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Premio a Narges Mohammadi: laudatio di Tiziana Valpiana

2.7.2009, Fondaz

I PERSIANI di Eschilo è la prima grande opera filosofica e letteraria occidentale che ci sia pervenuta.

Ad Atene, pochi anni dopo la vittoria sui persiani, i Greci rappresentano, in forma di tragedia, il dolore dei vinti. I vincitori si riconoscono negli sconfitti: totalmente estranei nel modo di vestire, nella incomprensibile lingua, nell'idea stessa di società e di comunità, li riconoscono uguali nel pianto, nel lutto, nelle passioni. Un insegnamento valido anche per noi, che non intendiamo rimanere spettatori estranei al dolore del popolo iraniano. Eschilo I Persiani traduzione di Ettore Romagnoli 

CANTO D'INGRESSO

   Tale fiore di giovani mosse

   dalle plaghe di Persia. E per essi

   tutta or piange la terra asïàna

   che nutriali, ch'or n'arde di brama.

   Ed il tempo che tanto prolungasi

   i padri e le spose

   giorno a giorno misurano, e tremano.

   che dei suoi figli la privi.

 

CORIFEO:

   Queste donne, i lor veli stracciando

   con le morbide mani, partecipi

   di tal doglia, cospargono il seno

   di lagrime amare.

 

   Con le molli querele, le spose

   persïane richiaman gli sposi

   e le nozze recenti; e lasciate

   le mollissime coltri dei talami,    voluttà di lor giovani vite,   s'addoloran con lagno perenne.   Ed anch'io dei perduti la sorte   con querela di lutto deploro.LaudatioLa lungimiranza della scelta fatta all’inizio dell’anno da parte del Comitato scientifico della Fondazione di conferire il premio Alexander Langer 2009 a Narges Mohammadi, iraniana, giornalista, vicepresidente e portavoce del Centro per la difesa dei diritti umani e Presidente del comitato esecutivo del Consiglio Nazionale della pace ci viene drammaticamente confermata da quanto sta accadendo in questi giorni, ad ogni ora, in Iran dove, nonostante la repressione, le decine di morti  e le migliaia di arresti, la sollevazione popolare potrebbe ridisegnare il futuro di questo antico e straordinario Paese, una terra magnifica dal punto di vista naturale e dallo sfarzo architettonico senza pari, ma ostaggio di ‘satrapi’ locali e ipocrisie internazionali

Dal 12 giugno, comunque andrà,  l’Iran non sarà più lo stesso.

Il Governo e i guardiani della rivoluzione hanno la forza, l'apparato poliziesco, la  protezione della guida suprema, e l’ipocrisia dell'Occidente che lancia solo troppo timidi avvertimenti contro la repressione.

Dall’altra parte c’è il popolo, i giovani, le donne, quelli che gridano “hanno rubato i nostri voti”.

Un popolo che si desta. Le strade insanguinate dell'Iran, lo sottolineano tutti i media internazionali, sono piene di donne. Donne che hanno tanta forza quanti sono i loro diritti violati. Donne che hanno poco da perdere ma tutto da conquistare.

Neda, vittima del sabato nero di Teheran, gli occhi sgranati, il corpo insanguinato, ne è il simbolo.

Il laccio verde al polso, in pochi giorni, è diventato segno di riconoscimento.

Simboli e segni che scuotono le nostre coscienze.

 

Trenta anni fa il popolo iraniano ha combattuto una lotta di liberazione  per demolire un sistema corrotto, oppressivo, che imponeva una modernizzazione forzata. Ma la rivoluzione tradita, ha dato vita a un regime teocratico e illiberale che ancora reprime chi da troppi anni ormai sogna e lotta per un Iran democratico e laico. Esasperato da dittature, autoritarismi, violenze, il popolo iraniano aspira, come qualunque altro popolo, alla libertà. Non accetta più uno stato che controlla le vite private, il modo di vestire e di pensare, che viola i diritti umani in nome dell'islam, e usa l'islam per attaccare i diritti fondamentali.

E’ certo difficile per noi dall’esterno decifrare la situazione complessa di un paese straniero senza rischiare la semplificazione o la banalizzazione, ma non può esserci alcun malinteso "rispetto delle altre culture" che ci consenta di  astenerci dal giudicare chi non rispetta i diritti universali e nessun “principio di non interferenza” può trasformarsi nella condiscendenza verso un governo antidemocratico e violento.

Non ci intromettiamo certo nei fatti interni di un altro paese se affermiamo con certezza da quale parte stiamo: quella di chi muore per aver reclamato il diritto di parola.

E intendiamo concretamente testimoniare a questi coraggiosi che, nonostante il regime tenti di isolarli tagliando le comunicazioni, confinando i giornalisti stranieri e arrestando quelli iraniani, non sono soli.

La scelta della Fondazione di portare la propria attenzione in questo momento sull’Iran è certo quella che avrebbe fatto Alex, che avrebbe sentito come un dovere morale irrinunciabile spendersi in prima persona  per l’Iran libero. Per un Iran, come dice Ramin Jahanbegloo, docente di Storia contemporanea dell’Iran a Toronto, autore di ‘Leggere Gandhi a Teheran’, che contro un potere fondamentalista e violento, riconosce nella nonviolenza la strada da percorrere. 

Una strada sulla quale da tempo si sono incamminate Shirin, Narges e tante altre donne e uomini.

Premiare Narges significa premiare in lei chi porta avanti con coraggio una missione rischiosa contro l’oscurantismo e l’integralismo, contro le disuguaglianze e le discriminazioni di fronte alla legge, contro le prevaricazioni del potere.

E’ stata Shirin Ebadi, Premio Nobel per la Pace 2003, a suggerire  questo strumento di solidarietà e cooperazione internazionale: trovare occasioni per premiare donne iraniane distintesi nella lotta per i diritti umani e per i diritti delle donne, in un Paese in cui i militanti politici sono perseguitati e le donne non hanno diritti; di ‘adottare’ con un riconoscimento attiviste dei diritti umani per sottrarle così all’anonimato, alla repressione e all’arbitrio delle autorità governative e religiose. Perchè, come abbiamo potuto constatare anche in queste ultime drammatiche settimane, il regime teme più di tutto quelle che chiama ‘interferenze negli affari interni della Repubblica Islamica’ .  

Shirin sa che nemmeno il Nobel basta a proteggerla, più volte il regime ha attaccato e cercato di distruggere il suo lavoro e la sua persona, le sue reti e i suoi progetti. Tuttavia, anche a Merano nello scorso giugno, in occasione della Prima edizione del Congresso Mondiale dei Musei della Donna, ha sottolineato come i riconoscimenti internazionali possano contribuire a difendere dai soprusi e dalle angherie, che si spingono fino alla ‘sparizione’ e alla caduta nell’oblio di nomi e persone, se conosciute solo da uno stretto entourage familiare e locale impossibilitato a difenderli.

E quando a settembre, in viaggio alla scoperta del meraviglioso Iran e delle sorprendenti donne e femministe iraniane, conosciute grazie all’entusiasta e instancabile Sabri Najafi, iraniana di Monguelfo, referente in Italia per la Campagna un milione di firme, abbiamo chiesto che cosa potevamo fare, la risposta è stata ancora quella: far uscire dall’ombra la difficile situazione che, le donne in particolare, lì vivono, far conoscere i loro problemi, i loro nomi, non lasciarle sole.

La prima organizzazione in Italia a raccogliere con generosità l’appello di Ebadi è stata Human Rights International di Bolzano che per la Giornata dei Diritti umani 2008 attendeva per la consegna del Premio Nasrin Sathoodeh, avvocata impegnata per la difesa dei bambini maltrattati e, unico Paese nel mondo nel 2008, condannati a morte e dei diritti di uomini  e donne, soprattutto di quelle coinvolte nella “Campagna un milione di firme” (che coinvolge donne di ogni classe sociale per raccogliere un milione di firme contro le leggi discriminatorie nei loro confronti). Il premio è stato ritirato il 12 dicembre dal marito, in quanto a lei, proprio mentre in aeroporto a Teheran si accingeva ad imbarcarsi per l'Italia, è stato sequestrato il passaporto.

Negli ultimi anni, l'Iran ha impedito l’espatrio a diverse persone impegnate nella difesa dei diritti umani e dei diritti delle donne: vorrei ricordare i nomi dell’ esponente dei diritti delle donne e giornalista Parvin Ardalan, della già citata avvocata Nasrin Sotoudeh, di Mansoureh Shojaee, instancabile animatrice della Biblioteca delle donne di Teheran che per dedicarsi a questo progetto ha lasciato la Biblioteca nazionale ed è ora accusata di “attentato alla sicurezza dello stato” (un’accusa tanto generica quanto frequente di cui Shirin Ebadi mette in evidenza il ridicolo e l’ipocrisia: “Se mi batto contro la poligamia e rivendico gli stessi diritti di mio fratello, il nemico ci attaccherà?”), da ultime la stessa Narges Mohammadi e Soraya Izadpanah cui l’8 Maggio è stato impedito l'imbarco per il Guatemala per partecipare per il Consiglio della pace a una conferenza, e tante altre...

Tutti episodi che hanno reso per noi ancora più inderogabile l’appello di Shirin Ebadi a dare una protezione a queste donne, così da spingere chi vi parla a iniziare un percorso di conoscenza e approfondimento, di riflessione su una realtà diversa, incontri con donne islamiche e intellettuali iraniane, un ciclo di film di registe o su donne ‘perse’, scoprendo ancora una volta nella differenza la nostra profonda uguaglianza di donne. E a chiedere a Ebadi un nome di donna, una tra tante, una di tante, una per tante, da candidare per il Premio ‘Alexander Langer 2009, un premio modesto ma preziosissimo, perchè somma il nome di Alex e la grandissima forza di tutte e tutti coloro che lo hanno ricevuto, persone spesso sconosciute prima di essere portate alla notorietà dalla Fondazione e poi divenute testimoni riconosciuti e apprezzati ovunque.

Dopo essersi documentata sulla figura e sul lavoro politico di Alexander Langer e sui precedenti premiati, Shirin Ebadi nel mese di settembre a Mantova ci ha segnalato direttamente Narges MOHAMMADI, sua stretta collaboratrice.

Quando abbiamo iniziato l’istruttoria per la candidatura, Narges non era nota fuori dall’Iran. Il suo nome è comparso sulla stampa internazionale per la prima volta quando il 21 dicembre scorso le autorità iraniane hanno chiuso il Centro per la difesa dei diritti umani e Narges,  vice direttrice e portavoce presente al momento dell’irruzione, ha denunciato alla stampa internazionale il gravissimo atto di intimidazione.

Narges non ha ancora quarant’anni: una donna giovane, capace di guardare al futuro, ma con tanta storia sulle spalle.

La sua storia personale si intreccia non solo con la storia tormentata dell’Iran di questi ultimi decenni, ma con tutta la profonda e straordinaria cultura persiana e con la capacità millenaria di adattamento a condizioni avverse: dalle asperità naturali del territorio e del clima, all’infinita serie di dinastie straniere che l’hanno dominato. Mentre contendeva giardini al deserto -i magnifici paradisi- il popolo iraniano per non soccombere alla sottomissione ha sviluppato un’eccezionale creatività, in campo artistico, culturale, architettonico ma anche, ed è la biografia di Narges, tessendo con competenza relazioni sociali... Le tirannie possono esistere solo se il tessuto sociale si sfrangia, se la società si disgrega, se ognuno teme di dire una parola di troppo, se le relazioni familiari sono sconvolte, i rapporti tra vicini avvelenati dal sospetto della delazione. Incontrarsi, stringere relazioni, tessere legami tra persone e generazioni è un modo tutto femminile per opporsi alle dittature e, forse anche per impedire questa tessitura sociale, sin dall’insediamento il Governo della Repubblica Islamica ha limitato la libertà femminile, calpestando i diritti più elementari e varando leggi apertamente discriminatorie. Allora come oggi, il regime semina paura controllando il corpo e la mente delle donne, considerate ‘minori’ a vita, senza diritto di disporre di se stesse, quotidianamente minacciate, imprigionate, arrestate, lapidate, straziate per paralizzare col terrore l’intera società.

E’ impossibile, dice Ebadi, «governare in modo tradizionale, patriarcale e autoritario persone coscienti dei propri diritti».

E per le donne cultura e coscienza, cioè riscatto, passano attraverso la scuola e l’università, l’accesso al lavoro e alla società. In Iran bambine e ragazze anche degli strati poveri e tradizionalisti vanno a scuola e si scoprono cittadine, oltre il 65% dei laureati sono donne, protagoniste all'università, nelle professioni, sulla scena culturale, nel cinema, nel giornalismo, nelle innumerevoli organizzazioni sociali.

Con la cultura e la percezione dei diritti negati, il velo ogni giorno scivola un po’ più indietro: un atto preciso di ribellione verso chi, in nome di un Dio, umilia l’essere donna...

C’è una caratteristica che salta agli occhi di chiunque vada in Iran: la bellezza delle sue donne. Le si vorrebbe nascondere, celare e imbrigliare sotto mantelli neri, ma questi sciami corvini che volteggiano, questi mantelli che si gonfiano al vento le rendono ancora più visibili, diventano, invece che una cancellazione, una sottolineatura. Una ciocca che sfugge dal velo, le labbra sempre sapientemente dipinte, le sopracciglia perfettamente disegnate sono altrettanti atti simbolici con cui le iraniane si oppongono alla battaglia contro il loro corpo. Una battaglia persa, perchè si può imporre con i manganelli e con i guardiani della moralità di coprirsi, ma si è costretti a lasciare libera la parte più pericolosa, più fiera, più ribelle, più vera, più indomita delle donne persiane: gli occhi. Purtroppo oggi non potremo vedere gli occhi di Narges, ma li possiamo immaginare fieri, penetranti, lucenti per quella sete di giustizia che l’ha indotta fin da giovanissima a resistere a un’ideologia che punta ad imporre, con la violenza, il punto di vista di una minoranza; occhi determinati di testimone coraggiosa e infaticabile della lotta per la democrazia, le libertà civili e politiche e per la Pace; occhi indomabili di chi ha scelto la nonviolenza e un'idea di democrazia partecipata che tiene conto del sentimento religioso, ma non lo identifica con il modello teocratico che domina il paese. 

I ripetuti arresti suoi e del marito l’hanno spinta ad aggiungere ai suoi obiettivi la difesa dei detenuti, in particolare per reati d’opinione in violazione dei “più elementari principi del diritto, incarcerando illegalmente, senza precisare l’accusa, senza prove, senza condanna, senza che gli avvocati difensori possano aver accesso ai fascicoli dei propri clienti.” Da qui il suo impegno primario nel Centro fondato da Shirin Ebadi che fornisce difesa gratuita a imputati politici, cercando di proteggerne le famiglie e denunciando sistematicamente le violazioni dei Diritti umani.

Il momento in cui Narges Mohammadi è diventata Presidente del  Consiglio Nazionale della pace e lo sfondo politico del suo primo anno di lavoro sono, se possibile, ancor più difficili del solito, ma lei ritiene fondamentale far conoscere al mondo l’esistenza di “un altro Iran”  (ci credete tutti terroristi?) “un altro Iran” che si oppone alla violenza per la costruzione della Pace e s’impegna contro ogni logica militarista o terroristica, attraverso rapporti internazionali basati sul rispetto e l’amicizia. Il Consiglio della Pace lavora anche per scongiurare il pericolo di azioni armate contro l’Iran, che non risolverebbero la  ‘questione nucleare’ e aggraverebbero la  situazione nel Golfo Persico e la condizione interna.

 

Nella vita di Narges ci sono le lotte, l’impegno, la politica ma anche l’amore di un compagno che condivide con lei passioni e sogni e la felicità, grandissima nonostante la preoccupazione per l’oggi e per il loro domani in un paese del quale è impossibile individuare l’evoluzione, per la nascita dei due gemellini, per i quali vorrebbero un paese diverso.

 

Alla domanda se la lotta per i diritti umani valesse tanti anni di prigione, Narges risponde: “In Iran non c’è bisogno di battersi per i diritti umani per finire in prigione. Molti insegnanti e operai sono incarcerati perchè rivendicano i propri diritti sul lavoro, molti studenti per il diritto allo studio.”  

Una risposta che sarebbe piaciuta ad Alex per la capacità di mettersi nei panni altrui e la determinazione nel minimizzare il proprio impegno  personale. Alex avrebbe anche condiviso la molteplicità del suo impegno, perfino il suo amore per la montagna.... La Fondazione, quindi, intende onorare Narges collegando il suo nome a quello dell’Europarlamentare che ha sacrificato la vita, fino a consumarla, per costruire ponti tra persone e popoli. Un atto di riconoscimento e riconoscenza a una donna, rappresentante di tutti coloro che in Iran resistono e che, speriamo, possa divenire per lei una sorta di ombrello protettivo che in qualche modo la metta al riparo dal diluvio delle ire del regime contro chi osa ribellarsi al ‘disordine’ costituito.
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