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Ilaria Maria Sala, a Hong Kong quest'estate

6.10.2019, Gli asini, ottobre 2019

Ventidue anni fa, in una notte monsonica, la Cina ha preso il controllo di una società semi-democratica ed aperta. Una società senza censura, con Internet libero, e l’unica città davvero cosmopolita di tutta l’Asia. Con una restituzione sancita senza chiedere l’opinione dei diretti interessati, Pechino, governata dal Partito Comunista Cinese, acquisiva la sovranità su un territorio che per un secolo e mezzo era stato governato dal Regno Unito in quanto colonia britannica. Hong Kong e la Cina comunista si incontravano per la prima volta. A metà del 1800, infatti, quello che l’imperatore Daoguang (1782-1850) della dinastia Qing (1636-1912) aveva concesso all’Inghilterra dopo aver perso la Prima Guerra dell’Oppio (1839-1842) era giusto un gruppetto di isole scarsamente abitate da famiglie di pescatori e agricoltori. Poi, nel secolo e mezzo di amministrazione britannica - relativamente positiva, soprattutto se paragonata a quello che avveniva in India, o in Africa – la città è divenuta il luogo ad altissima densità che rimane anche oggi. Questo, perché gli sconvolgimenti politici cinesi avvenuti nello stesso periodo al di là della frontiera, sono stati talmente violenti e brutali da rendere Hong Kong una colonia di elezione. Ovvero, la popolazione di Hong Kong non è una popolazione sottomessa dagli inglesi, ma composta da rifugiati e dai loro discendenti: negli anni Sessanta e Settanta, quando le politiche di Mao Zedong impazzavano, ne arrivarono un milione e mezzo. Malgrado gli obiettivi dei fotografi non riescano a staccarsene, non bisogna per questo pensare che le bandiere coloniali che si vedono alle manifestazioni di quest’estate senza pace siano un segnale di nostalgia. Si tratta di provocazione, e funziona: tanta propaganda cinese cerca la sua giustificazione nel sopruso coloniale dei tempi andati, e sventolare quella bandiera è un modo facile e di sicuro successo per mandare a quel paese Pechino. Ciò detto, sono una mezza dozzina in tutto, accompagnate da circa dieci bandiere americane, che, nello stesso modo, scioccano i cinesi detti “continentali” – e anche gli spettatori televisivi che guardano da lontano e non capiscono cosa stia accadendo.  

Queste poche frasi già lasciano presagire che la natura identitaria delle proteste di Hong Kong sia una delle chiavi principali per comprendere lo scontento profondo che si sta manifestando. E’ l’esplosione di un sentimento di estraneità e ingiustizia che è andato maturando fin dal 1997, e che non può più essere ignorato, e che pure continua ad esserlo: Pechino si era preparata a riprendere controllo su Hong Kong fin dal 1984, quando Margaret Thatcher e Deng Xiaoping si incontrarono per redigere la Dichiarazione Congiunta Sino-Britannica. Fatto questo, Pechino scelse come unici interlocutori quelli che credeva fossero i cittadini più rappresentativi dell’allora Colonia: imprenditori, e qualche fedelissimo del Partito Comunista Cinese. 

Nel 1989, quando la Cina ha represso con i carrarmati la Primavera di Pechino, Hong Kong ha vissuto un momento di presa di coscienza politica di massa: alcuni dei manifestanti odierni, con sarcasmo amaro, chiamano i macellai di Tiananmen “i padri del movimento per la democrazia di Hong Kong”.  

Da allora, Pechino ha capito che stava acquisendo un luogo il cui spirito ribelle non era stato domato dalla fuga in territorio coloniale: più di un milione di persone scesero in piazza il giorno dopo il massacro di Pechino, sotto un monsone di categoria 10 (la più alta, che porta i trasporti alla paralisi e tutti i negozi, scuole ed uffici alla chiusura per ragioni di sicurezza) per protestare contro la brutalità dei loro prossimi governanti. Da Hong Kong sono state organizzate collette e reti sotterranee per consentire agli studenti sulle liste dei ricercati di Pechino di scappare verso luoghi sicuri. Ed è dai media di Hong Kong, allora come oggi, che i crimini contro i diritti umani in Cina sono dettagliati e denunciati. Contemporaneamente, è da Hong Kong che arrivano in Cina gli aiuti più abbondanti e tempestivi ogni qualvolta una catastrofe naturale o umanitaria scuote la Cina.

Pechino ha risposto continuando a parlare con imprenditori miliardari e con qualche fedelissimo del Partito Comunista Cinese.

Quando è stato il momento di organizzare le cerimonie del passaggio di sovranità, nel 1997, gli invitati di prestigio di nuovo appartenevano solo a questo gruppo – per metà, era lo stesso che era stato prescelto dai britannici. Solo che era stato sostituito qualche fedelissimo comunista ai fedelissimi di Londra. Il primo Capo dell’Esecutivo di Hong Kong (non governatore: quello è un termine coloniale, sostituito da un termine preso dal mondo degli affari, per sottolineare, forse, che per Pechino Hong Kong, nel 1997, era la gallina dalle uova d’oro) si chiamava Tung Chee-hwa, era un armatore di seconda generazione che aveva mandato all’aria l’azienda paterna ed era stato salvato dai debiti grazie a un prestito conveniente della Banca cinese, ed era tornato ad essere milionario. E grato ai padroni entranti. Il suo discorso di inaugurazione chiese agli hongkonghesi di diventare più cinesi: venne guardato con ilarità. Nel 1997, infatti, tutti i sondaggi riportavano che la maggior parte degli hongkonghesi si sentivano “cinesi di Hong Kong” – oggi, la maggioranza invece dice di essere non cinese, ma hongkonghese. Cosa voleva dire essere “più cinesi” quando era a Hong Kong, non in Cina, che le tradizioni – religiose, linguistiche, funebri, ludiche, alimentari, educative, familiari, industriali e rurali – erano state mantenute intatte, al riparo dalla follia distruttrice di Mao Zedong? Nessuno fece granché caso a Tung Chee-hwa. Il malcontento cominciò a farsi strada. Pechino cominciò a sospettarne l’esistenza, e scelse come interlocutori imprenditori miliardari e qualche fedelissimo del Partito Comunista Cinese. 

Nel 2003, però, Hong Kong visse il primo, profondo tradimento da parte di una Cina che insisteva nel chiedere che i cittadini di Hong Kong fossero più patriottici, amanti della bandiera cinese, degli emblemi nazionali e del Partito: quando l’epidemia di SARS mieteva vittime, nel mistero medico di un virus fono ad allora sconosciuto, Pechino negò che ci fosse un’epidemia in Cina. Ossessionata dal segreto e dal controllo, lasciò che a Hong Kong si morisse senza il beneficio di informazioni scambiate da tutti i centri medici che stavano affrontando l’emergenza, e solo quando non era più possibile nascondere l’epidemia, ammise che la SARS aveva avuto il paziente zero nel Guandong. 

Attraverso epidemie e crisi politiche, il  governo di Hong Kong è stato composto, anno dopo anno, da questa elite di imprenditori e fedeli del Partito Comunista Cinese che non rappresenta nessuno oltre anon sé stessa. La legislatura locale è formata da 70 membri (dieci di più che nel 1997) che sono eletti a metà per suffragio universale, mentre l’altra metà è selezionata da grandi elettori corporativi. Il Capo dell’Esecutivo, che nomina i membri dell’esecutivo, è eletto da un gruppo di 1200 elettori, scelti da 3400 elettori scelti da Pechino. Sono per lo più imprenditori, e un numero ormai nutrito di opportunisti che sono diventati fedelissimi del Partito Comunista Cinese. Il compito di ogni Capo dell’Esecutivo è sempre stato quello di governare una città dalle solide fondamenta, e renderla pian piano più favorevole al regime comunista: forse per un eccesso di ottimismo, Pechino nel 1997 ha promesso a Hong Kong il suffragio universale, e da allora questa richiesta è ripetuta con insistenza ad ogni manifestazione, in ogni riunione delle Unioni degli studenti, in ogni campagna elettorale, in tutti i media liberi che continuano ad esistere e ad avere grande successo nella ex-Colonia britannica. Pechino, consigliata dagli imprenditori e dai fedelissimi del Partito Comunista Cinese, si era infatti convinta che nel giro di pochi anni tutti sarebbero divenuti imprenditori o fedelissimi del Partito Comunista Cinese, e quindi il suffragio universale avrebbe anche potuto essere concesso. Non ha funzionato. Una società libera come quella di Hong Kong vede con sospetto e avversione un Paese che rapisce librai, arresta avvocati, e rinchiude in campi di concentramento più di un milione di Uiguri. Pechino ha continuato a finanziare i partiti che qui vengono chiamati “pro-governo” e ad interloquire con gli imprenditori e i fedelissimi del Partito Comunista Cinese. Ma questi hanno continuato a ricevere insufficiente sostegno dalla popolazione ad ogni scrutinio per suffragio universale (la distinzione destra-sinistra continua ad avere senso a Hong Kong, ma le linee di divisione sono pro-Pechino o pro-democrazia, e solo al loro interno suddivise in partiti e personalità che potremmo definire di destra o di sinistra). L’irritazione di Pechino si esprime nell’impedire alla maggior parte dei rappresentanti dei partiti pro-democrazia di varcare il confine e recarsi in Cina. Quando vengono a Hong Kong, i rappresentanti del governo cinese si rifiutano di parlare con loro. Quindi, per scimmiottare i nuovi padroni, i membri dell’esecutivo di Hong Kong fanno lo stesso: Carrie Lam, l’attuale capa dell’esecutivo che ha causato il disastro che vediamo ora a Hong Kong, si è sempre rifiutata di parlare con chi non è d’accordo con lei, definendolo un esercizio “inutile”. Dopo il Movimento degli Ombrelli del 2014 il govenro di Hong Kong, e Lam in particolare, hanno portato avanti una campagna lenta e crudele per arrestare i leader del movimento, in particolare studenti, attivisti sindacali, e professori, espellendo dal parlamento sei di loro che erano stati eletti fra quel 50% del parlamento eletto a suffragio universale. Sono stati accusati di aver pronunciato il giuramento parlamentare in maniera insincera. Intanto, dozzine di studenti attivi nel 2014 sono stati arrestati per manifestazioni non autorizzate e per “incitazione a manifestazione non autorizzata” e perfino per “incitazione ad incitare manifestazioni non autorizzate”. Nel 2014 Lam era la numero due del governo di Hong Kong, ed era stata mandata a discutere con i rappresentanti degli studenti. Di cinque, quattro sono finiti in prigione, ma Lam se ne è andata a metà dialogo, trovando il loro atteggiamento insufficientemente rispettoso. Ora Lam ha ritirato la Legge sull'Estradizione che ha scatenato le manifestazioni, ma nel frattempo la brutalità poliziesca, i più di 1200 arresti, la spaccatura profonda e i traumi nella società di Hong Kong fanno sì che sia troppo tardi.

Dopo tre mesi, i manifestanti chiedono il suffragio universale, dicendo che non c'è altra via d'uscita: questa è una lotta per Hong Kong, per le sue libertà, la sua autonomia, la sua identità. Dicono che è la “battaglia finale” – senz’altro con un senso di drammaticità eccessivo, ma possiamo capire da dove provenga. 

Non dovrebbe dunque sorprendere nessuno che l’estate di Hong Kong sia stata insonne. 

 

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