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Perché noi non odiamo gli italiani?
1.3.1986, autob. "minima personalia"
Percepisco che il clima in casa è diverso da quello fuori, anche nella seconda metà degli anni '50, quando si va verso gli attentati dell'autonomismo e irredentismo tirolese. So già abbastanza bene l'italiano: i genitori ci tengono che a scuola io lo studi bene, e mi avevano persino mandato all'asilo italiano. Insieme ai fratelli registro la differenza etno-linguistica tra la gente come un gioco: per strada ci mettiamo a indovinare chi è "tedesco" e chi è "italiano", e verifichiamo col saluto. Non ci si sbaglia quasi mai. Dopo i primi attentati avverto una certa differenza di tono tra mia madre (più solidale con le ragioni tirolesi) e mio padre (più preoccupato dei possibili rigurgiti nazisti). Più marcata è la differenza di toni in famiglia e fuori. Mi sento un po' insicuro se un "ciao" italiano usato in famiglia possa essere un tradimento, una dissociazione. A mia madre chiedo "perché noi non odiamo gli italiani?". Mi spiega, tra l'altro, che se è vero che i fascisti hanno licenziato mio padre nel 1938, per via delle leggi razziali, è anche vero che dopo il 1943 sono stati gli italiani a salvargli la vita: il magistrato toscano Giovanni Bigazzi, l'avvocato trentino Domenico Boni, uno sconosciuto contrabbandiere e qualcun altro. E che, viceversa, lei e i suoi genitori, perché contrari all'opzione per la Germania di Hitler, erano stati isolati nel paese. "Né tutti i tedeschi, né tutti gli italiani sono buoni o cattivi, bisogna distinguere".