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Anna Bravo: I conti mai fatti tra movimenti e violenza

1.4.2005, Archivio 2005 Aprile - N. 58

La storica Anna Bravo ha pubblicato sul numero III/1 (2004) della rivista “Genesis” (per informazioni: www.societadellestoriche.it dove è reperibile) un lungo saggio esplicito nelle sue riflessioni sin dal titolo: “Noi e la violenza. Trent’anni per pensarci”. Il “noi” di cui parla non è costituito solo dal femminismo (o dai femminismi, come sarebbe più corretto dire) ma da tutta la nuova sinistra degli anni settanta, a cominciare da Lotta continua, il gruppo di cui ha fatto parte. La violenza (materiale, simbolica, ideologica) è invece quella di una parte della sua generazione che, per l’opposizione alla strategia della tensione, per le esasperazioni leniniste circa la “presa del potere” e lo scontro con lo Stato, per l’aumentare del peso dei servizi d’ordine all’interno del movimento, per gli eccessi dell’antifascismo militante, ha convissuto con la retorica dello “scontro”, senza farci i conti a suo tempo. Ci potevano essere degli anni settanta meno “violenti”? Quali sono state le responsabilità della nuova sinistra? In che modo la cultura delle donne avrebbe potuto separarsi dal maschilismo maggioritario nel movimento? A queste domande Anna Bravo ha provato a rispondere nel saggio citato, ma quando “la Repubblica” ha deciso di intervistarla si è aperto un veemente dibattito tra donne (cui hanno preso parte, tra le altre, Miriam Mafai, Dacia Maraini, Luciana Castellina) in cui, senza che nessuna leggesse il suo testo, la Bravo è stata aspramente criticata. Per capire il tono della polemica, citiamo un passo della rifondarola Elettra Deiana apparso su “Liberazione”: “Le gravissime dichiarazioni di Anna Bravo [dimostrano] la devastante marea montante della restaurazione cristiana bianca occidentale che va diffondendosi minacciosa nelle nostre contrade”! Noi che il saggio della Bravo lo abbiamo letto, e che invitiamo tutti a farlo, abbiamo deciso di aggirare le polemiche e di approfondire gli aspetti più interessanti della sua riflessione, quelli che esortano a ripensare un rapporto (non solo novecentesco) tra violenza e politica, e quindi tra mezzi e fini. Non è solo una questione “da femministe”, riguarda tutti, uomini e donne, chi negli anni settanta c’era e chi non c’era, chi ha partecipato a quel movimento e chi ha partecipato a quelli dei decenni successivi, di altre generazioni. Specie oggi che gli anni settanta tornano nel peggiore dei modi, unicamente come “anni di piombo” o di stragi come quella di Primavalle, nel cui ricordo (falsato) si contrappongono un destra felicemente al potere (i cui rappresentanti allora c’erano, ma da fascisti) e personaggi agghiaccianti come Lollo che rivendicano la loro partecipazione a quella stagione in quanto criminali (ma non sono meno ambigui i leader di ieri che non accettano le loro responsabilità, e sono invece ancora lì a raccontare ancora una volta la loro, sempre incompleta, versione dei fatti.) Proprio perché gli anni settanta sono stati anche un’altra cosa, proprio perché altre esperienze minoritarie ma fertili ed esemplari ci sono state, questa è una discussione importante. (Lo straniero)

Anna, con il tuo saggio hai messo il dito in una piaga ancora aperta, non solo nel mondo del femminismo ma in tutto quello della nuova sinistra. Eppure, tra le tante risposte piccate che hai ricevuto, sembra addirittura paradossale quella di chi dice, come Luciana Castellina: “I servizi d’ordine ce li aveva solo Lotta Continua, non erano un nostro problema”.
Mi aveva molto colpito, anni fa, quel che Simone Weil aveva scritto in una lettera a Georges Bernanos a proposito della guerra di Spagna: “un abisso separava gli uomini armati dalla popolazione disarmata, un abisso in tutto simile a quello che separa i poveri dai ricchi. Questo si sentiva nell’atteggiamento sempre un po’ umile, sottomesso, timoroso degli uni e nella sicurezza, nella disinvoltura, nella condiscendenza degli altri”. Penso che, fatte le dovute proporzioni, le sue parole siano decisive anche per ripensare gli anni settanta e il rapporto di allora con la distruttività e con le armi proprie e improprie. In quel clima, di fronte alle stragi, alla violenza di gruppi di estrema destra e della polizia, sembrava “naturale” creare strutture separate e specializzate, così naturale che diventava secondario chiedersi quanto quelle strutture contavano nelle scelte politiche, quale mentalità riflettevano e stimolavano. I servizi d’ordine non erano soltanto una risposta all’incrudelirsi dello scontro, potevano essere uno dei suoi meccanismi; se hai un manico di piccone finisci per usarlo, anzi finisci per ragionare come uno che ha un manico di piccone fra le mani.
C’era anche un altro aspetto di distorsione. I servizi d’ordine erano ottimi canali per guadagnarsi la patente di affidabilità e per accedere a ruoli di leadership che per vari militanti sarebbero stati inattingibili. Per gran parte delle donne, invece, che nei servizi d’ordine c’erano, ma non in grande numero e quasi mai in ruoli dirigenziali, succede il contrario: la maggioranza rimane schiacciata alla base delle organizzazioni, e nello stesso tempo, più cresce lo spazio della violenza e deperisce la politica, più la parola femminile perde peso, e già non ne aveva molto. È un esito non nuovo né irripetuto, e in situazioni tragiche: nell’Intifada il rovesciamento del ’90, con l’avvitarsi dello scontro nella spirale attentato-repressione-vendetta-nuova repressione, toglie respiro alle iniziative e alla voce delle donne. Ecco perché a mio parere è per le militanti che piazza Fontana, con la crescita e la specializzazione della violenza che ne deriva, implica davvero una svolta.
Su questi aspetti mi interessa discutere. Non sono generali abbastanza? A me sembra che il problema dei servizi d’ordine riguardasse uno spaccato ampio di persone, al di là della loro appartenenza all’una o all’altra organizzazioni – e così, oggi, la riflessione sul loro ruolo. Incidentalmente, non li aveva solo Lotta Continua, li avevano il movimento studentesco della Statale di Milano, Avanguardia operaia, la IV Internazionale... Che la responsabilità sia personale è ovvio, ma comprende anche la condivisione di un clima. Beninteso, con questo non voglio dire che sono (siamo) tutti e tutte ugualmente responsabili. Erri De Luca ha ragione quando scrive che in quegli anni si poteva essere estranei, ma del tutto innocenti no; però secondo me smette di avere ragione quando dice che “ognuno di noi avrebbe potuto uccidere Calabresi”, che “siamo tutti corresponsabili di quel che è accaduto”. Gli si potrebbe rispondere che ognuno deve parlare per se stesso. Io gli chiedo piuttosto come fa a conciliare quelle parole con il suo rifiuto, che condivido, della giustificazione attraverso il contesto: perché il “siamo tutti corresponsabili” sta in piedi solo ipotizzando un contesto così forte da schiacciare le differenze fra le persone e da motivare in toto i comportamenti (o in alternativa, un affollamento strepitoso di personalità “terroristiche” dentro uno spaccato di generazione). Dire “ognuno” non è solo un’iperbole, rischia di diventare la teoria del “tutti colpevoli”, che può facilmente rovesciarsi in “nessun colpevole”, e che mette in ombra i contrasti interni. Non è stato per caso o perché non gli era stato chiesto che qualcuno/a ha rifiutato di partecipare a determinate pratiche, e anche fra chi ha accettato potevano esserci responsabilità diverse. Le donne avevano in genere meno informazioni, meno ascolto, meno ruoli di decisione, meno compiti operativi – è stato il beneficio del genere sessuale, simile, in scala lillipuziana, al beneficio dell’età per i tedeschi nati dopo il ’45.

Tu dici: il femminismo (o la cultura delle donne) avrebbe dovuto, potuto smarcarsi maggiormente dalla retorica maschilista-leninista. Eppure sembra difficile immaginare oggi un percorso diverso da quello che effettivamente c’è stato. La rottura doveva essere più radicale, anche con il maschilismo evidente di Lotta continua? Ma potevano allora le donne andar da sole?
Provo a fare la storia con i se. Mettiamo che il femminismo nelle sue varie espressioni non solo avesse proposto un lavoro politico diverso, ma si fosse immischiato di più e più visibilmente nella politica “maschile”; mettiamo che si fosse smarcato dal marxismo e dal leninismo, capisaldi della teoria della violenza rifondatrice (Carla Lonzi lo aveva fatto precocemente), che compisse azioni di testimonianza, che desse valore al filone riformista della propria genealogia (le emancipazioniste fra Otto e Novecento stavano prevalentemente in quell’alveo). Mettiamo che, invece di rifiutare di schierarsi fra lo Stato e le Br, come facevano alcune, questo femminismo avesse cercato rapporti con l’area della nonviolenza, avesse preso seccamente posizione anche contro la distruttività della parte politica cui era più vicino, i gruppi extraparlamentari (come hanno fatto altre, consapevoli che la violenza era la maggiore minaccia al movimento delle donne). Alcune precondizioni c’erano, magari disseminate, intermittenti – la critica al patriarcato che si estendeva alla sua matrice violenta, il rifiuto del sacro duo marxismo/psicanalisi formulato da Carla Lonzi, una certa capacità di rapporto con le istituzioni, soprattutto il discorso sul corpo: la prima mossa della cattiva politica è sottomettere il corpo individuale al corpo collettivo – nazionale, sociale, politico. Forse qualcosa sarebbe cambiato, e di certo sarebbe diversa la memoria. Sull’andare da sole, credo che le donne avrebbero potuto, e alcuni gruppi lo hanno fatto; il problema era come guadagnare al proprio modo di fare politica altri movimenti, così da potercisi connettere.
Quanto a noi di Lotta Continua, siamo state troppo fedeli, e troppo a lungo, e persino nel modo di andarcene, siamo state un po’ lottacontinuiste – penso alla radicalità, al muoversi in massa, al nuovo senso di appartenenza che era forte come quello da cui stavamo uscendo. Così forte che molte l’hanno vissuto come una cesura radicale, in cui il passato perdeva peso e addirittura tendeva a scomparire, una seconda nascita. Estremizzando un po’, si potrebbe dire che l’innocenza perduta con le bombe di piazza Fontana veniva recuperata con la scoperta dell’essere donne, sia perché storicamente oppresse e lontane dal potere (quel paradigma era al colmo del successo) sia perché rese nuove al mondo dalla consapevolezza di sé. Troppo nuove, direi oggi, fino a rischiare la dispersione di quel che eravamo state – militanti plurime, anima dei mercatini, asili, ambulatori, mense proletarie, disturbatrici o mediatrici, interpreti per eccellenza di un mestiere sociale nato lungo gli ultimi anni sessanta e gli anni settanta, grazie al quale si creavano legami e si consolidavano linguaggi comuni negli ambienti più diversi, da una riunione di insegnanti a un’assemblea operaia a un campeggio al sud. Non mi piacciono molto l’espressione “seconda nascita”, la consuetudine di dichiararsi rinati ogni volta che si cambia; preferisco rigenerazione, che tiene in primo piano il rapporto con il passato, e richiede una maggiore circolazione di dubbio e di libertà di pensiero all’interno delle persone. Mi chiedo fra l’altro se l’illusione del “nate ieri” non abbia riguardato anche molte altre, a partire dalle femministe storiche – anni prima, ovviamente, ma neppure quelli erano tempi propizi al vaglio fine di ogni angolo cieco della dissociazione dal maschile.

In “Il nodo e il chiodo” che tu citi, Sofri dà la sua versione dell’ultimo congresso di Lotta Continua, e a proposito delle posizioni delle donne dice che erano riassumibili nella formula “il movimento è tutto, il fine nulla” e per questo erano molto simili al “revisionismo” di Bernstein (considerazione che, aggiunge, le femministe avrebbero rigettato). Le stesse critiche (del tipo: “siete delle anime belle”) vengono rivolte oggi a chi rivendica un legame il più stretto possibile tra i fini e i mezzi o assume una posizione nonviolenta. La priorità dell’Obiettivo è una concezione maschile della politica? Ripensare quegli anni, vuol dire ripensare criticamente anche questo?
Oltre che anime belle ci chiamavano anche mensceviche! Credo che la priorità dell’Obiettivo sia associabile non agli uomini, ma al maschile sì, nella sua componente di primato del progetto, dell’efficienza, della ragione strumentale, nella fissazione di affrontare i nodi tagliandoli anziché provando a scioglierli, nell’abitudine a dare più valore al futuro che al presente, al punto d’arrivo che al cammino per arrivarci – e lungo quel cammino si può cambiare, incontrare il male, agirlo, diventare un’altra persona. Questo è persino ovvio, vale per tutti i movimenti, vale per la vita.
Fra le tante cose da ripensare la priorità dell’obiettivo c’è sicuramente. Non che le leadership di allora avessero una mentalità da piano quinquennale, però è vero che la congruenza tra i fini e i mezzi non era affatto un imperativo primario, mentre avrebbe potuto esserlo – un po’ di storia la sapevamo, solo che dominavano le ideologie intenzionaliste, per cui i buoni obiettivi sono un elemento a discarico anche quando in loro nome si compiono i crimini peggiori. Non mi viene in mente nessun caso in cui i mezzi “buoni” siano sboccati in esiti perversi, anzi un criterio saggio è che se un programma esige mezzi inaccettabili, non è un buon programma. Scegliere mezzi “buoni” seleziona gli obiettivi, condiziona gli eventi, può contagiare le persone – nella Danimarca occupata dai nazisti, Hitler aveva dovuto sostituire alcuni dei suoi gerarchi, perché il faccia a faccia con il rifiuto danese dell’antiebraismo aveva indebolito la loro furia persecutrice. Può succedere l’imprevisto. Penso al crollo dei regimi all’Est e poi dell’Unione sovietica, che avviene con un numero contenutissimo di vittime, meno di quelle provocate nelle repubbliche baltiche nel gennaio 1991 dalle truppe mandate da Gorbacev contro i manifestanti indipendentisti. Quei regimi cadono come gusci vuoti, ma soprattutto, con l’eccezione della Romania, cadono in seguito a grandi manifestazioni popolari largamente spontanee, che si svolgono senza armi e pacificamente. Mentre tutti temevamo un bagno di sangue! Si direbbe quasi che i gruppi dirigenti fossero rassegnati alla caduta del regime, e gli oppositori rifuggissero da una resa dei conti. È la conferma di quanto poco erano radicati quei regimi, ma è anche un segno dell’importanza degli intellettuali del dissenso, che usando mezzi nonviolenti hanno mantenuta viva agli occhi della popolazione la possibilità di un’alternativa. Altro che anime belle! La nonviolenza può rivelarsi molto più fattiva e realistica di quanto si pensa di solito. Sempre in Danimarca, la popolazione (si può proprio dire “la popolazione”) riesce a portare in salvo quasi tutti gli ebrei danesi con un’azione clandestina disarmata e senza violenza. Pensiamo alle recenti “rivoluzioni di velluto” all’Est; su alcuni giornali si è “denunciata” la presenza di militanti di Otpor, l’organizzazione serba per la resistenza civile contro Milosevic, che sarebbero andati in giro per l’Europa insegnando come fare manifestazioni nonviolente. Se è vero, mi sembra una cosa bellissima. Non era utopica neppure la resistenza civile della popolazione kosovara, durata anni e anni; è stata ottusa la comunità internazionale a non dare appoggio effettivo a Rugova, il che nel tempo ha minato la fiducia popolare nella strategia nonviolenta e ha dato spazio all’Uck. Certo, non si può scegliere una strategia una volta per tutte, anche se sarebbe un sollievo, un “lusso”. Oggi per esempio su violenza e nonviolenza la sensibilità è cambiata fino a trasformare in un luogo comune (magari rinnegato nei fatti) la tesi secondo cui non c’è progetto, non c’è ideale collettivo che giustifichi lo spargimento di sangue; ma non è anche questa una cristallizzazione? Ricordo i dilaniamenti interiori ai tempi di Srebrenica e quanto è costato ad Alex Langer prendere posizione per un intervento internazionale.

Ricorso alla violenza (materiale e simbolica) e lotte per i diritti civili sembrano escludersi a vicenda (cioè, storicamente, lo scarso interesse per i diritti civili è direttamente proporzionale all’emergere della retorica della violenza). Il movimento delle donne, quello gay e delle altre minoranze sessuali, alcune iniziative dei radicali (ma si può pensare alla stessa idea della “lunga marcia attraverso le istituzioni”) hanno battuto per un certo breve tempo una strada diversa, anche se aperta a successive contraddizioni.

Bisogna dire che già nel movimento degli studenti dell’Europa occidentale il tema dei diritti civili non era molto sentito. Nel ’68, all’Est i movimenti chiedevano proprio quei diritti di libertà che ai giovani occidentali sembravano irrilevanti: “Non c’è pane senza libertà”, diceva uno slogan degli studenti di Varsavia, mentre noi, non solo in Italia, eravamo abituati a pensare piuttosto il contrario: “Non c’è libertà senza pane”. Poi nella sinistra extraparlamentare i diritti civili sono diventati ancora più periferici, un affare del riformismo, un obiettivo transitorio, qualcosa da rivendicare in attesa del grande rivolgimento; per di più, lottare per i diritti civili vuol dire anche “contrattare” con lo stato, con le istituzioni, cosa che magari si faceva, ma come necessità tattica. Dunque già il punto di partenza non era il migliore, e a rendere ancora più difficile la strada dei diritti civili hanno contribuito secondo me due cose. La radicalizzazione dello scontro politico, che li ha travolti anche teoricamente nello stesso momento in cui sconfiggeva la tesi della “lunga marcia attraverso le istituzioni”. Poi, in tempo brevi, la banalizzazione, l’uso smodato del termine diritto. Hanno ragione le studiose che hanno criticato l’ipertrofia giuridicista che fa di ogni relazione e situazione un affare di diritti e doveri. Come se si esitasse a riconoscere che ci sono casi in cui non si può parlare di diritti, però esistono ugualmente delle obbligazioni, solo che la legge non te le può imporre. Paura della libertà delle persone, del “cattivo uso” della libertà? e chi decide quale è l’uso buono?
Nel movimento delle donne si è seguita una strada diversa, non si parlava tanto di diritti civili, piuttosto di autodeterminazione, di libertà. La cosa più bella è che non abbiamo mai pensato che la libertà delle persone dipendesse dalla loro posizione economica e lavorativa, o da un buon curriculum scolastico o dall’impegno politico; e non abbiamo mai concepito la libertà come assenza di vincoli, come “indipendenza”, ma come la capacità di negoziare la propria adesione ai modelli e di prenderne le misure e le distanze. Non un fatto di diritti, ma di soggettività. Anche l’aborto, solo una minoranza lo inseriva nell’alveo dei diritti civili, per la maggior parte di noi la depenalizzazione era una forma di riduzione del danno.

Il giudizio storico sulla violenza politica negli anni settanta non è un fatto che riguarda solo la tua generazione. Certo, il “partire da sé “ (soggettivo e intersoggettivo) è il primo passo necessario; ma tutti dovrebbero avere maggior chiarezza su quegli anni (se vogliono confrontarsi con gli errori della violenza politica), anche quelli che sono nati dopo. Però, mentre tu intravedi le condizioni per parlarne in modo esaustivo, lo stesso non si può dire per il discorso pubblico (e la politica di palazzo) e le strumentalizzazioni dei casi ancora aperti o che si riaprono. Insomma, da una parte ci sono Anna Bravo e ad esempio, almeno in parte, il Crainz di “Un paese mancato” che propongono una franca analisi dei fatti, dall’altra il rapporto pubblico con quegli anni è affidato alle “dichiarazioni” di gente come Lollo, e alle interviste che innescano. Si isolano mediaticamente delle singole vicende, si snatura l’interpretazione storica, si riporta tutto – ancora una volta – sul piano giudiziario. C’è chi dice che l’amnistia aiuterebbe a far luce sulla verità e favorirebbe il giudizio storico. Cosa ne pensi?
Ripensare è fatica, già il fatto che la politica con cui condividevamo più idee abbia perso dà alla violenza dei “nostri” il peggior marchio possibile, aver sofferto e fatto soffrire per niente: una cornice difficile per confrontarci con il nostro Mister Hyde, con la nostra perdita della compassione, con il fatto che avevamo alzato un muro mentale fra la violenza e la sofferenza che essa provoca. Così oggi si rischia di sbandare fra due vicoli ciechi: un eccesso di severità verso se stessi anche per reazione a chi si assolve da sé, e un eccesso di autoindulgenza, come quando si dice: “io in fondo non ho fatto niente”, lasciando fra parentesi il fatto che si stava fianco a fianco con quelli che facevano. In questa situazione, ecco che arrivano periodicamente persone che parlano di errori di analisi politica anziché di crimini, che si dichiarano sconfitti anziché colpevoli, che fanno passare l’idea che gli anni settanta siano stati una mischia ininterrotta fra piccole minoranze senza cuore e senza pudore – mentre la maggioranza non era così, e quegli anni non sono affatto stati solo “di piombo”. Persone che si avvinghiano al contesto – che conta, chi lo nega, in quegli anni la lotta politica non era affatto “normale” – ma con una protervia che rende questa parola quasi indecente, impronunciabile. Mi viene di nuovo in mente Hannah Arendt, là dove scrive che dire di essere stati costretti o di aver obbedito agli ordini è un’argomentazione vuota, perché l’obbedienza è una categoria applicabile esclusivamente ai bambini; gli adulti sono, se mai, indotti in tentazione. Lei parla del nazismo, è troppo chiedere di estendere il suo discorso ai nostri anni settanta, e a chi oggi si descrive come travolto dalle “condizione oggettive”?
Qui c’è una responsabilità grande dei media, ne nascono distorsioni forse neppure volute, ma quel che appare è solo violenza e miseria morale, si perdono le tante esperienze belle, strane, nuove, si cancella la la voce di quelli/e che recalcitravano da azioni violente, e da un certo momento hanno cominciato a dirlo in pubblico. Il ruolo di supplenza dell’analisi storica che abbiamo lasciato all’azione giudiziaria non fa che rafforzare questa immagine truce. Allora chi vorrebbe riflettere con franchezza si sente già in partenza meno libero, ha paura che sia il momento sbagliato, e così si rischia di non trovare mai il momento giusto per affrontare questi temi. Se poi li affronti, c’è chi ti massacra usando tutti i vecchi artifici retorici della diffamazione politica. Il conformismo retrospettivo è ancora forte. Di me hanno detto che avrei presentato il decennio dei settanta come “un coacervo di orrori”! Sarei tentata di ribattere a tutte le falsificazioni che ho subito in queste settimane, ma rinuncio per amore di chi legge e perché ho verificato che molte/i sono invece aperti, e alcune mi hanno raccontato nuovi episodi e stati d’animo. Quello che mi indigna è il fascino che i reduci del terrorismo sembrano esercitare sui media. Su di loro si scrivono libri, si fanno film, si pubblicano loro interviste. E sono per lo più povere cose, parole di aspiranti caporali. Sulle vittime invece, quasi silenzio. Eppure sono molto più “interessanti” Guido Rossa, Bachelet, Casalegno che non i loro assassini – dico interessanti proprio nel senso di narrativamente ricchi, non nel senso di umanamente nobili. Credo che in nessun altro periodo si sia dato tanto spazio ai “cattivi” e così poco alle loro vittime. Di sicuro bisogna continuare a scrivere pezzi di storia, raccogliere testi, interviste, coinvolgere persone di seconda generazione. Usare la memoria con cuore vigile. Forse una buona cifra è quella del romanzo, del film (ma non Bellocchio, casomai Calopresti, il solo che ha raccontato di una vittima). Non so davvero se l’amnista favorirebbe la verità e il giudizio storico. Intanto non abbiamo Nelson Mandela e Desmond Tutu, i grandi “riparatori del danno”, in cui la maggioranza del popolo sudafricano ha visto la garanzia della verità e della riconcilazione. Poi, nel lavoro della Commissione sudafricana, “verità senza vendetta” stava a significare che l’amnistia veniva dopo l’ammissione pubblica dei crimini, sollecitata con un metodo che combinava la pratica terapeutica e il rito della confessione; e le famiglie delle vittime non solo avevano un riconoscimento economico, ma si sentivano risarcite anche moralmente, perché delle vittime si parlava (noi abbiamo lasciato il tema del quasi silenzio sulle vittime alla destra, e alla memoria familiare solitaria e esacerbata). No, non mi aspetterei un maggiore tasso di verità dall’amnistia; credo che tante persone tacciano o mentano non solo per sfuggire alla galera, ma perché senza mentire, in primo luogo a se stessi, non potrebbero guardarsi allo specchio.

Anna Bravo
incontro con Lo straniero





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