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Fabio Levi: Il Tentativo di decalogo per la convivenza inter-etnica

20.2.2012, Nota per la discussione

Le osservazioni che seguono propongono in forma scritta e un poco ampliata le riflessioni che ho svolto a Cenci nel settembre scorso in occasione del seminario sui 10 punti per la convivenza. Si tratta di un ragionamento del tutto iniziale, ma che può forse essere utile ad aprire la discussione su uno dei testi più belli di Alex Langer. A questo contributo potrebbero poi seguirne altri, scritti magari, ma non solo, dai diversi componenti del Comitato scientifico della Fondazione, naturalmente nella più totale libertà di argomentazione e di stile.

Il Tentativo di decalogo mostra con chiarezza come Alex amasse servirsi della scrittura per trascendere la realtà senza che però venisse mai meno la tensione verso un possibile risultato concreto. E questo anche nel caso di un testo particolarmente impegnativo sul piano teorico come quello di cui sto discutendo, concepito come una sintesi – ovviamente sempre perfettibile, un tentativo appunto – di un lungo percorso politico e umano. Anzi, l’ambizione dei 10 punti sembra proprio essere quella di realizzare la più difficile delle imprese: trasmettere cioè l’esperienza maturata in tanti anni di lotta politica, a benficio di altri e in particolare dei più giovani; come l’artigiano che rivela – ma solo a chi ha lo spirito giusto per comprenderli – i segreti del suo mestiere o uno storico come Marc Bloch che svolge alla fine della vita la sua Apologia della storia.

Alex scrive mosso da un’urgenza insopprimibile che gli viene in primo luogo dalla lunga frequentazione delle guerre in ex-Jugoslavia nei tre-quattro anni immediatamente precedenti alla stesura. Le sue parole sembrano quasi voler gridare che, malgrado le violenze e le sofferenze inaudite di un conflitto senza sbocchi, doveva pur esserci il modo di uscirne con una proposta che traesse le proprie ragioni da quella tragedia. Insieme al ragionamento si impone insomma al lettore una prepotente affermazione di volontà. Leggere il Tentativo di decalogo senza riferirlo direttamente a quell’urgenza e al contesto da cui essa traeva origine vorrebbe dire pertanto svuotarlo della sua sostanza più viva.

La stessa vicinanza nel titolo fra i due termini tentativo e decalogo dice molto dello spirito che anima il testo e il suo autore. C’è da un lato la consapevolezza dei limiti che inevitabilmente caratterizzano ogni azione umana, messa però al servizio di un’ambizione, che può apparire persino smodata, a voler proporre i criteri generali – scrive Langer – “di un ordinamento della convivenza pluri-culturale”: quelli cui ci si dovrebbe attenere per evitare la precipitazione dei conflitti e vivere meglio tutti insieme

Nella tensione fra lo sforzo necessario per quello scopo e un risultato sempre precario stanno peraltro le emozioni profonde - leggibili in filigrana nel testo - che spesso travolgono l’esistenza di chi è in balia del disordine sociale o del conflitto etnico: la frustrazione e il senso di impotenza per l’assoggettamento forzato a logiche totalitarie, la sofferenza per avere subìto violenze insensate ed estreme, la fatica, la paura, l’esitazione o il piacere della scoperta che si provano nell’aprirsi verso gli altri, il senso di sicurezza garantito dall’appartenenza, l’inquieta leggerezza che si prova nello svincolarsi da gruppi troppo oppressivi, la soddisfazione piena di sentirsi individui in mezzo ad altri individui e tante altre. E il tumulto di simili sentimenti – da cui non è possibile prescindere in ogni caso - è lo stesso che anima chi a quel decalogo si avvicini per farne uno strumento utile a lenire le proprie ferite.

 

Il primo punto è, come in quell’altro Decalogo, un’incontrovertibile affermazione di realtà. Solo che qui non si parla di Dio, ma della “compresenza di comunità di diversa lingua, cultura, religione, etnia sullo stesso territorio” come dato oramai indiscutibile del nostro mondo. E questo per effetto di migrazioni e processi di mobilità sempre più diffusi e originati “di solito” dalla violenza. Ma non necessariamente dalla violenza deve nascere nuova violenza. La compresenza fra gruppi diversi può sì produrre, in nome dell’esclusivismo etnico, dolorosi conflitti, ma può anche dare luogo invece a forme di convivenza percepite come arricchimento e occasione di straordinarie opportunità. La realtà contiene in sé diverse alternative possibili.

 

In presenza di quelle alternative - si afferma al secondo punto - non vale attendersi soluzioni imposte da fuori o dall’alto. Non hanno dato buona prova di sé né le politiche di esclusione forzata né quelle di inclusione forzata. “Bisogna consentire una più vasta gamma di scelte individuali e collettive”. L’iniziativa deve essere lasciata ai singoli soggetti coinvolti - si propone nel terzo punto -, favorendo tutte le possibili occasioni di “conoscenza reciproca”, “di apprendimento e divertimento comune, frequentazioni reciproche almeno occasionali”, ecc. Questo non significa negare – siamo ora al quarto punto - ogni legittimità all’organizzazione etnica delle differenti comunità, a condizione però che essa “sia scelta liberamente e non diventi a sua volta integralista e totalitaria”. Per questo “si dovranno valorizzare tutte le altre dimensioni della vita personale e comunitaria che non sono in prima linea a carattere etnico”, di tipo professionale, di genere, legate al territorio ecc. Così pure, “non tutti i diritti collettivi devono essere fruiti e canalizzati per linee etniche”.

Insomma, per contrastare le imposizioni dall’esterno e per non soccombere alla logica non meno rigida dell’appartenenza, è necessario favorire la libera iniziativa dei diversi soggetti che operano nella vita sociale mettendo al centro l’individuo, i suoi diritti e la pluralità di dimensioni della sua vita e delle sue relazioni con gli altri.

Stabilita la logica di fondo, i punti successivi offrono indicazioni precise, nella forma di proposte in positivo frutto di un’esperienza molto varia fatta nell’arco di tutta una vita e in tanti contesti diversi. Ecco allora che il quinto punto suggerisce di permettere “una certa osmosi fra comunità diverse” utile a favorire  “l’esistenza di ‘zone grigie’, a bassa definizione e disciplina etnica e quindi di più libero scambio, di inter-comunicazione, di inter-azione”. Il punto numero sei è dedicato all’importanza di “riconoscere e rendere visibile la dimensione pluri-etnica” come condizione utile a praticare la convivenza, consentendo a tutti e ad ognuno di “sentirsi di casa”. Nel punto successivo si sottolinea il ruolo decisivo di “una cornice normativa chiara e rassicurante che garantisca a tutti il diritto alla propria identità”. “Non si creda [però] che identità etnica e convivenza interetnica possano essere assicurate innanzitutto da leggi, istituzioni, strutture e tribunali, se non sono radicate tra la gente e non trovano fondamento in un diffuso consenso sociale”.

Affermata la necessità di rendere più permeabili i confini fra i gruppi e di dare legittimità alle differenze accentuandone la visibilità, sottolineata d’altra parte  l’importanza di coniugare norme adeguate e consenso sociale, l’ottavo punto è chiaramente sintetizzato nel titolo: “Dell’importanza di mediatori, costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera. Occorrono ‘traditori della compatezza etnica’ ma non ‘transfughi’”. L’accento è posto qui sulla responsabilità dei soggetti più consapevoli e coraggiosi, chiamati ad indicare la strada con l’esempio e l’impegno in prima persona. Come pure al decimo punto, quando si presentano i gruppi misti: essi – si precisa con evidenti risonanze autobiografiche - “possono sperimentare sulla propria pelle e come in un coraggioso laboratorio pionieristico i problemi, le difficoltà e le opportunità della convivenza interetnica”. Solo al punto nove il tono si alza in un richiamo severo e la proposta si trasforma in un divieto, netto, radicale: “Una necessità si erge (…) imperiosa su tutte le altre: bandire ogni forma di violenza”. Si tratta qui di una “condizione vitale” senza la quale tutto il resto rischia di essere vano; una condizione che sembra però anch’essa tradursi in forma positiva: il divieto della violenza diventa non violenza, capace di “reagire con la massima decisione ogni volta che si affacci il germe della violenza etnica”.

 

Come si sarà notato, nell’articolarsi dei dieci punti il ragionamento ha una struttura chiara e conseguente: si passa dall’affermazione di un dato essenziale della realtà contemporanea a quella dell’assoluta centralità della libertà dell’individuo, e infine a un’insieme di norme positive sostenute da un unico divieto dalla forza quasi assoluta, il divieto della violenza o, se si preferisce, la proposta del principio positivo della non violenza.

Tutto questo ovviamente non esaurisce le altre idee che arricchiscono ulteriormente un testo breve ma molto articolato. Tuttavia aiuta a cogliere il nucleo portante di una linea di pensiero che è anche una guida all’azione. E qui sta la questione decisiva quando si tratta di proporre il Tentativo di decalogo alla riflessione di altri. Quel testo non è riducibile a uno schema astratto. Per il fatto di essere stato ricavato da una pratica concreta, verificata e arricchita da molte esperienze, esso si propone piutosto come una chiave di accesso con cui provare a misurarsi con la realtà, e come uno strumento da sottoporre ogni volta alla verifica dei fatti. La presentazione che se ne può fare a nuovi interlocutori deve dunque alimentarsi del confronto con le situazioni concrete per le quali lo si ritenga utile, pena un grave isterilimento delle sue potenzialità propositive. Senza la realtà e la politica si rischia infatti di farne un banale prontuario buono per tutti gli usi.

(Amelia 2011)

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