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Anna Bravo ricorda Anna Segre, più che un'amica

3.4.2007, Franco Angeli editore

Oggi è un momento importante a cui nessuno di noi avrebbe voluto partecipare.
Sarà difficile per tutti trovare parole, non dico giuste, ma pronunciabili
senza doversi interrompere per l’emozione.
E senza l’impressione di aver dimenticato aspetti essenziali di Anna e della sua vita.
Perché Anna era moltecose.
Una donna ebrea, un’intellettuale libera, una docente universitaria, una
cultrice della nonviolenza, una ambientalista appassionata, dirigente e consigliera
regionale dei Verdi, dopo una militanza in Lotta continua che doveva aver
contribuito alla sua idea della politica come servizio. Era una interlocutrice di
molte realtà e circuiti politico/culturali – per esempio aveva partecipato al varo
della Fondazione Langer, cui portava un affetto particolare legato anche alla sua
amicizia con Alex, e accettato il ruolo di vicepresidente; lavorava nel gruppo di
ricerca e riflessione su donne e discipline geografiche. Era una studiosa attenta
alla soggettività anche dove sembra più difficile scovarla; ricordo la sua inchiesta
sulle mappe mentali, vale a dire sul modo in cui l’esperienza diretta modella
nella mente delle persone l’immagine di un luogo. Era anche una grande viaggiatrice
e una grande narratrice di luoghi e incontri; ho vissuto e visto molte
cose per interposta Anna, con le sue fotografie e gli oggetti portati in dono.
Era una persona complessa, mutevole, a volte solitaria ma fulcro di un gran
numero di reti di relazioni, vulnerabile ma capace di mediare i conflitti con
l’ironia, e di reagire agli attacchi con durezza quando si rendeva conto che il
patto della reciproca lealtà era stato violato. Per me è stata ed è una sorella
elettiva, termine disusato, ma, come lei stessa aveva detto in un intervento a
Bolzano, non esiste l’equivalente femminile dell’espressione “amico fraterno”.
Mi sono resa conto che nella mia scelta di studiare deportazione e genocidio
aveva contato molto il fatto che lei fosse ebrea; a riguardare la propria storia,
dietro certe decisioni all’apparenza “oggettive” capita di scoprire qualcosa di
profondamente personale.
Infine Anna era la compagna e moglie di Claudio, la zia putativa di Ada,
figlia della sua amica Sandra, e attraverso Ada, di Enrico, di Leah; e lo sarebbe
stata di Guido Chaim – un cerchio di affetti che ho lasciato per ultimo, perché
ciascuna delle molte identità di Anna poggiava su questa riserva di amore, curata
con la delicatezza esigente che si applica alle cose più care.
Questi sono soltanto alcuni flash della Anna che abbiamo conosciuto, e ciascuno
di noi ne aggiungerà altri. Io vorrei almeno accennare a tre punti, il suo
contributo alla storia della Shoah, in particolare dei Giusti, il suo modo di appartenere
al mondo ebraico, la sua esperienza della malattia.
Anna veniva da una famiglia di Biella, che aveva patito la persecuzione in
prima persona. Per quanto giovani e non particolarmente politicizzati, nel settembre
1943 i suoi futuri genitori Renzo e Nella Morelli si erano resi subito
conto della gravità del pericolo, avevano capito che una situazione eccezionale
imponeva risposte eccezionali. A differenza di altri, che si stringono alla famiglia,
Nella e Renzo lasciano immediatamente la città, si staccano dalla grande
rete parentale e dai luoghi cari ormai insidiosi, valutano ogni spiraglio per la
salvezza. Impresa quasi disperata. Non hanno alle spalle una rete di relazioni
politicamente importanti, non dispongono di molto denaro, le loro carte d’identità
sono così mal contraffatte che non ingannerebbero nessuno – è risaputo che
il discrimine fra chi può mimetizzarsi con relativa facilità e chi è totalmente
vulnerabile sta proprio nella credibilità dei documenti falsi.
Chi studia la guerra si chiede se abbia senso parlare di strategie di sopravvivenza
in un contesto così imprevedibile e caotico, a maggior ragione per gli
ebrei. La storia di Renzo e Nella dice di sì. Con i loro punti di riferimento
aleatori e i loro bagagli minimi per non dare nell’occhio, i due giovani partono.
Incontrano rifiuti, paura, impreviste solidarietà. Finché trovano rifugio nell’ospedale
psichiatrico di San Maurizio Canavese, dove Renzo assume la parte di
malato, Nella di sua assistente. Per lui, significherà simulare disturbi devastanti,
sopportare terapie che rendano plausibile la finzione; per tutti e due, vivere in
allarme continuo, rinunciare a gran parte degli spazi privati, vigilare su ogni
dettaglio dei comportamenti. Rimarranno a San Maurizio fino alla Liberazione.
In quei mesi Renzo aveva tenuto un diario, in cui narrava fatti e sentimenti di
chi si trova in una condizione di massimo rischio, e lo sa. Proprio rifacendosi al
diario, aveva raccontato alla figlia quegli anni, a poco a poco, nella forma che
riteneva adatta a una bambina, una adolescente, una ragazza.
Solo dopo la morte di lui, Anna aveva potuto leggere per intero quelle pagine
sbiadite dal tempo. Erano gli anni Ottanta, si andava intensificando l’interesse
per la deportazione, ma il tema dei salvataggi durante la seconda guerra mondiale
era pressoché ignorato. In un paese che dalla pretesa assenza di antiebraismo
rivendica un aspetto fondante della propria identità, sembra un paradosso. Non
è del tutto così. Da un lato, la Shoah è stata a lungo identificata con il Lager, e le
sofferenze patite da chi è riuscito a sfuggire alla deportazione sono rimaste ai
margini. D’altro lato, dominava (domina?) ancora sul piano simbolico e politico
una delle basi tradizionali della cittadinanza, che lega la sua pienezza alla prerogativa
del portare le armi, secondo un paradigma maschile e guerriero del rapporto
individuo/stato. La pensavano a questo modo anche grandi intellettuali
ebrei. In un libro insuperato sul 16 ottobre 1943 a Roma, Giacomo De Benedetti
rivendica per le vittime ebree lo stesso statuto storico del combattente in armi,
trasfigurando nella figura “eroica” del caduto quelle e quelli che sarebbe più
giusto definire semplicemente i morti: «e se un giorno, a questi caduti, si vorrà
dare una ricompensa al valore, non certo noi, gli ebrei sopravvissuti, la rifiuteremo;
ma non si conino apposite medaglie, non si stampino speciali diplomi: siano
le medaglie e i diplomi degli altri soldati. Soldato Coen... Soldato Levi...
Soldato Abramovic... Soldato Chaim Blumenthal, di anni cinque, caduto a
Leopoli, in mezzo alla sua famiglia, mentre, con le mani legate dietro la schiena,
ancora difendeva, ancora testimoniava la causa della libertà» (De Benedetti,
1978). Con Anna, ci chiedevamo se qualcuno all’epoca avesse colto la dissonanza
fra il titolo di soldato e la vittima assoluta che era stato quel piccolino.
Nasce anche da questo orizzonte, non solo italiano, il disinteresse della
storiografia e dei media verso le forme di resistenza nonviolenta, verso la lotta
dei più vulnerabili e dei loro pochi protettori per far fronte a un nemico
strapotente, verso virtù come la capacità di “maneggiare” le situazioni e il coraggio
morale – le risorse principali nelle azioni di salvataggio e autosalvataggio.
Infatti a raccontare sono stati quasi sempre i sopravvissuti o i loro parenti, e
senza di loro i protagonisti sarebbero rimasti totalmente sconosciuti; molti lo
sono ancora. Bisogna aggiungere che fra i pochi salvatori italiani su grande
scala si contano figure scomode, accolte nella memoria nazionale da poco tempo
– basta pensare a Giorgio Perlasca, che strappa ai nazisti un gran numero di
ebrei di Budapest nonostante sia (sia stato) fascista, e nello stesso tempo perché
è (è stato) un fascista e ha combattuto al fianco dei fascisti spagnoli. Ad Anna e
a me, sembrava una storia fatta apposta per gettare nell’imbarazzo chi giudica le
persone dalla loro etichetta politica più che dai loro comportamenti.
Credo contasse e conti anche un altro timore: censire e raccontare le storie di
salvataggio smentirebbe l’idea che fosse impossibile fare alcunché; mostrerebbe
che l’aiuto si sviluppa quando è chiaro che per gli ebrei si tratta di vita o di
morte, ma anche che la Germania ha ormai perso la guerra; che, a dispetto del
mito nazionale del buon italiano, a agire è una minoranza. Ma una minoranza
abbastanza consistente e variegata da contrastare l’immagine opposta di un popolo
geneticamente opportunista e fascistoide. Stereotipi speculari, che consideravamo
escamotages per schivare i dilemmi veri.
Il diario è rimasto a lungo in un cassetto. Sulla possibilità e utilità di pubblicarlo,
Anna aveva chiesto consiglio a qualcuno dei nostri “padri simbolici”,
Primo Levi, Nuto Revelli, e agli amici più vicini, me compresa. Avevamo molto
discusso intorno al peso incombente sulle “candele della memoria”, vale a dire
su chi, in una famiglia o una comunità, si fa carico di ricordare e far ricordare;
intorno alla difficoltà di svelare squarci di una storia intima, in cui i genitori,
primi punti fermi di una figlia, primi suoi mediatori con il mondo esterno, compaiono
nel loro coraggio, ma anche nella loro fragilità e dipendenza. Dopo anni
di esitazioni e rimandi, il libro era uscito da Sellerio nel ’95, titolo Venti mesi
(Segre, 1995), introdotto da Nicola Tranfaglia, e accompagnato da una splendida
“Premessa” di Anna; è stato uno dei primi contributi per una storia dei salvataggi
in Italia. Per decidere di pubblicarlo ci è voluta molta forza, e Anna l’ha
tratta da due impulsi potenti: il desiderio di rendere giustizia al “suo” salvatore,
il professor Carlo Angela, la convinzione che era il momento di dare spazio nel
discorso pubblico a queste vicende e al loro significato. Ricordo molti discorsi
fatti sui carnefici, sugli indifferenti, sui giusti, dove si affacciavano sempre i
grandi nodi dell’autonomia di giudizio e della responsabilità personale, così
come li ha formulati in particolare Hannah Arendt (1993, 1996). Anna vedeva in
Carlo Angela un esempio di questo doppio talento: pensare liberamente e agire
di conseguenza; e via via che scopriva pezzi della sua vita, ne trovava conferme.
Nel 1943 Carlo Angela dirigeva la clinica psichiatrica Villa Turina Amione
di San Maurizio Canavese, un paese delle valli torinesi. Aveva moglie e due
figli, Sandra e Piero, appena adolescenti, aveva 70 anni e poca salute, era sotto
sorveglianza come antifascista di lunga data; il paese era stato più volte rastrellato,
fascisti e tedeschi entravano a loro piacere nella clinica, fra i dipendenti
non mancavano i collaborazionisti. La situazione di Carlo Angela sembra il compendio
di tutte le difficoltà soggettive e oggettive che sconsiglierebbero un impegno
in prima persona; a molti ne è bastata una sola per giustificarsi di non
aver fatto nulla.
Eppure Angela fa: apre le porte a varie famiglie ebree, a antifascisti e a renitenti
alle leve della neofascista repubblica di Salò; scrive falsi certificati medici;
fronteggia le ispezioni dei fascisti. Per Renzo e Nella arriva a affrontare il
temutissimo presidio fascista torinese dove si fa garante della loro identità fittizia.
Il paradosso per cui l’istituzione totale psichiatrica salva dall’istituzione
totale assoluta che è il Lager, parte dalla tenacia di Renzo e Nella, e si realizza
grazie al coraggio e al senso di giustizia di una singola persona, appoggiata da
un gruppo minuscolo di aiutanti; e in quei momenti, senza voler negare il ruolo
di leggi, istituzioni, eventi militari, a essere decisivi sono gli individui, è un sì o
un no detto a un certo momento da una certa persona. In Italia esistevano in
quegli anni decine di migliaia di medici, probabilmente centinaia di medici
antifascisti, e a tanti di loro devono essere arrivate richieste di aiuto. Ma non si
incontrano molti Carlo Angela. Per questo non ritenevamo l’antifascismo un
dato di per sé dirimente.
Anna ha avuto bisogno di forza anche per il passo successivo, far conoscere
il libro, presentarlo in pubblico, partecipare a dibattiti mettendo sul tavolo un
pezzo di vita, un pezzo di sé. Venti mesi è arrivato al figlio e alla figlia del
professor Angela, che Anna, nata dopo la guerra, ancora non conosceva. Si è
visto così che la storia viveva in due memorie familiari ricche e precise, e nel
loro corredo di lettere, documenti, fotografie, oggetti – come la sterlina d’oro
che Renzo aveva donato a Carlo Angela in segno di affetto e gratitudine.
Nell’incontro delle due memorie, le figure dei protagonisti si erano arricchite.
Piero e Sandra ricordavano Renzo e Nella e alcuni episodi che li riguardavano,
altri ne hanno appresi da Anna. Anna ha conosciuto aspetti del professore di
cui non sapeva, gli anni di studi e di spesso avventurosi soggiorni all’estero, il
suo ruolo importante nell’esperienza antifascista e libertaria di Democrazia sociale,
la sua cultura scientifica avversa al biologismo razzista. E ogni scoperta
per lei era un tassello prezioso del ritratto mentale che andava costruendosi. Tra
i figli dei protagonisti è nato un rapporto discontinuo, affettuoso e carico di
significati. Senza Carlo Angela, forse Anna non sarebbe nata; senza Anna, Carlo
Angela sarebbe probabilmente rimasto una figura luminosa nell’album privato
dei suoi figli. Sia resa lode alla memoria familiare, che ha conservato storie
come queste, creando i presupposti perché entrassero nell’area del pubblicamente
memorabile.
Venti mesi è stato importante dal punto di vista storiografico, ha avuto recensioni
e echi sul piano internazionale: un mio contributo (mi scuso per
l’autocitazione) sulla storia di Nella, Renzo e Carlo Angela, uscito di recente in
un volume collettaneo negli Stati Uniti, ha suscitato uno speciale interesse (Bravo,
2005). Naturalmente Anna l’aveva letto e corretto, come faceva con molti
miei lavori – e qui c’era asimmetria: dati i miei temi di ricerca, erano molte di
più le sue riletture di miei scritti che non le mie di suoi. Oggi quel suo sguardo
amico e rigoroso mi manca come il dialogo quotidiano, perché fra questi e altri
aspetti del nostro rapporto non c’è mai stata separazione.
Con il tempo, il libro ha fruttificato. Il 25 aprile del 2000, a San Maurizio, la
cerimonia per il giorno della Liberazione è stata semplice e bella: si è scoperta
una lapide in ricordo di Carlo Angela, la prima in Italia in cui compare l’espressione
“resistenza civile”. Alcuni studiosi e le autorità locali hanno ricordato la
vicenda, le suore che ancora si occupano della clinica hanno offerto un rinfresco,
la banda del paese suonava canzoni anni Quaranta. Al centro della giornata,
Sandra, Piero, e Anna, raggiante.
Ma per Carlo Angela lei voleva di più: decide così di chiedere che gli sia
assegnato il titolo di Giusto fra le nazioni, già ammalata si districa nelle molte e
giustamente complesse tappe necessarie per il riconoscimento, lo ottiene. È stata
una gioia e vittoria. Anna aveva nel cuore il professor Angela e i suoi figli, si
sentiva in un certo senso garante e custode della sua memoria contro possibili
usi strumentali; sul piano generale, le sembrava urgente opporsi alle
banalizzazioni e ai fraintendimenti che circolavano sul tema dei salvataggi di
ebrei. Il 27 gennaio del 2002, per esempio, sui media se ne era brevemente
parlato, “spiegando” la scarsa conoscenza di quelle vicende con la scelta dei
protagonisti di tacere per riserbo e per discrezione. Argomentazione inverificabile,
che si arroga il diritto di decidere quali siano state le motivazioni di persone cui
non si è chiesto di raccontare quando sarebbe stato possibile farlo (è quel che
era accaduto a Carlo Angela). Argomentazione culturalmente miserevole: come
hanno mostrato le ricerche, i salvatori non si assomigliano affatto fra loro, non
possono in alcun modo essere ricondotti a un determinato “tipo” sociale e umano;
e nonostante tutto, avrebbero prodigiosamente avuto in comune la vocazione
sacrificale al silenzio! Ricordo l’irritazione che ci aveva preso allora, la lettera
di protesta scritta a Diario, che non si era astenuto dal fare propria quella
sciocchezza.
Forse la storia della pubblicazione di Venti mesi e del suo percorso successivo
è anche un esempio del rapporto di Anna con la cultura ebraica e con l’essere
ebrea. Anna diffidava del filoebraismo acritico o interessato, delle “smancerie”
sulla superiore intelligenza ebraica. Ragionava in termini di persone, non di
gruppi. Respingeva sia le generalizzazioni e le definizioni troppo vincolanti, sia
l’universalismo a tutti i costi, ma distinguendone le diverse matrici: una cosa
era stato quello inclusivo, affettivo, estremista, del ’68 e dei movimenti successivi,
in cui non c’era letteralmente posto che per l’identità unificante della politica,
e le peculiarità delle persone scomparivano. Tutt’altra cosa l’universalismo
ottuso di questi anni, che reagisce alla sacralizzazione delle differenze
minimizzandole in nome della comune natura umana – come se proprio questo
non fosse già uno spartiacque fra culture.
Anna, credo di poter dire, vedeva l’essere ebrei come un’identità condivisa
filtrata da ciascuno in modi propri, come un nucleo fondativo della soggettività
che poteva assumere sfumature diverse a seconda dei contesti e dei momenti.
Lo vedeva come una ricchezza in alcuni aspetti “esportabile”. Aveva una conoscenza
notevole della cultura ebraica e ne era una dispensatrice – storie, tradizioni,
libri, oggetti. Finché ha potuto, ha festeggiato la Pasqua ebraica con una
cena a casa sua per un gruppo di amici, ebrei e non ebrei, cui offriva i cibi
prescritti dal rito, rievocandone il significato. Non contavano fedi e appartenenze,
contava l’essere vicini, l’interesse reciproco, la buona curiosità, la capacità
di stupirsi.
Abbiamo parlato spesso di come far parte di una maggioranza o di una minoranza
segni l’atteggiamento verso la cultura e la spiritualità di origine, generalmente
più distratto nel primo caso, più consapevole e impegnato alla salvaguardia
dei valori nel secondo. Su questo a Anna capitava di scherzare; parlava ridendo
di “ebrei e associati”, intendendo per associati i suoi amici cattolici, o di
nessuna religione, ma legati all’ebraismo dall’apprezzamento per la sua cultura,
e – qui non rideva più – dalla convinzione che bisogna volere bene a Israele per
quel che rappresenta per il popolo ebraico e per quel che ci rivela della storia
umana.
Nella “Premessa” a Venti mesi, Anna scrive: «Il rapporto con mio padre, nel
suo duplice aspetto, di grande vicinanza e complicità nell’infanzia, di contrasto
(pur pieno di affetto) durante l’adolescenza, ha rappresentato uno dei nuclei
portanti su cui si è costruito tutto il mio modo di interpretare la vita, fino al
momento attuale, quello in cui sto scrivendo. Nel bene e nel male, evidentemente,
dandomi la sicurezza di chi ha imparato presto a radunare tutte le sue forze
per seguire le proprie idee, e, al tempo stesso, ha conosciuto per tutta la vita
l’ansia di abbandono vissuta precocemente non solo attraverso la morte, ma
anche con la fatica di comunicare sensazioni e sentimenti, di comunicare anche
a me stessa il mio reale malessere soffocato dai sensi di colpa» (Segre, 1995, p. 25).
Anna doveva a Renzo la «curiosità verso le storie del mondo» (ivi, p. 19), una
cultura affinata e eclettica, la paura di restare sola, forse alcuni incontri con la
depressione – a volte diceva che la persecuzione aveva logorato le risorse
psichiche del padre.
E a Nella Morelli, cosa doveva? Sempre nella “Premessa” si legge: «Mia
madre era diversa, lei dalla tragedia aveva tratto forza; l’aver superato momenti
terribili le aveva rinvigorito lo spirito vitale, intraprendente, gioviale, lei era
altruista, disponibile, protettiva nei miei confronti, ma non indulgente. Al contrario
di mio padre, non aveva maturato un’eccessiva ansia per il futuro, anzi,
pensava di dover vivere al meglio il presente, e soprattutto di farlo vivere bene
a me» (ivi, p. 23-24).
Sono parole di cui sento un’eco nei modi in cui Anna ha vissuto la malattia.
Con smarrimento, paura, collera, tristezza infinita. Che le sono rimaste. Ma
gradatamente le è sbocciata anche tanta voglia di vivere, e al meglio possibile
nella situazione data. Aveva conquistato più fiducia in se stessa, più fermezza
nelle decisioni, un’elasticità mentale che è di pochi – mi raccontava con che
nuova facilità riusciva a intervenire nei dibattiti, di come il suo pensiero prendeva
forma e fluiva spontaneamente mentre parlava, anche quando si trattava di
temi nuovi. Continuava a fare lezione, a partecipare a convegni, metteva insieme
persone, coordinava ricerche. Si concedeva più cose, oggetti per la casa,
vestiti, viaggi, una scintillante auto blu, che aveva guidato in una sola tirata fino
a Bolzano in occasione di una cerimonia per il premio Langer; si era fatta costruire
un caminetto nel soggiorno della bella casa ai piedi della collina. Spero
che non vi sembrino divagazioni: in quei tocchi di leggerezza e “frivolezza”, in
quel desiderio di agio, si esprimeva una Anna in parte nuova, meno doverista
rispetto ai tempi in cui la nostra priorità era la politica, più dolce con se stessa,
più ragazzina, mi verrebbe da dire. E più creativa: sono certa che tutti riconoscono
l’originalità dell’Atlante, a cominciare dall’immagine di copertina, quasi
un simbolo della sua sensibilità.
Sono stati anni pieni. Anna si crogiolava nel calore della nuova famiglia in
cui l’aveva introdotta Claudio, si godeva Leah, e Ada in versione materna.
Sperimentava cose nuove, la discesa di un fiume in canoa con tanto di
caschetto protettivo, nuove terapie per l’emicrania, l’incontro in Canada con le
balene, lo shiatsu, la scrittura narrativa – ricordo un suo breve racconto in cui
fotografava i vari tipi di borse che i pazienti in attesa della chemioterapia portavano
con sé a Candiolo, scegliendo la strada difficile di far parlare gli oggetti e
i gesti invece di descrivere i sentimenti. Faceva progetti: una vacanza, una speciale
sorpresa per Claudio, un giro in Provenza alla ricerca delle terracotte locali,
un soggiorno in una beauty farm dove tutti i trattamenti erano a base di uva,
un libro da scrivere insieme sulla storia di Nella, Renzo e Carlo Angela, un altro
che avrebbe dovuto intitolarsi “Intanto vivo” e raccontare come la malattia (certe
malattie con l’«aura», il cancro, l’infarto) ridefiniscono le relazioni, certe
amiche/i che si dileguano, persone meno intime che corrono a starti vicino,
alcuni che neppure chiedono: “come stai?”, perché è faticoso cercare parole
adatte, altri che pur rischiando la goffaggine, provano e riprovano a comunicare.
Progettava il matrimonio, che è avvenuto, e subito dopo un viaggio con Claudio
a Agrigento. Ma fino a Agrigento non è potuta arrivare.
Difficile non accorgersi di quanto Anna somigli a sua madre in questa determinazione
a non disperdere il tempo che rimane, a capitalizzare le esperienze
belle: «amore per la vita» l’ha definito Fabio Levi. Ricordo l’ammirazione che
tutte e due avevamo per queste parole di un ex deportato: «ero lì, e pensavo:
Hitler può farmi di tutto, ma il fatto di aver vissuto bene, facendo quel che mi
piaceva, divertendomi, quello non poteva togliermelo». Credo che la forza di
Anna venisse anche dalla sua capacità di fare propri messaggi fuggevoli.
Non vorrei aver disegnato una immagine eroicistica. Disperazione e
ripiegamento su se stessa a volte prevalevano. Come avrebbe potuto essere diversamente?
Anna non coltivava illusioni, solo speranze, non aveva un atteggiamento
guerresco verso la malattia, nessuna sfida prometeica, nessuna scorciatoia
psicologista; sulle orme di Susan Sontag, rifiutava l’ideologia che riconduce
il male alla depressione, e le guarigioni al pensiero positivo. Anna sapeva; ma
voleva avere ancora bei giorni, passare tempo con le persone care, fare un’escursione
in montagna, una nuotata al mare, un saggio, un corso. Questo e molto
altro aveva raccontato in un’intervista a Una città, uno dei testi più coraggiosi e
generosi fra i tanti usciti finora.
Forse questo discorso sembra un’apologia, e non me ne dispiace. Anna la
merita per molte ragioni, non ultimo un tratto cui mi affido per concludere,
come mi sono affidata tante volte in passato per altre cose: la virtù quotidiana
della cura. Essere intelligenti è facile, un po’ più, un po’ meno lo siamo tutti. La
differenza sta nel cuore. Ricordo come Anna si era prodigata per una amica
argentina, il suo dolore per il dramma familiare di un’altra amica, la condivisione
dei momenti difficili dei suoi cari; ricordo una sua visita notturna mentre ero in
ospedale, e al mattino la aspettava la chemio.

 

Riferimenti bibliografici
Arendt Hannah (1993, ed. or. 1963), “Appendice”, in La banalità del male.
Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano.
Arendt Hannah (1996, ed. or. 1951), Le origini del totalitarismo, Ed. di Comunità,
Milano.
Bravo Anna (2005), “The rescued and the rescuers in private and public
memories”, in Joshua D. Zimmerman (ed.), The Jews of Italy under Fascist
and Nazi Rule: 1922-1945, Cambridge University Press, New York.
Deaglio Enrico (1991), La banalità del bene, Feltrinelli, Milano.
De Benedetti Giacomo (1978), 16 ottobre 1943, Editori Riuniti, Roma.
Segre Renzo (1995), Venti mesi, Sellerio, Palermo.
Zamperini Adriano (2001), Psicologia dell’inerzia e della solidarietà. Lo
spettatore di fronte alle atrocità collettive, Einaudi, Torino.

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