Raul Mordenti: In morte di Ramos
Incontrai Ramos per la prima volta, grazie a Giulio Girardi, in occasione di una contestazione sessantottesca che organizzammo in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico del PAS (il Pontificio Ateneo Salesiano), l’Università dove risiedevano e insegnavano, oltre a Giulio, Gerardo Lutte, Gutierrez, Bruno Bellerate e Ramos, e che aveva già avviato processi repressivi (nei confronti di Gerardo Lutte, se non mi sbaglio).
Ricordo l’aula magna gremita di salesiani professori e studenti, ricordo Gianni Mattioli che chiedeva di poter parlare a nome dei contestatori, ricordo la faccia scandalizzata (ma più ancora incredula) del Rettore, però ricordo soprattutto le grandi risate di Ramos, in clergyman grigio, che si divertiva moltissimo per quanto stava succedendo.
La prima immagine che ho di lui è quella risata serena, che fu così sua, e che avrei rivisto e amato tante volte negli anni, e che mi ricompare anche adesso mentre scrivo di lui.
Dopo che la Chiesa dei Poletti e dei Benelli ebbe fulminato i suoi provvedimenti di esclusione contro i nostri professori salesiani, ritrovai Ramos all’IREF, un istituto di ricerca sulla formazione dell’ENAIP-ACLI che – grazie a Labor, a Gigi Covatta e a Gennaro Acquaviva – aveva assunto lui, Lutte e il ragazzino che io ero per svolgere una ricerca sulla coscienza di classe degli edili romani. In quegli anni potevano succedere anche queste cose meravigliose. Era il mio primo lavoro retribuito (che fra l’altro permise ad Afra e a me di far nascere nostra figlia Rosa usufruendo della mutua) ma la cosa più bella fu trovarmi a fare orario di ufficio, nella stessa stanza con tre tavoli, assieme a Lutte e a Ramos.
Gerardo Lutte, aveva già pubblicato la sua fondamentale ricerca sugli adolescenti svolta in tutta Europa, e José Ramos Regidor era il professore di teologia del PAS che aveva appena scritto il suo memorabile Il sacramento della penitenza (Elledici, 1971); quel libro era una sintesi di sapienza teologica e di storia della Chiesa, l’una e l’altra vivificate dallo spirito del Concilio, un libro che – mi dicono – è tuttora utilizzato nelle facoltà di teologia. Nonostante la mia assoluta ignoranza, io lo lessi tutto d’un fiato, e alla mia ammirazione Ramos rispose – con tanta autoronia – illustrandomi la giornata-tipo della sua vita di professore salesiano, e di come fosse stato per lui possibile studiare 14 ore al giorno. Io, lo ripeto, ero un ragazzino di 23 anni, e solo ora che sono vecchio capisco, o comincio a capire, che momento terribile deve essere stato per quegli uomini già maturi ritrovarsi da un momento all’altro senza lavoro, senza ruolo sociale, senza casa, senza soldi, isolati e soli; ma forse ancora più grave e più doloroso fu per loro essere stati proiettati fuori dall’ambiente protetto e totalitario del convento (in cui – ad esempio - Giulio era entrato da bambino a dieci anni) che significava non essere mai entrati in un uffico postale o in una banca, non aver mai comprato in un negozio un vestito per sé, non aver mai fatto la spesa in un supermercato o mai aver guidato una macchina (a proposito: forse dice qualcosa della vitalità di Ramos il fatto che sia poi diventato un amante della motocicletta…). Chi scriverà la storia della Chiesa del XX secolo dovrà un giorno fare anche la storia di queste terribili e gratuite sofferenze a cui furono condannati senza colpa i preti più fedeli al popolo, al Vangelo e al Concilio. Eppure non ho mai sentito uscire dalla bocca di Ramos (o di Giulio, o di Gerardo) una sola parola di rimpianto, o di recriminazione, e meno che mai una parola di odio per i loro sciagurati persecutori.
Nei mesi dell’IREF quei due grandi professori, grandi uomini e grandi compagni, mi trattarono come fossi uno di loro, con quella modestia vera, rivoluzionaria, che non aveva nulla di clericale. E in questo modo mi insegnavano tante cose, senza mai salire in cattedra (e Dio sa se ne avrebbero avuto il diritto!). Per ricordare una cosa sola: Ramos mi insegnò come si faceva una scheda (un insegnamento di cui ho fatto tesoro per il mio lavoro e che mi frutta tuttora); e quando, pochi mesi dopo, l’IREF chiuse e noi perdemmo il lavoro, nella trattativa che accompagnava il licenziamento chiesi e ottenni di poter tenere io le schede che avevamo prodotto per quella ricerca (la quale purtroppo non fu mai più proseguita). Quelle schede sulla coscienza di classe le conservo ancora, molte scritte dalla mano di Ramos (per noi fu sempre Ramos, non Pepe).
Ho già accennato alla modestia di Ramos, sincera, genuina, piena di autoironia, e questo riguardò anche il rapporto politico fra noi. Con una faccia tosta di cui solo ora mi vergogno, chiesi a Ramos di fare dei brevi corsi di formazione-quadri per il nostro collettivo del movimento studentesco. Ramos naturalmente accettò, come se fosse la cosa più normale del mondo che un importante professore di teologia e di filosofia spiegasse Marx a quattro studenti del movimento. Quei seminari si svolgevano in una stanza della Casa dello Studente di Via de Lollis e quando dico “quattro studenti” non uso un modo di dire ma indico il numero reale dei partecipanti. Ebbene fra quei quattro studenti c’era evidentemente anche un poliziotto, perché qualche anno dopo, quando allo spagnolo Ramos si pose il problema (non semplice) di ottenere la cittadinanza italiana, quelle lezioni gli furono rimproverate. Non solo la nostra polizia – non avendo niente di meglio da fare negli anni delle stragi – controllava le scuole-quadri del movimento studentesco ma, ciò che è ancora più infame, aveva condiviso le sue informazioni con la polizia franchista spagnola.
Poi venne per Ramos il tempo della teologia della liberazione che lo rese famoso nel mondo e tradotto in tante lingue, il tempo di IDOC e – soprattutto – il tempo di Maria Paola. Ci ha scritto Gerardo: “Raramente ho visto due persone amarsi come si sono amati Pepe e Maria Paola”: non c’è niente altro da dire. E a Maria Paola va adesso il mio pensiero pieno di gratitudine e ammirazione per l’eroico accompagnamento da lei svolto negli ultimi anni dell’atroce malattia di Ramos. Personalmente sono sicuro, più che sicuro, che - quale che sia stata la lontananza in cui la malattia lo rinchiudeva inesorabilmente - lui abbia sentito sempre, sempre fino all’ultimo, che Maria Paola era con lui, e che lo amava.
Ho usato, con qualche tremore (ma con assoluta convinzione), l’aggettivo “eroico” riferendomi a Maria Paola. Noi, scottati some siamo dalla retorica del potere (ahimé, anche del movimento operaio), abbiamo forti remore a usare parole come queste, e conosciamo l’ammonimento di Brecht: “Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”. Ma, appunto, noi non siamo affatto un popolo beato, e dunque di eroi come Ramos, o Lutte, o Franzoni, o La Valle, o Girardi, abbiamo avuto, ed abbiamo, un terribile bisogno. Se la parola “eroi” non piace se ne trovi allora un’altra per definire chi ebbe il coraggio di nuotare da solo contro la corrente terribile dei poteri (ecclesiastico, politico, economico, imperialistico), chi fu capace di sacrificare la propria vita dedicandola interamente e senza residui alla fedeltà al popolo e al Vangelo. Forse si potrebbe usare la parola troppo ambigua “maestri”, o meglio ancora “martiri”, “martiri del Concilio”, nel senso originario e proprio che significa “testimoni” (cito dal vocabolario: ”martire, dal greco martus, colui che ha testimoniato la propria fede o ideale nonostante la persecuzione, senza quindi abiurarla, anche a costo di eventuali pene..”): questa sarebbe forse la definizione più propria, ma certo suonerebbe ancora più sgradita agli uomini per cui la propongo che – ne sono sicuro - la rifiuterebbero sdegnati, magari accompagnando il loro rifiuto con qualche parolaccia.
Ora questa generazione di uomini grandi e cari, ci sta lasciando inesorabilmente, e il vuoto che essi lasciano non è riempito da nessuno. All’assemblea di addio a Ramos svoltasi il 12/12 nella Comunità di san Paolo l’età media era spaventosamente alta.
Si pone allora (a me sembra: con assoluta urgenza) il problema di trasmettere memoria di questi eroi, di queste testimonianze. Questo problema della memoria – se appena ci riflettiamo - è davvero impervio: trasmettere la memoria infatti è una funzione del potere, direi che la memoria è un’istituzione del potere e un potere dell’istituzione. E – per loro stessa intrinseca natura – queste testimonianze non solo si sono battute contro le istituzioni vigenti ma non hanno voluto mai creare istituzioni alternative: troppo profonda, e ahimé troppo storicamente motivata, era in loro la diffidenza per i processi di istituzionalizzazione della stessa ribellione. Ma questo non comporta il rischio dell’oblìo? Non ci fa correre il pericolo che materiali e semi preziosssimi, per il futuro molto di più che per il presente, vadano irrimediabilmente dispersi? Faccio un solo caso, particolarmente doloroso per tutti noi: Giulio Girardi è stato probabilmente uno degli intellettuali italiani della seconda metà del XX secolo più importanti nel mondo; migliaia di persone hanno cambiato la propria vita leggendo le sue opere, il suo nome è ricordato e benedetto a Cuba come in Nicaragua come nel Chiapas. Ma neanche una tomba o un pezzo di marmo lo ricorda. Le sue opere sono disperse in tante e diverse case editrici, e non esiste alcun progetto di loro riedizione sistematica, il suo archivio personale non esiste più, i suoi inediti (che certamente vi furono) sono dispersi, nessuno attualmente lavora a una sua biografia (che sarebbe bellissima e utilissima) e nemmeno a una bibliografia sistematica dei suoi scritti, nonostante gli sforzi affettuosi di Bruno Bellerate che accolse Giulio in casa sua negli ultimi, dolorosi, anni di malattia e solitudine (e che ora ha costruito un sito web dedicato a Giulio).
Certo, Giulio, è vivo e vivrà per sempre nel cuore di chi lo ha conosciuto; come Ramos è vivo e vivrà per sempre nel cuore di chi lo ha conosciuto. Ma questo non può certo bastarci perché parliamo di grandi intellettuali che hanno affidato la loro sopravvivenza anche ad opere filosofiche, teologiche, politiche, e queste opere chiedono di poter vivere für ewig al di fuori dei nostri cuori.
Passato l’attimo delle lacrime penso che sarebbe un modo giusto di piangerli discutere operativamente dei compiti che la morte ha trasferito su tutti/e noi.