiali, e quanto all’insegnare non è che ne avesse particolarmente voglia ma doveva, e andando, come pure doveva, in ragione del "contributo", in una zona rurale e montagnosa, per lo meno c’era da rimediarci, contrattando con i contadini, qualche uova, qualche pezzo di agnello, e verdura. Il pane, no!, Genti ci teneva a precisarlo: perché nelle campagne, dove si produceva il grano, ai produttori ne veniva lasciato abbastanza per tre mesi di fabbisogno, poi dovevano arrangiarsi con il mais. Il grano andava a Tirana dove un unico forno serviva il pane all’intera città, e dove i contadini non erano assolutamente ammessi a comprarne.
Genti andò a insegnare, ma, per sua ammissione, dobbiamo aggiungere, da insegnare non aveva niente. Parlava, naturalmente a tavola, della tavola di Mendeleiev come di un tipo di mensa sociale russa introdotta dal comunismo. Restò nel villaggio fino a quando i contadini, tutti comunisti accaniti, non gli diedero la caccia con picche e forconi quando Genti ebbe la malaugurata idea di professarsi de-mo-cra-ti-co: allora dovette fuggire, di notte, attraversò varie volte lo stesso fiume e scampò alla furia dei contadini comunisti che in quel periodo di transizione alla de-mo-cra-zia gli avevano dato da mangiare.
Nonostante tutto Genti aveva nel cuore i contadini e quanto alla democrazia bisogna intendersi sul significato. Amava gli aneddoti popolari. Per esempio la storia del barbiere di campagna con il naso smisurato che aveva ridotto a malpartito un cliente e il poveraccio guardandosi allo specchio dopo il servizio e vedendo il suo capello spareggiato e mietuto alla brutta aveva guardato il barbiere e gli aveva detto: "Mi hai tagliato male, naso di sassofono!" Una storia così lo divertiva da pazzi. Adorava i briganti, gli avventurieri, le lotte senza fine tra bande rivali che vanno a cavallo, si rubano femmine e provviste e continuano a rivaleggiare nei secoli. Gli piacevano questi eroi senza trucco e senza medaglie. Genti era stufo dei partigiani santificati sull’altare intorno al tabernacolo del dio-Hoxha. Gli eroi democratici sono dei capibanda, con la barba lunga, appassionati, esibizionisti, amati dalle donne, temuti dai malvagi, sono sporchi e senza pretese, a volte sfortunati, a volte incompresi, ma affascinano il popolo e ne sono cantati.
In una parola l’ideale di Genti era Zorro.
Prese il posto di lavoro di Burhan in un country club -e anche nel cuore della sua padrona. Questo lo rese felice. Con le donne non aveva finora avuto fortuna, si sentiva incompreso e, dobbiamo dirlo, invalidato. Adesso era arrivato festante al traguardo. Poteva vantarsi di essere un vero maschio. Il resto non importava. Non metteva da parte soldi, di risparmiare non gli importava. Due giorni dopo la riscossione dello stipendio lo aveva già dilapidato facendo il giro di tutte le Coop, Conad, supermarket e comprando tutte le marche di birra esposte.
A proposito di denaro. Il denaro per Genti non era importante. Si fece prestare dei soldi da Burhan, che prestò del danaro anche a un ex esattore delle imposte suo lontano parente appena arrivato da Tirana. Questo ritornò in Albania senza farsi più vedere. Informato Genti dell’accaduto commentò: "Uomo senza onore!" Poi sparì anche lui. Disse che ritornava in Albania a recuperare le sue terre. Si lasciò crescere un barbone come Skanderbeg, raccolse un paio di uomini armati e li usava per rivrndicare ed estorcere i propri diritti.Andò anche a scovare il debitore di Burhan e gli intimò di presentarsi alla tale ora nel tal posto con i soldi, e quello in effetti obbedì. Genti telefonò a Burhan dicendogli che i soldi erano stati recuperati e che presto li avrebbe riportati in Italia con anche il resto. Non è più ritornato. E’ sempre in giro alla caccia delle sue terre che probabilmente qualcuno con una banda più feroce della sua ha già occupato. Ha telefonato a Burhan chiedendogli perdono. Ha incontrato Ftim, il fratello di Burhan, e gli si è buttato ai piedi piangendo.

Tra Skanderbeg e Hoxha
Dicembre 1990. A passeggio tra la statua di Skanderbeg e quella di Hoxha. Nell’Albania comunista i rapporti gerarchici tra l’antico e il nuovo furono quasi del tutto occasionalmente definiti attraverso la relazione tra queste due statue. Una relazione di peso, di misura e di atteggiamento. La prima è una statua di paese, unità di guerriero e destriero che galoppano in un passato leggendario, ma sepolto sotto secoli di convivenza con il Sultano, l’intermezzo coloniale, la guerra d’indipendenza e civile, e soprattutto sotto il nuovo. Il nuovo, cioé la dittatura del partito e del proletariato, è la seconda statua. Una statua ricoperta d’oro, a cui il cavallo di Skanderbeg arriva si e no all’ombelico. Queste due statue, l’enigmatico e solenne Hoxha in marcia tra la Casa della Cultura e il Museo Nazionale, come un burattino gigantesco e solitario tra i suoi giocattoli, e Skanderbeg a cavallo, quasi nascosto tra gli alberi, definiscono una piazza destinata ai grandi raduni e che una volta stava ai margini della Moschea, del mercato e della città vecchia, come il luogo dove si bivacca e si lasciano le bestie da tiro e i carri.
In questa piazza mi sono incontrato con un rappresentante della decadente e inconsistente burocrazia post-comunista. L. H. è un trentenne di media altezza, occhi e capelli chiari, un’espressione beffarda sul viso ed è vestito così bene, con giacca, camicia e cravatta da costituire una provocazione nella stradina povera e infangata lungo la quale i contadini offrono in vendita, come rarità preziose, una giacca strappata o un paio di scarpe usate. Il suo abito riveste una perfetta biografia!
Il nostro soggetto ispiratore era figlio di operai fedelissimi del partito e aveva fatto una brillante carriera grazie a una borsa di studio, destinata appunto ai giovani senza peccato originale, che lo aveva portato in Romania, paese preferito tra i paesi dell’Est perché offriva più occasioni di annusare l’Occidente. Da pioniere Luan aveva sognato di sposare la figlia di un ministro, una ragazza brutta e timida, quando però fu sull’aereo diretto a Bucarest e ne sentì rombare il motore si svegliò da quel sogno e al ritorno da Bucarest, qualche anno dopo, sposò la figlia di un albanese ricco presentandoglisi, con perfetta biografia, studi all’estero, laurea, titoli di benemerenza, come un futuro ministro.
Un albanese ricco era un controsenso solo apparente per un paese povero e proletario: i ricchi servono a un paese povero molto più che a un paese ricco che ne ha tanti. Si trattava, beninteso, di una ricchezza virtuosa. Il ricco suocero del nostro intraprendente era nella lingua comunista uno "specialista della finanza" che procurava allo stato la valuta pregiata per il commercio internazionale. Anch’egli aveva fatto i suoi calcoli. Non aveva entrature nelle segrete stanze e di conseguenza non poteva programmare né incrementare la sua attività. Era una rotella del meccanismo, ma quel meccanismo L non lo controllava anzi lo considerava inaffidabile come una roulette. Non era mai sicuro che anche la prossima volta sarebbe uscito il suo numero. Da quelle stanze, ogni volta poteva derivare un responso diverso. Non aveva diritti e soprattutto era ricattabile. Un giorno uguale agli altri potevano venirlo a prendere e accusare, e un’ora o un anno dopo si sarebbe saputo che svolgeva traffici illeciti, imboscava valuta e congiurava pericolosissime attività controrivoluzionarie. Se invece la figlia sposava un comunista puro la sua specializzazione aveva più chances di prosperare nell’interesse e nel futuro del paese. Il matrimonio, che s’aveva da fare, si fece. L H si stabilì all’interno della società comunista albanese con tutti i suoi notissimi alti meriti, politici e scientifici, e con i soldi: come il dottore, lo psicologo, il compagno L.. Divenne subito direttore di una rivista, da lui stesso fondata, che ripassava gli articoli di psicologia con una brillantina monista e aveva una linea editoriale tra l’accademico e il realistico. Poi s’assise sullo scranno di presidente dell’Istituto di Psicologia. Poteva viaggiare, libertà riservata a pochissimi, e usava i viaggi per moltiplicare i contatti esteri, reperire collaborazioni e pubblicare su "Nuova Psicologia" i saggi e gli interventi firmati da stranieri, che qualunque cosa dicessero, fatti salvi gli articoli di fede che non venivan sfiorati, davan smalto al regime. Così giovane era già una forza della cosiddetta cooperazione internazionale. Prometteva ai suoi corrispondenti europei un soggiorno nell’incontaminata Albania. Un paese povero ma senza inquinamento e senza criminalità. Un ambiente ideale per un simposio e, dopo, una gita in campagna, per esempio all’ex casino di caccia di Galeazzo Ciano, nei pressi di Lushnie, oppure al mare, verso quella bella costa al confine con la Grecia, di fronte a Corfù, o all’interno, nelle zone romantiche, impervie e avventurose di montagna.
Il salto con l’asta verso il successo H. lo eseguì in occasione di un programma televisivo cui partecipava in qualità di esperto. Si scoprì telegenico. Simpatico già si sapeva. Era il 1985. Enver Hoxha era morto. Era appena morto.
L’Albania, la nuova Albania, non aveva mai affrontato una prova così sconvolgente e temibile. Vivere senza padre. Perdere il motore immobile e il capo. Non sapere cosa verrà in luogo di quella potenza indiscutibile e misteriosa che sorrideva e abbatteva, e guidava verso una ignota meta il suo popolo, ma senza un fremito. Enver, lo Skanderbeg del comunismo, era morto. Luan comparve in televisione piangendo e parlò di lutto, di elaborazione del lutto, di coraggio, di perdita del padre, di coraggio dei figli, di rielaborazione, di custodia delle ceneri, di coraggio ancora. E salutò con il pugno chiuso: come sarebbe piaciuto al compagno Hoxha. La vedova di Hoxha si complimentò. L. fece in modo che tutti sapessero di questi complimenti. Il direttore della televisione venne a saperne e stava giusto considerando che occorreva coraggiosamente svecchiare i programmi. Era tempo di cambiare. Aprire, aprirsi. Hajdaraka si ripresentò in tv con una trasmissione tutta sua. Con un vestito nuovo. Acquistato in Italia. E con una compagna al suo fianco che lo presentava: “il professore, il pedagogo, il dottore, il direttore, il questo... il quello...” senza lesinare sugli onori e le medaglie,  da Est e da Ovest. Il programma era scientifico-culturale e la collaboratrice poteva anche indossare una gonna più corta del solito. L. si costruì una fama di innovatore e uomo moderno. Tempista. Intelligente. Non sopravanzava mai il pubblico e il potere con i suoi commenti. Non li inquietava. Li accompagnava. Con una battuta. Una frase a effetto. 
Adesso viaggiava all’estero soprattutto per studiare la televisione occidentale. Non poteva presentare dei nudi o delle scene troppo audaci ma sapeva che le luci rosse delle tv italiane erano ricercate dalle antenne erette sulla costa albanese e allora ne riprendeva implicitamente il filo con il proposito di educare il suo pubblico.  Era bravo. Spiegava, descriveva, diagnosticava. Era capace di precuocere in lingua albanese, per il palato albanese, il cibo masticato dalle bocche italiane.  Era molto popolare e a ragione della sua popolarità e del suo riconosciuto successo credeva giusta, necessaria e possibilissima per l’Albania una rivoluzione telegenica. Era perciò contrariato dai recentissimi eventi, seccato, e temeva che quella sua rivoluzione fosse in pericolo e tradita. Salih Berisha, il capo del nuovo partito, il Partito Democratico, era apparso in televisione, la televisione del vecchio partito, per invitare alla calma e condannare i disordini. Gli “huligani” attaccavano i negozi ma anche le sedi del Partito del Lavoro e gli uffici giudiziari. La statua di Stalin era stata rimossa. 
“Tutte stronzate!” esclamò sferrando un calcio a un nemico immaginario. “Tutte stronzate: il Partito Democratico, le manifestazioni degli studenti... Stronzate! Pfui... Chi sono? Chi li ha chiamati? Sono dei falliti... Il vice-capo del Partito Democratico, Gramoz Pashko, è un povero fallito... Economista? Non sa neanche parlare: invece di reddito nazionale dice rendito, invece di interesse dice interessa... Per di più è brutto, ha la faccia tutta rovinata, il naso gli cola sempre... Ma come fa l’Albania a presentarsi in giro per il mondo con uno così, che non sa parlare, non sa neanche mangiare... E’ impresentabile! Non sa neanche mangiare! Se c’è un banchetto ufficiale quello lì si sporca la cravatta e la camicia di sugo! Non è mai andato in chiesa in vita sua e adesso fa il cristiano per commuovere l’Occidente. Alla sera prega la moglie: ‘Vestimi un po’ bene, che domani dobbiamo andare a messa!’ Ma è impossibile. La moglie lo sgrida: ‘Allacciati le scarpe!’ E questo sarebbe il vice-presidente del nuovo partito? Impresentabile! Povera Albania...”
“E le statue?” lo stuzzicò l’amico che ne voleva saggiare la disponibilità all’avventura politica.. 
“Quali statue? La statua di Stalin?” e allungò il braccio in direzione del Viale della Liberazione, dove la statua di Lenin fronteggiava il piedistallo vuoto dov’era stato Stalin. “Non c’è problema! La statua di Stalin si doveva togliere già da qualche tempo, la togliamo e la diamo all’archeologia!”
“E quella di Enver Hoxha?” 
“Enver Hoxha? Ma che c’entra? E’ come se gli italiani volessero tirar giù la statua di Giulio Cesare o di Garibaldi... Si può buttar giù la storia? Solo gli ignoranti del Partito Democratico possono pensare di eliminare la storia nazionale. La statua di Hoxha è un documento e basta. E’ un reperto storico. Adesso duecento disgraziati vogliono distruggere tutto. Ma la storia non si distrugge, si conserva. Se ci si dimentica di quel che è il passato si diventa ignoranti. Che senso ha cancellare e sputare sul passato? C’è stato, abbiamo vissuto, abbiamo fatto quel che si poteva e basta. Erano tempi e situazioni storiche diverse, mi sembra chiaro...”
“Allora tu sei ancora d’accordo con Enver Hoxha?” lo incalzarono.
“Io sono e non sono d’accordo! Non sono d’accordo e non sono in disaccordo. Enver Hoxha non c’è più, è finito, è finito il suo tempo e adesso non andremo avanti mettendo tutti in fila in questa piazza, tre milioni e mezzo di albanesi, e interrogandoli uno per uno sotto questa statua: sei d’accordo o non sei d’accordo?” Eravamo giunti proprio alla base dell’altissimo monolito che si stagliava come un fallo serio e lucidato al centro della nuova Tirana. 
L. era preoccupato. Non era mai stato così preoccupato. L’idea che il treno del futuro non si fermasse alla stazione dove lui in sala d’attesa di prima classe si era messo comodamente ad aspettare lo preoccupava. Si era sentito protagonista della rivoluzione telegenica, si era sentito al sicuro. Aveva calcolato che in qualche anno i vecchi ideali del comunismo si sarebbero sciolti nell’ammollo della televisione, con il sapone della pornografia. Ma aveva trascurato la possibilità che l’acqua venisse fornita da altri. 
“Le prossime elezioni saranno vinte dal Partito del Lavoro” continuò. “Chi dovrebbe votare per questi? Gli studenti? Pfui... Chi è il Partito Democratico? E’ il partito dei figli di Hoxha che adesso sputano nel piatto dove hanno mangiato. Subito dopo le elezioni noi cambieremo nome al Partito del Lavoro, lo chiameremo Partito Socialista, e nel frattempo il Partito Democratico si dividerà in tante correnti quanti sono i capi, e i più intelligenti tra questi ritorneranno a mettersi d’accordo con il nostro nuovo Partito...”
“E l’economia?”
“Occorre un immediato rilancio! Autostrade, villaggi turistici, ricchezze minerali, e bassi salari!”
“Ci vogliono anni per questo. Nel frattempo chi pagherà il salario ai disoccupati?”
“Stamperemo denaro! E poi anche gli europei faranno qualcosa!”
Non voleva assolutamente perdere. Era convinto di ciò che diceva e pretendeva che il futuro si adeguasse. I suoi modi, i suoi mezzi, il suo percorso erano inscritti nel codice genetico del comunismo albanese. Al di fuori di quel patrimonio genetico L. non esisteva. Nessuno avrebbe potuto impedirgli di mettere la faccia, i talenti, le parole, che non gli mancavano, al servizio d’un nuovo partito né il cambiare era cosa da sconvolgerlo più di tanto. Non la coerenza e meno che mai la fede: era lui stesso a impedirselo. Sotto la bandiera della continuità lo si poteva immaginare capace di qualsiasi trasformazione, fuori no. LH poteva giocare solo con una squadra e odiare di un odio assoluto la squadra avversaria.   
Quello che lo distingueva dagli “impresentabili democratici” non era al momento un programma politico o una visione del futuro. Non c’era stato il tempo di pensare ai programmi. Quel che separava gli uni dagli altri era, per il momento, qualcosa di imponderabile e mimetizzato nelle biografie, nell’unica cosa reale, la biografia, che rendeva reale quell’essere del tutto immaginario ch’era il suddito comunista,  quella biografia che spingeva ciascuno a credere profondamente, intensamente, o nella nullità o nella speciale superiorità del proprio sentire. 
Dopo un ennesimo calcio all’aria si affrettò a una riunione del Partito del Lavoro in cui si sarebbe dato il benservito ai compagni della vecchia guardia in cambio di danaro e della proprietà gratuita di un certo numero di case e di dacie. 
I tre gradini

Per qualche anno l’Albania ha conosciuto un periodo di vitalità disordinata e di estroversione. C’era chi correva con camion scassati in Grecia, ne riportava diecimila bacinelle di plastica per poi rivenderle tutte, al triplo, in meno di un’ora. Chi ordinava ai connazionali fuggiti in Italia un pezzo di ricambio per un’auto trasportata dalla Germania. In pochi mesi il traffico era decuplicato. 
Nello stesso periodo metà delle icone conservate nei Musei nazionali aveva preso il volo oltre frontiera e i libri di una setta evangelica americana avevano sostituito le Opere Complete di Enver Hoxha sugli scaffali di molte biblioteche. Da chiunque si incontrasse per strada c’era da imparare qualcosa. Come importare una lavatrice italiana. Come mettere a frutto i dollari con cui era stata pagata. Come muoversi per riavere la proprietà statalizzata mezzo secolo addietro. E tutti erano proiettati con le loro forze e con la loro fantasia verso un nuovo mondo, tranne i più anziani, i più deboli, i più demoralizzati e coloro che, come il professore di Lettere Antiche, si erano rifugiati nel loro cantuccio e nel loro sogno.
B, il professore in pensione, abitava in un condominio in cui anche l’ultimo dei tre gradini che collegavano la strada al portone d’ingresso era sparito. Il palazzo non nascondeva i suoi malanni. Parte di un complesso a ferro di cavallo di dodici edifici l’uno identico all’altro, era stato costruito dai cinesi intorno al 1960 e per qualche mese aveva rappresentato il modello della nuova edilizia popolare. Senza manutenzione e senza restauro era progressivamente decaduto. Negli anni del comunismo ti prenotavi per l’idraulico o il muratore, ti dicevano che avevano preso la prenotazione e dopo non vedevi mai più nessuno. Dopo, nei mesi del declino della dittatura, i segni dell’incuria comunista avevano attratto la rabbia e la reazione popolare che avevano fatto il resto. I primi due gradini del condominio erano stati distrutti o rubati proprio allora. Il terzo era caduto da sé. Le scale interne erano pericolanti. La ringhiera assente. L’intonaco gonfio per l’umidità era scoppiato e se ne potevano vedere i resti per terra:. I bagni degli appartamenti consistevano di un buco nel pavimento e di fronte al buco un lavandino, generalmente rotto, e sopra di questo, sostenuto da due staffe di ferro, un vecchio bidone da cui attraverso un tubo giallognolo di gomma l’acqua, quando c’era, cadeva nel lavandino. B., pensionato, privo di mezzi di sostentamento, non era neppure il tipo che si desse da fare per procurarsene o per aggiustarsi la casa da solo: l’unica cosa che sembrava interessarlo era il dizionario albanese-inglese a cui stava lavorando da decenni, senza ancora trovare un editore. Nient’altro, si era ritirato dal mondo.
Il salottino in cui fummo invitati a sedere era la stanza condivisa dalle sue due figlie, A. e W.. Era fredda e disadorna, c’era solo un divano letto, una sedia e due foto in bianco e nero incorniciate alla parete. L’arredamento era inesistente, la luce fioca, una sola lampadina. 
V., la minore, aveva 32 anni, era timidissima e mentre parlava teneva gli occhi bassi e si stringeva il petto per nasconderlo. Aveva un viso rotondo, infantile, quasi paffuto. Il modo di vestire era quello di una bambina, il senso del pudore, la paura di contraddire o di mostrarsi sgarbata, la ritrosia anche. Era maestra ma adesso molte scuole erano chiuse. Non c’era lavoro per tutti i maestri. Aveva un sussidio mensile pari a 5 mila lire. Si rivolgeva al padre chiamandolo: “Papi.” Fu contenta di mostrare le sue pagelle: aveva tutti dieci. A., la sorella maggiore, era più spigliata e dinamica. Era impiegata come biologa nel laboratorio d’analisi di un ospedale, lo stesso in cui aveva lavorato Burhan Dheremi. A tratti tirava fuori un tono duro. Ci offrì cioccolatini, caffè, crema pasticcera e mele. Poggiando il vassoio in tavola disse: “Questo è quello che possiamo. Questa è la nostra realtà.”. Entrambe portavano calzini bianchi corti. Non c’era nailon in Albania.
B. parlava del suo lavoro di traduttore e dei suoi sforzi inutili per trovare un editore. Quando parlavano le figlie sorrideva e ogni tanto interveniva perché non si sentiva al suo agio: “In Albania siamo tutti interessati. Anche gli insospettabili.” Aveva un sorriso sfuggente e ripeté questa frase mentre davo il mio indirizzo alle figlie, e poi quando mi accompagnò in strada. 
A Natale ricevetti una lettera con dentro un librettino con la sua traduzione in albanese delle rime di Omar Khayam e una cartina dell’Albania con sopra gli auguri di V. Due anni dopo venni a sapere da Burhan Dheremi che V. si era uccisa lanciandosi dal balcone.

 (Una città)

Link: http://unacitta.it/it/articolo/338-

 

 

 

 

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