Wir verwenden Cookies um unsere Webseite für Sie möglichst benutzerfreundlich zu gestalten. Wenn Sie fortfahren, nehmen wir an, dass Sie damit einverstanden sind.
Weitere Information finden Sie in der Datenschutzerklärung.
Uso della forza militare internazionale nell'ex-Jugoslavia?
6.7.1993, Radio radicale - Il viaggiatore leggero
E' astratta la domanda "intervento militare nell'ex-Jugoslavia - sì o no?" Alcuni interventi militari sono già in atto: quello serbo e quello croato. Nel Kosovo la situazione attuale si regge solo su una massiccia presenza militare (serba), nelle zone occupate della Croazia sono i militari dell'ONU che - parzialmente - bloccano altre attività militari, per ora latenti, e la diffusione ulteriore del conflitto in aree contigue (Macedonia, Vojvodina, Kosovo...) è sempre in agguato. Quindi di interventi militari ce ne sono sin troppi, e l'epurazione etnica in molte zone della ex-Jugoslavia avviene in forma atrocemente armata.
Sicuramente la comunità europea ed internazionale ha commesso molti errori, a cominciare dall'iniziale accondiscendenza verso alcuni focolai di repressione (Kosovo, p.es.), dall'irresponsabile istigazione - in nome dell'autodeterminazione nazionale - di alcune secessioni che si sapeva benissimo che non sarebbero potute avvenire di punto in bianco senza spargimento di sangue. Si è incoraggiata la formazione di "stati etnici", e poi un'ipotesi di cantonalizzazione etnica della Bosnia Herzegovina, che ha ulteriormente stimolato la guerra per accaparrarsi territori possibilmente estesi e contigui. Per non parlare del traffico delle armi, dell'embargo violato e del gravissimo errore politico di riconoscere nei signori della guerra le voci legittimate a parlare a nome dei loro popoli!
Quindi oggi non si è di fronte ad un idillio, ad una "tabula rasa" con tutte le opzioni teoricamente possibili, tra le quali qualcuna da preferire e qualcuna da escludere. Si è di fronte, invece, ad una esplosione di conflittualità bellica che vede le dirigenze di due popoli maggiori (i serbi ed i croati) puntare all'affermazione - anche militare - dei loro rispettivi stati nella massima estensione possibile, con una particolare aggressività della parte serba che - una volta distrutta la vecchia Jugoslavia pluri-etnica - mira esplicitamente ad una Grande Serbia che riunisca tutti i territori abitati (anche) da serbi (in Serbia, Croazia, Vojvodina, Montenegro, Kosovo, Bosnia...). Il terzo grande popolo della regione, quello albanese, disperso tra Albania, Kosovo, Macedonia, Montenegro e dintorni verrà spinto da questi eventi (oltre che dal suo proprio nazionalismo crescente) a tentare la stessa strada e forse giá tra breve sarà coinvolto in una ulteriore guerra a partire dal Kosovo. I popoli e gruppi etnici più piccoli (bosniaci, musulmani, macedoni, ungheresi, ruteni...) si vedono forzati a sottostare a questa forzata riaggregazione etnica dei Balcani, sino al limite della sottomissione totale, dell'espulsione di massa e persino del genocidio.
Ecco perché occorre una credibile autorità internazionale che sappia minacciare ed anche impiegare - accanto agli strumenti assai più importanti della diplomazia, della mediazione, della conciliazione democratica, dell'incoraggiamento civile, dell'integrazione economica, dell'informazione veritiera... - la forza militare, esattamente come avviene con la polizia sul piano interno degli Stati. Se qualcuno spadroneggia con la forza delle armi nel suo quartiere o nella sua valle, e nessuno si muove per fermarlo, in poco tempo scoppia una generale guerra per bande, in cui tutti sono obbligati ad armarsi ed a cercare di farsi valere con la forza. I più forti sono i serbi - ma non è una colpa, altri sarebbero altrettanto atroci se ne avessero la forza!
E' dunque altamente tempo di allargare il mandato, la consistenza e l'armamento delle forze dell'ONU nella ex-Jugoslavia, includendovi l'ordine - per ora - di far arrivare effettivamente gli aiuti umanitari ai loro destinatari, anche aprendosi la strada con le armi; di far cessare gli assedi alle città, anche bombardando postazioni di armamenti pesanti o tagliando vie di rifornimento di armi e di materiali agli assedianti; di impedire bombardamenti aerei, facendo rispettare il divieto di sorvolo; di garantire zone di sicurezza e di rifugio, e di impedire campi di detenzione e di tortura.
Un intervento militare di questo tipo, immaginabile solo con un mandato ed una direzione ONU alle spalle, proprio per garantire la necessaria imparzialità e caratterizzazione di "operazione di polizia internazionale", potrebbe essere anche affidato a forze NATO, magari insieme ad altre forze. Forse sarebbe sufficiente la seria minaccia di usare la forza, per ottenere una svolta sul piano militare. A volte basta che la polizia si faccia vedere effettivamente determinata, per fermare le bande.
La minaccia o l'effettuazione reale di un intervento militare hanno senso solo se non resteranno l'unico tipo di impegno internazionale: ci sarà bisogno di un forte e molteplice impegno internazionale, a cominciare da un solido e generoso programma di ricostruzione del dialogo e della democrazia. Ma se si continuasse ad escludere, per le più svariate ragioni, il ricorso alla forza internazionale, si continuerebbe a lasciare libero il campo ai più forti e meglio armati, con il rischio di sterminare i gruppi più deboli (i musulmani bosniaci oggi, altri domani), di costituire un precedente pericolosissimo in Europa, di moltiplicare le guerre nell'area e di approfondire ancora di più il fossato tra Est e Ovest, tra mondo cristiano ed Islam, tra cristiani occidentali ed orientali. Questo non deve succedere.