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Giorgio Mezzalira: Preoccupa la scuola del futuro

19.12.2020, Corriere dell'Alto Adige e del Trentino - editoriale

Se dovessimo considerare la didattica a distanza come una sorta di prova generale della scuola di domani, c’è da sperare che la profezia di Bill Gates sul passaggio online dell’insegnamento non si avveri. E ciò senza nulla togliere al merito della DAD di essere stata una risposta urgente a un’emergenza senza precedenti. Il Rapporto annuale del Censis ha significativamente titolato “La scuola degli esclusi” il capitolo dedicato alla scuola ai tempi del Covid 19. E tra gli esclusi ci sono gli alunni che per ragioni economiche, per disabilità e bisogni educativi speciali, per il loro background migratorio, si sono trovati ancora più esposti al rischio di marginalità. Gli stessi dirigenti scolastici, sempre secondo l’indagine del Censis, sono in gran parte concordi nel ritenere che la DAD non riesca a supportare adeguatamente gli studenti con disabilità o bisogni educativi speciali, oltre a temere di non poter realizzare progetti per il contrasto alla povertà educativa e la prevenzione della dispersione scolastica. A questo si aggiunge il problema di una formazione del personale insufficiente e/o inadeguata, la mancanza di un modello pedagogico di riferimento, con il rischio che si usino tecnologie con un approccio tradizionale. E poi c’è la mancanza di progetti organici di istituto. E si potrebbe continuare con le altre criticità emerse. Non certo gli ingredienti giusti per fare sistema e immaginare che la scuola del dopo Covid 19 possa automaticamente ripartire con una marcia in più. Ciononostante la maggioranza di presidi e direttori scolastici concorda nel ritenere che in futuro si ricorrerà più spesso alla DAD, anche se si ammette che la scuola italiana non è culturalmente attrezzata a questo tipo di didattica. Ci sarebbe forse da chiedersi più in generale se e quanto la scuola si adatti all’insegnamento online.

In un quadro di sintesi sulla DAD in cui sembrano prevalere le ombre alle luci, risaltano i volti sorridenti degli studenti e degli scolari nel rivedere i propri compagni al loro rientro in classe ed emerge la loro rivalutazione dello stare a scuola. Tornare regolarmente sui banchi per loro e per i loro insegnanti sembrerà riconquistare la “vera” scuola.

Ma quella che conosciamo, intendo l’Istituzione con le sue regole, la sua burocrazia, i suoi tempi, un po’ autoritaria e un po’ liberare, un po' innovativa e un po' tradizionalista, è davvero il luogo educativo e formativo di domani? Porsela come domanda in tempi in cui, costretti dalla pandemia, ci si chiede quale orizzonte si possa schiudere in futuro, farebbe bene alla cara vecchia scuola che presto si spera riaprirà completamente i propri portoni. E lo farà con i problemi di sempre: strutture mancanti o fatiscenti, precari, classi pollaio, programmi da rivedere, cicli scolastici da raccordare, troppa didattica ex-cathedra nelle secondarie, alunni sempre più vulnerabili all’ansia da prestazione. Continuerà a fare da corollario la forte e diffusa convinzione di molti (troppi), studiati o meno che siano, che la scuola debba unicamente assolvere al compito di essere utile e competitiva, correre dietro ai modelli di mercato perché è in gioco il futuro e il lavoro dei nostri figli. Apprendere, secondo questa logica e l’etimologia che gli è propria, diventa un predicato da coniugare nel significato di afferrare, impossessarsi di un sapere come fosse un’arma da impugnare per prevalere sugli altri (non si usa dire forse le armi del sapere?) oppure da declinare come “apprensione”, termine che racconta bene dell'aumento negli ultimi 20 anni dei fenomeni di disagio che accompagnano i ragazzi nella loro carriera scolastica fino a rendergliela un inferno. Niente a che vedere con il concetto di apprendimento come percorso di crescita e formazione, capace di valorizzare i talenti di ognuno e porre realmente al centro l’alunno con i suoi bisogni. La scuola resta uno specchio della società, non c'è dubbio, ma fatica a costruirla migliore.

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