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RE 2009-giardino dell'Arca (18) Spazio all'integrazione! (12)

Anna Bravo e Anna Maria Bruzzone: In guerra senz'armi, Laterza 1995

1.12.2020, Laterza 1995-2000

1. Vecchio e nuovo nelle guerre
Negli ultimi decenni, un numero sempre maggiore di paesi ha aperto le forze
armate alle donne; è forse il simbolo più vistoso della crisi che ha
investito nel mondo occidentale il sistema di divisione dei ruoli secondo il
genere sessuale. Ma quando, nel gennaio '91, una delle trentamila donne
soldato impegnate nella guerra del Golfo viene catturata dagli iracheni,
stampa e televisioni reagiscono in tutto il mondo con emozione e stupore.
Quella prigionia inquieta, evoca sofferenze e pericoli aggiuntivi, in primo
luogo quello dello stupro, fantasma perenne dell'immaginario maschile ma
anche eventualità concreta, come la gravidanza che potrebbe derivarne.
Nonostante il grande rilievo dato dai media alla presenza femminile nel
Golfo, sembra che solo in quel momento si scopra che ha implicazioni
intollerabili: un carcere nemico non è posto per una donna. Eppure cadere
prigionieri è una delle conseguenze più ovvie del fare la guerra, ed e'
già successo a molte - basta pensare alle deportate politiche e alle
combattenti dei movimenti di liberazione antinazisti.
L'allarme di fronte alla prigionia di una giovane donna assomiglia per certi
aspetti alla reazione con cui durante le due guerre mondiali si guarda ai
nuovi lavori femminili. E' il fenomeno cui si richiamano prioritariamente le
tesi che vedono nelle guerre un potente acceleratore della modernizzazione;
e con buoni argomenti.
Nella prima, le donne entrano a milioni in settori prima loro preclusi,
innanzi tutto nell'industria bellica, a milioni afferrano le opportunità
inedite proposte dall'amministrazione pubblica, dai servizi, dalle stesse
forze armate, lavorando sia sul territorio metropolitano con compiti di
assistenza e sussistenza, sia al fronte come infermiere, guidatrici di
ambulanze, ausiliarie militari.
E' una rottura drastica e repentina della divisione sessuale del lavoro che
con modalità diverse riguarda tutti i paesi belligeranti e porta non solo
gruppi, ma masse di donne fuori da ruoli e settori classificati come
femminili, rendendole per la prima volta visibili con questa ampiezza in un
ambito non domestico. Meraviglia e preoccupazione sono forti, specialmente
in realtà come quella italiana, dove la tradizione culturale e religiosa
vede nel lavoro fuori casa una minaccia alla purezza femminile e
all'integrità' del nucleo familiare.
Insieme alla mancanza di precedenti, ad acuire l'inquietudine è la crisi
complessiva che si innesca con la prima guerra, il crollo di un intero
mondo, dei suoi simboli, delle sue chiavi di interpretazione del reale.
Ma appunto per questo è significativo che nella seconda si abbiano reazioni
simili: sulla stampa tornano, come fosse la prima volta, le immagini di
postine, tranviere, operaie dell'industria pesante, e tornano gli
interrogativi sulle loro capacità, i fantasmi di incidenti dovuti alla loro
inadeguatezza ai nuovi impieghi. Lo stereotipo che vuole le donne
incompatibili con gli spazi e le mansioni di volta in volta definiti
maschili si dimostra tenace.
Si reggono su questa continuità alcuni tratti delle politiche del lavoro
che, pur in presenza di differenze radicali su altri piani, si tramandano
dalla prima alla seconda guerra: salari spesso migliori di quelli dei
settori "femminili", ma quasi sempre lontani da quelli maschili; governi e
imprese riluttanti a creare nidi, asili per la prima infanzia e camere di
allattamento per le madri, e attenti a presentarli come misure temporanee;
carattere a termine di molti nuovi lavori, cui le donne sono chiamate con
una esplicita funzione di rimpiazzo dei maschi assenti, in alcuni casi
addirittura sostitute ad personam. E' l'aspetto basilare.
Rilevarlo non equivale a minimizzare gli aspetti di rottura, ne’a sostenere
che finita l'emergenza le cose tornano uguali a se stesse. Al contrario.
Proprio questa gestione del lavoro femminile indica che non si tratta solo
di attuare strategie economiche, ma di ammortizzare una sfida, di tenere o
di rimettere le donne al loro posto. Varia il modo di farlo e variano le
reazioni sociali e istituzionali.
Durante la prima guerra, nella avanzata Torino la gente comune non trova
niente da ridire se un vecchio o un ex cameriere si trasformano in operai,
ma infierisce contro le donne accusate di aver preso un posto dove qualcun
altro avrebbe potuto imboscarsi (1). Nel dopoguerra alla rapidissima
espulsione dalle fabbriche si accompagnano ovunque attacchi scomposti contro
la "donna nuova" che a partire da inizio secolo si è affacciata sulla scena
culturale e lavorativa (2).
Alla fine della seconda guerra, la smobilitazione è più contenuta e minore
l'ostilità' verso figure femminili inedite. Non si tratta solo di un quadro
politico diverso, ma della maggiore capacità di difendersi: nell'estate del
'45 le operaie torinesi reagiscono alla prospettiva di un'indennità' di
contingenza minore di quella maschile invadendo l'Unione industriali e
imponendo la medesima cifra per donne e uomini capifamiglia (3). Che
all'epoca il fatto resti isolato non lo rende meno importante come segnale
di mutamento, in particolare della crescita di politicizzazione che
nell'Italia del '43-'45 tocca anche le donne.
Ma il quadro è molto meno lineare di quello proposto dalle interpretazioni
delle guerre come pietre miliari che porterebbero a passi avanti
irreversibili verso la modernità.
Per il lavoro di mercato, ne’l'una ne’l'altra delle due guerre mondiali
inducono a un riesame concettuale e a un riassetto stabile della divisione
sessuale del lavoro; più modestamente, provocano uno spostamento
provvisorio dei suoi confini, imposto da un cambiamento dei ruoli maschili
(dalla sfera produttiva alla sfera militare) anziché da una ridiscussione
di quelli femminili (4).
Per quel che riguarda la conquista dei diritti politici, epilogo classico
delle guerre e delle lotte di liberazione nazionale, bisogna interrogarsi
innanzi tutto sulle sue radici: il voto nel '18 alle donne britanniche, per
esempio, è frutto dell'impegno pluridecennale delle suffragiste non meno
che della necessità di dare riconoscimento alla mobilitazione femminile nel
fronte interno, e un discorso simile vale per il voto riconosciuto alle
italiane e alle francesi alla fine della seconda guerra mondiale. Bisogna
interrogarsi anche sui limiti di quelle conquiste - l'acquisizione di uguali
diritti formali può non intaccare affatto la marginalità politica - e
sulla loro possibile reversibilità: in Algeria, con il codice elettorale
del 1987, non integralista, si è tentato di dare agli uomini la
possibilità di votare a nome delle donne.
Nel nuovo c'e' molto del vecchio. Vale per il lavoro in settori maschili,
come per l'ingresso delle donne nei movimenti di liberazione e nelle truppe
regolari. Vale per le guerre del passato ma anche per la contemporaneità,
sia di guerra sia di pace, nei limiti in cui e' possibile oggi distinguere
fra il tempo dell'una e dell'altra.
La vicenda degli Stati Uniti insegna. Nell'apertura dell'esercito alle donne
ha certo pesato la lotta delle organizzazioni femminili/femministe liberal
per la parità in tutti i campi. Ma sono stati determinanti due obiettivi di
politica militare messi a punto negli anni Settanta: controbilanciare la
presenza crescente di giovani neri sventando la prospettiva di un esercito
troppo di colore; sostenere il volontariato, prevenendo tensioni popolari
ricalcate su quelle contro la guerra del Vietnam e diffondendo un'immagine
del servizio militare come mestiere, e mestiere non più "sporco" di altri
(5). Non e' un caso che la divisione sessuale del lavoro si sia prolungata
all'interno delle forze armate e al fronte, mentre, non diversamente che
nelle guerre mondiali, al mutamento dei ruoli lavorativi extrafamiliari
delle donne non ha corrisposto alcuna ristrutturazione stabile dei compiti e
delle responsabilità nello spazio domestico. Durante la guerra del Golfo,
la cura dei bambini e della casa delle combattenti e' ricaduta per lo più
su altre donne, molto di rado su uomini, e in ogni modo come fatto
temporaneo ed eccezionale.
Nei processi di trasformazione la compresenza di vecchio e nuovo e' la
regola. Ma in questo caso si tratta di un carattere fondante: e' nello
spazio domestico che risiede il primo terreno di organizzazione della
disparità. Se il nuovo si ferma alla sua soglia, i mutamenti economici e
lavorativi rischiano di non intaccare nella sostanza i rapporti di genere;
le conquiste politiche di essere vanificate. E' difficile preservare uno
spazio politico se non si può mettere contemporaneamente in questione
quello culturale e simbolico.
Eppure la presenza femminile ha innescato conflitti solo in parte previsti e
prevedibili. Due esempi fra molti: nell'esercito americano le donne hanno
aperto il contenzioso delle differenti opportunità di carriera e delle
molestie sessuali; durante la guerra del Golfo, altre hanno fatto leva sulla
carica innovativa legata alla figura delle combattenti per mettere in
discussione la propria, come le saudite che hanno manifestato alla guida di
automobili contro il divieto di farlo imposto dall'interpretazione nazionale
della legge coranica.
E' un fatto tanto più importante se si pensa che in tutta l'area
mediorientale le guerre hanno sfrenatamente rafforzato l'enfasi sulla
maternità come valore e come servizio principale che le donne devono
rendere alla nazione; lo stesso avviene nella ex Jugoslavia, dove la
maternità e' diventata strumento e bersaglio delle strategie di pulizia
etnica. In questi casi c'e' davvero da augurarsi che i cambiamenti siano
instabili; e c'e' da chiedersi se il dibattito sulla irreversibilità o meno
delle trasformazioni non sia troppo vincolato alla storia dell'occidente e
alla nostra vecchia concezione del cambiamento come invariabilmente
progressivo. Applicarla alle vicende delle donne, dove non e' affatto chiaro
cosa rappresenti un miglioramento e cosa un peggioramento, e non lo e'
affatto come misurarli (6), sarebbe una leggerezza.
A noi pare che raramente una maggiore libertà femminile sia stata il
sottoprodotto di processi che ne' la perseguivano ne' la prevedevano. Questi
possono contribuire ad allargare la zona neutra in cui donne e uomini
operano in termini relativamente interscambiabili; possono dilatare lo
spazio d'azione e i compiti femminili, renderli più visibili, metterli in
valore - ma come fatto a termine. Difficilmente ridefiniscono i ruoli
maschili spostandoli verso la domesticità e la cura.
Se si guarda alla storia del novecento, l'impressione e' che per quanto
riguarda i rapporti di genere i risultati più importanti siano legati al
tempo di pace, o quantomeno a forme di lotta poco militarizzate. L'esempio
più vicino nel tempo viene dalla prima fase dell'Intifada, in cui l'impegno
per l'autonomia sociale e produttiva apre spazi e sollecita iniziative delle
donne; mentre il predominio dell'aspetto armato a partire dal '90-'91, con
l'avvitamento nella spirale strage-reazione-repressione-vendetta-nuova
strage, ha tolto loro visibilità, respiro, forse consapevolezza (7).
*
2.  Donne e uomini
Fare del nuovo una parentesi anziché un punto di partenza e' stata la
strategia generale per contenere gli effetti disordinanti delle guerre.
Almeno potenzialmente, le trasformazioni minacciano infatti sia i rapporti
di genere sia le costruzioni simboliche del maschile e del femminile, a
partire da quella che associa le donne al privato e gli uomini alla sfera
pubblica del lavoro e della politica.
Nel caso delle donne soldato, si direbbe che le preoccupazioni nascano dal
loro distacco dalla casa non meno che dal loro contatto con il nemico. Nira
Yuval-Davis (8) ricorda l'intervista radiofonica di un padre inglese che,
dovendo occuparsi di due bambini piccoli dopo la partenza della moglie per
il Golfo, confessava il suo sgomento per la mole di lavoro e formulava la
calda speranza che lei rientrasse al più presto e se ne facesse nuovamente
carico. Forse una donna capace di combattere e insieme disponibile a tornare
alla domesticità può essere la versione postmoderna dell'emancipata,
sempre titolare di un doppio lavoro, anche se il secondo e' in questo caso
radicalmente diverso da quello produttivo.
Altrettanto persistente si e' dimostrato lo stereotipo che identifica la
guerra con il maschile e la pace con il femminile. Al punto che, passate le
emergenze che l'hanno contraddetto, ha finito spesso per riaffermarsi, sia
pure in versione aggiornata: sì alle donne soldato, per esempio, ma
protette dalla contiguità con il nemico e assegnate a settori e funzioni
che non creino ansie di tutela, rivalità e controllo negli uomini.
C'e' da stupirsi, ma non troppo. Più che a dar conto di quanto donne e
uomini fanno, una costruzione simbolica serve a convalidare un assetto di
norme e di immagini mentali: in questo caso, un assetto costitutivo della
divisione dei ruoli fra donne e uomini e del rapporto individuo/Stato.
A dispetto degli enormi cambiamenti nei rapporti fra i generi e nella
soggettività femminile, da più parti si insiste tuttora nell'aspettarsi,
quasi nell'esigere dalle donne in quanto tali, particolari competenze e
assunzioni di responsabilità in tema di pace (9). Fra le molte che se ne
sono fatte carico, alcune hanno agito appunto in nome di una radicale
estraneità di genere alla guerra; e le donne in nero, cui si deve se in
questi anni il dissenso femminile e' stato portato nelle strade e davanti a
sedi diplomatiche e militari, hanno scelto deliberatamente i simboli
classici del lutto e della testimonianza silenziosa. Ma il rischio, ha
notato Lea Melandri, e' "di riprodurre una parte gia' assegnata: quella di
una fisicita' senza parole, che si e' voluta immobile nel tempo, a custodire
gli eventi dell'esperienza umana che la storia ha escluso da se': la nascita
e la morte" (10). Quasi una riedizione del tradizionale pianto materno di
fronte alle rovine della guerra.
Storicamente, sembra persino ovvio ricordarlo, la separazione non e' invece
mai stata netta. Nonostante le molte manifestazioni antibelliciste cui hanno
dato vita, nella loro maggioranza le donne hanno lavorato sostenendo la
guerra, ne hanno tollerato la violenza per rassegnazione, ma anche per
convinzione, spesso sotto le insegne della maternita'. A volte hanno preso
le armi; sempre hanno offerto un retroterra materiale e morale a figli,
mariti, fratelli, compagni; sempre hanno riparato ai guasti della guerra, o
si sono sforzate di farlo.
Non e' solo effetto dell'identificazione con il destino maschile o della
propaganda - sebbene nessun governo abbia mostrato di ignorare che per
impadronirsi dei corpi e dei cuori dei soldati bisogna prima conquistare,
quanto meno neutralizzare, le donne. Il punto e' che, in mezzo a sofferenze
e rinunce, dalla guerra nascono nuove forme di autoaffermazione: maternita'
e lavoro femminile sono promossi a componente decisiva dello sforzo
nazionale, la funzione simbolica della donna viene esaltata come contraltare
piu' che mai prezioso al mondo della violenza. Ne nasce anche, almeno per
alcune, la possibilita' di guadagni economici, di avventure e vantaggi
personali. Di piu': singole donne possono trovarsi, per scelta, necessita' o
caso, a trasmettere informazioni e fare sabotaggi, a guidare un'azione
armata, salvare e uccidere, torturare e proteggere; e a potenziare con il
proprio esempio le fantasie aggressive o eroico-romantiche di altre, vissute
abitualmente per la interposta persona dell'uomo. A dispetto di recenti
speranze e di antiche retoriche, nessun dono di nascita e nessuna eredita'
storica hanno finora immunizzato le donne dall'orgoglio di condividere
esperienze fondate su categorie da cui nella normalita' sono state escluse
come gloria, onore, virtu' civile; ne' hanno loro impedito di combattere con
vecchie e nuove armi (11).
Vuol dire allora che scegliere la pace puo' dimostrarsi, anziche' l'adesione
irriflessa a uno stereotipo, una sua interpretazione creativa, e questo
libro vorrebbe indicarne alcune espressioni. Vuol dire anche chiedersi se le
combattenti in armi manifestino o meno diversita' riconoscibili nel modo di
vivere la guerra, per esempio una resistenza all'astrazione del pensiero
militarista e alla riduzione del nemico a alieno, mostro, non uomo. In
mancanza di certezze, si puo' almeno ribadire che le motivazioni e le
esperienze formano un mosaico cosi' complicato da non sopportare
generalizzazioni.
Ma e' cosi' per la stessa esperienza maschile. Assegnarla in toto alla
guerra e' altrettanto meccanico che identificare donne e pace. Solo una
parte degli uomini fa il soldato, di questi solo una parte combatte; e non
tutti sono affetti dal virus militarista. Diversamente, come spiegare il
bisogno della leva obbligatoria, come spiegare le renitenze di massa, gli
innumerevoli processi - centinaia di migliaia nell'Italia del '15-'18 - per
diserzione, rifiuto di obbedienza, abbandono del posto?
Come hanno rilevato per primi alcuni studi ormai classici sulla grande
guerra, a intaccare il bellicismo e' la stessa fisionomia che puo' assumere
la conflittualita' moderna, con il suo tempo interminabile, il suo carattere
di meccanismo selvaggio, la dimensione di massa della morte. Nel '14-'18 per
molti volontari di classe media scoprire che la guerra e' una copia
mostruosa della vita industrializzata mette la parola fine a qualsiasi
illusione romantica; a molti operai e contadini la condizione di soldato
appariva gia' in partenza un insieme di mansioni pesanti, sporche e
mortalmente pericolose comandate da un caposquadra in divisa (12).
L'immagine della guerra come trionfo della mascolinita' ne viene incrinata a
fondo.
Che alla guerra si leghino il piacere della distruzione e lo stupore
complice di fronte a manifestazioni di potenza terribili e' un dato di fatto
(13). Ma sono molti i comportamenti che lo contraddicono, ispirandosi invece
al modello del guerriero compassionevole, capace di contenere la violenza,
di non infierire sul nemico, di riconoscere il valore piu' alto non
nell'uccidere, ma nel morire per gli altri.
Raramente gli altri sono la nazione o i civili. Piu' la guerra mostra il suo
volto, piu' la fedelta' del soldato si concentra sui compagni, e
precisamente su quelli fra loro che gli sono vicini: si combatte per non
lasciarli soli, per aiutarli, se possibile per salvarli. Delle otto medaglie
ottenute da un reparto di marines nel 1944, sei riguardavano uomini che si
erano buttati a coprire le granate con il proprio corpo per proteggere i
compagni dallo scoppio; cosi' tutti e cinque i marines neri decorati di
medaglia d'onore in Vietnam (14). E' il culmine di una solidarieta' che puo'
venire da modelli precedenti, ma che per lo piu' nasce dall'interno stesso
della guerra, dove la sofferenza e il rischio patiti a lungo e fianco a
fianco uniscono come forse mai nella vita civile. I tanti episodi di
fraternizzazione indicano che questo senso di comunanza ha spesso scavalcato
gli schieramenti contrapposti.
Non solo: per un singolare paradosso, e' il soldato, non l'uomo di pace, a
imparare per primo a farsi carico del suo simile, sostituendo alla "virtu'
eroica" del combattimento quella che Todorov definisce virtu' quotidiana
della cura (15). Significa misurarsi con l'arte di ascoltare e di parlare,
di palesare uno stato d'animo o di nasconderlo se si sa che puo' ferire o
abbattere; significa badare al corpo dell'altro, toccarlo, medicarlo,
tenerlo vicino. La guerra e' forse l'unica occasione in cui giovani maschi
sperimentano fra loro un lavoro di cura simile a quello svolto dalle donne,
o riservato a figure professionali come medici, infermieri, psicologi.
Non e' un dato incompatibile con il bellicismo, spesso ne e' anzi una
componente; ma puo' portare anche alla sua negazione. Ne fa fede
l'ambivalenza con cui lo guardano i comandanti militari, ora facendo della
solidarieta' di plotone un mito (16), ora temendola come risorsa per
comportamenti antagonisti.
Che questo aspetto delle relazioni tra uomini sia stato incapsulato nella
cifra dell'emergenza e nella categoria di cameratismo non ha niente di
strano. La cura e' cosi' rigidamente associata alle donne che per definire
il comportamento dell'uomo sollecito non si trovano altro che termini come
materno o femminile. E se nel primo caso puo' agire il fascino dell'analogia
eroicistica fra il sacrificio del soldato e quello della madre,
un'identificazione con il femminile come "piccola" manutenzione della vita
parrebbe devirilizzante, e dunque dannosa per la restaurazione dei rapporti
di genere. Anche l'esperienza maschile della cura e' stata cosi' archiviata
come fatto a termine, mentre il suo potenziale di critica alla polarita' fra
immagini del maschile e del femminile restava inesplorato.
Ma oggi, primavera duemila, ci sembra che alcuni aspetti del rapporto
donne/uomini/guerra siano investiti pesantemente dall'effetto combinato
delle trasformazioni tecnologiche e dei nuovi modelli di conflitto via via
emersi dopo il crollo del muro di Berlino, in particolare quello
sperimentato durante la guerra Nato/Serbia del marzo-giugno 1999. In questo
caso, terra e cielo sono stati teatro di due guerre diverse. Sul territorio,
uno scontro di tipo tradizionale fra l'Uck, (Esercito di liberazione del
Kosovo) e le truppe serbe, che hanno sistematicamente usato la violenza
sessuale come strumento della "pulizia etnica": qui le donne sono comparse
essenzialmente come vittime, e in qualche caso come militanti della
guerriglia nazionalista. Il cielo ha conosciuto invece una guerra
tecnologica fatta esclusivamente di incursioni aeree su Serbia e Kosovo e di
controffensive serbe: nessuna contiguita' con il nemico, crucialita' delle
conoscenze tecniche, peso ridotto del fattore forza fisica. Mentre essere
uomo o donna risultava una variabile meno rilevante, l'assenza di scontri
ravvicinati e di insediamenti militari Nato in zona di guerra, il dislivello
tecnico fra i contendenti e la brevita' del conflitto hanno cancellato una
delle condizioni-base su cui si e' storicamente costruita la solidarieta'
fra compagni (ma anche la fraternizzazione con il nemico). Sebbene nella
discussione sulla guerra del Kosovo di rado sia entrata una prospettiva di
genere, e' probabile che ne escano ulteriormente modificati sia il modello
maschile del combattente, in molti conflitti sempre piu' simile a un tecnico
che a un soldato, sia le funzioni delle donne nelle forze armate.
3. Con le armi e senza le armi
La seconda guerra mondiale e' un laboratorio di sentimenti e comportamenti
contrastanti. Forse e' particolarmente vero per l'Italia, dove il
rovesciamento delle alleanze e la guerra civile investono tradizioni
culturali, convinzioni politiche, fedi religiose, disegnando uno scenario
che cambia radicalmente nel tempo e nello spazio. Il discorso riguarda gli
uomini, che fra il '43 e il '45 danno vita a due eserciti, uno interamente
l'altro in parte volontario, e nello stesso tempo ai piu' grandi fenomeni di
sbandamento e diserzione della storia italiana. Ma tocca soprattutto le
donne.
Nel '40, nessuna organizzazione femminile, cattolica o laica, prende
posizione contro la guerra. L'8 settembre '43, quando l'esercito si disfa e
decine di migliaia di soldati si sbandano nel paese occupato dai tedeschi, a
soccorrerli, rivestendoli in borghese per sottrarli alla cattura e
indirizzandoli sulla via del ritorno a casa, sono soprattutto donne: per lo
piu' donne cosiddette "comuni", che agiscono senza il sostegno di ideologie
in senso stretto politiche, che non hanno armi per difendersi, e se le
avessero non saprebbero ne' probabilmente vorrebbero usarle. Ci si
aspetterebbe di vederle assistere in dolorosa rassegnazione alla cattura
degli sbandati. Invece li contendono a un esercito strapotente, e non di
rado con successo. "Pareva - scrive Luigi Meneghello - che volessero
coprirci con le sottane" (17).
Nel frattempo altre entrano nell'esercito sui generis della resistenza, e
sul fronte opposto nascono le ausiliarie di Salo', un corpo di volontarie
militarizzate che non portano le armi.
Agli inizi del '45, quando il governo Bonomi pretende di rendere operativo
il reclutamento degli uomini dai venti ai trent'anni nel nuovo esercito da
affiancare agli alleati, ancora le donne insieme con gli studenti tornano in
piazza contro la guerra. E' la rivolta dei "non si parte", che si estende in
tutto il centro-sud con scontri a fuoco, morti e feriti. Nella citta' di
Ragusa a prendere l'iniziativa e' Maria Occhipinti, ventitre' anni, incinta
di cinque mesi, di idee comuniste, che il 5 gennaio si stende davanti a un
camion carico di renitenti rastrellati, costringendo i carabinieri a
rilasciarli. Scontera' per questo carcere e confino (18).
Il senso comune dei contemporanei guarda senza stupore alle azioni di
sostegno ai renitenti: cosa puo' fare una donna di piu' naturale che opporsi
a chi le vuole portare via il marito, il figlio, e per estensione gli altri
uomini? Cosa puo' importarle che l'esercito in questione sia fascista o
antifascista?
Colpiscono di piu' le partigiane e le ausiliarie, donne che si "snaturano"
entrando negli spazi della politica e della guerra, eccezioni che rompono la
norma e nello stesso tempo la confermano.
Riprodurre nella ricerca gli orientamenti di allora identificando le "donne
comuni" con la ripetitivita' e la condizione di vittima, e le partigiane e
le ausiliarie con l'innovazione, il protagonismo, l'avventura, sarebbe una
fatica inutile, oltre che una doppia ingiustizia. Peggio ancora ragionare in
termini di "pacifiche" e "guerriere", "impolitiche" e "politiche". Con il
nostro lavoro vorremmo contribuire a renderlo chiaro.
Questo libro racconta storie di donne a Torino e nel Piemonte del '40-'45;
qualcuna di loro era partigiana; alcune sono state perseguitate e deportate
perche' ebree, altre per motivi politici; la maggior parte non ha avuto
particolari ruoli politici o militari, e secondo un vecchio stereotipo
storiografico rientrerebbe nella "zona grigia" di quelle e quelli che non
hanno scelto.
Racconta anche di donne rinchiuse in ospedale psichiatrico, di donne
condannate per aborto: nonostante lo sfascio istituzionale, l'ordine
fascista non dimentica i comportamenti femminili.
Di molte abbiamo sollecitato il racconto sotto forma di storia di vita o di
tranche autobiografica e qualcuna ci ha offerto anche lettere, documenti
personali e scritti di memoria; di altre abbiamo trovato traccia in carte
d'archivio. Su alcune esperienze, per esempio la prostituzione, c'e' ancora
una tale autocensura che e' stato impossibile ottenere anche una sola
narrazione diretta. Cosi' sulle condanne per aborto e per reati comuni.
Difficolta' di natura diversa hanno accompagnato la ricerca di donne ex
ausiliarie di Salo', e solo in fase di conclusione siamo arrivate a una
presa di contatto.
Da questo lavoro e' nata una mole di documenti e testimonianze inedite (19)
che ci sembra importante per capire quel periodo. Ci chiediamo allora quale
rapporto si possa costruire tra le riflessioni in atto su resistenza e
guerra e quelle sull'opera delle donne nelle sue molte forme.
Un punto di partenza puo' essere il vocabolario della storia, che per
indicare l'azione delle partigiane ha fatto ricorso per decenni a due
termini, contributo e partecipazione. Sono concetti deboli rispetto alla
ricchezza dell'esperienza, ma indicatori forti degli orientamenti
storiografici. Contribuire o partecipare non equivalgono a fare e a far
parte, anzi marcano il divario fra appartenenza e convergenza momentanea,
fra l'azione creativa e il suo contorno o supporto, che restano vaghi. Tanto
vaghi che le medesime parole sono state usate estensivamente per abbracciare
l'insieme delle iniziative femminili ritenute utili alla resistenza.
Forse e' cosi', le donne contribuiscono e partecipano, non fondano. Ma
dipende in primo luogo dai confini e dai contenuti che si danno al termine
resistenza.
Nel campo d'azione sia delle donne "comuni", sia delle partigiane e delle
militanti dei Gruppi di difesa della donna, ci sono molti comportamenti
tipici della resistenza civile, il concetto messo a punto dallo storico
francese Jacques Semelin (20) per indicare una pratica di lotta
caratterizzata nei suoi soggetti (appunto i civili), nei suoi mezzi (non le
armi, ma strumenti come il coraggio morale, la duttilita', la capacita' di
manipolare i rapporti, di cambiare le carte in tavola ai danni del nemico),
nei suoi obiettivi. Questi possono essere tanto l'appoggio alla resistenza
armata, quanto finalita' autonome che esprimono il rifiuto in prima persona
della societa' contro la pretesa nazista di dominio sulla sua vita e sulle
sue strutture. E' resistenza civile quando si sciopera o si manifesta per
migliori condizioni materiali, per ostacolare lo sfruttamento delle risorse
locali da parte degli occupanti, per testimoniare la propria identita'
nazionale; quando si agisce per isolare moralmente nazisti e
collaborazionisti; quando si tenta di mantenere una certa indipendenza di
gruppi sociali e  istituzioni (21), di impedire la distruzione di beni
essenziali, di contenere la violenza magari offrendosi come intermediari;
quando ci si fa carico di qualcuna delle innumerevoli vite messe a rischio
dalla guerra. A distinguere queste e altre pratiche dalle strategie di
emergenza messe in atto soprattutto dalle donne per far continuare la vita
quotidiana, sono l'intenzione e la funzione antinazista, anche se fra le due
aree di comportamenti possono esserci affinita' e sovrapposizioni.
A volte collettivi, piu' spesso individuali, frutto ora di una tessitura
minuziosa, ora di precipitazioni impreviste, le lotte sono per lo piu' non
violente, ma non sempre: per l'Italia, ricordiamo gli assalti a magazzini
viveri e a treni carichi di derrate o combustibili - l'altra guerra, la
definisce Miriam Mafai (22) - e non da ultimo le violenze collettive, spesso
amplificate nell'immaginario sociale, contro esponenti e favoreggiatori di
Salo'. Anche l'assenza di armi non e' sempre una scelta, in certi casi e'
semplicemente impossibile procurarsele.
Per molti protagonisti/e  valgono ragioni politiche in senso stretto. Per
moltissimi/e altri si tratta piuttosto di compassione verso chi e' in
pericolo, stanchezza della guerra, spirito di ribellione per il continuo
peggioramento delle condizioni materiali; a volte di orgoglio nazionale o
dignita' del proprio mestiere. Ma nessuna di queste spinte basterebbe, senza
un preventivo disconoscimento della legalita' fascista e senza
l'identificazione, per quanto embrionale e sotterranea, di una legittimita'
altra. E' forse il principale punto di convergenza fra protagonisti/e cosi'
eterogenei che a accomunarli e' quasi solo la condizione di cittadini di uno
stesso paese. Ma e' un punto forte: gia' negli scioperi del marzo '43, la
scintilla era nata dal rifiuto della legalita' vigente, che pretendeva di
imporre l'unione sacra in nome della patria, e si fondava su un'altra idea
di legittimita', secondo la quale e' immorale far pagare alle popolazioni
prezzi cosi' alti in termini di fame, freddo, fatica, rischio.
Nella resistenza civile italiana, la mobilitazione dell'8 settembre spicca
come un momento forte, esemplarmente pericoloso (23), con caratteristiche di
massa e esteso a tutto il territorio occupato. Alle sue radici, non tanto
una pieta' indifferenziata, quanto la disponibilita' femminile nei confronti
di un destinatario ben determinato, il giovane maschio vulnerabile che si
rivolge in quanto tale alla donna come a una figura forte e protettrice,
vale a dire a una madre. Per questo parleremmo qui di maternage di massa
(24) come forma di resistenza civile insieme rafforzata e mediata dalla
carica simbolica connessa alla figura femminile.
Nei venti mesi successivi, si contano piccoli e grandi fallimenti, piccoli e
grandi risultati. Si vanificano i piani nazisti, come quando le donne di
Carrara resistono agli ordini di sfollamento totale emanati nel luglio '44
per garantire alle truppe tedesche una via di ritirata attraverso territori
sgombri (25). Si strappano miglioramenti delle condizioni di vita. Si
delegittimano le istituzioni di Salo'. Si salvano persone, come fanno i
contadini toscani che ospitano per mesi i prigionieri alleati evasi dai
campi di concentramento italiani dopo l'armistizié (26).
Si tratta nel suo insieme di un enorme lavoro di tutela e trasformazione
dell'esistente, vite, rapporti, cose, che si contrappone sul piano sia
materiale sia simbolico alla terra bruciata perseguita dagli occupanti, e
che ha alti livelli di rischio, dalla denuncia alla deportazione e alla pena
di morte per chi fornisca documenti falsi ai ricercati, dia aiuto a
partigiani o, recita un decreto di Salo' del 9 ottobre 1943, dia rifugio a
prigionieri e militari alleati o ne faciliti la fuga. Del resto, nell'ordine
senza diritto imposto dall'occupazione, basta un rifiuto occasionale di
obbedienza a provocare conseguenze gravi. L'impegno nella resistenza civile
puo' contare e costare quanto quello nella resistenza armata.
Partiti, Cln e forze partigiane guardano con grande attenzione agli
orientamenti popolari. E' cosi' in tutta Europa, dove gia' alla vigilia
dell'occupazione cominciano a circolare testi che suggeriscono regole di
condotta nei confronti dei tedeschi. In qualche caso sono opera di ignoti o
di militanti isolati, in altri vengono da organizzazioni della resistenza. I
Dieci Comandamenti di un Danese propongono la linea della "spalla fredda",
che sollecita a rifiutarsi di andare a lavorare in Germania, a sabotare
macchinari e produzione, a proteggere chiunque sia ricercato, a trattare "i
traditori secondo quel che si meritano". In Italia nel dicembre 1943 un
opuscolo del partito d'azione chiede ai dipendenti pubblici rimasti in
servizio di ostacolare con ogni mezzo il funzionamento dell'amministrazione
fascista (27).
Al di la della loro ricaduta operativa, materiali come questi contribuiscono
a mettere in luce una delle caratteristiche piu' interessanti della
resistenza civile: il suo essere intessuta di iniziative ora solitarie ora
di gruppo ora di massa, e nutrita sia di elementi di organizzazione politica
sia di "spontaneita'", o, piu' precisamente, di forme diverse di
concertazione fondate su rapporti di paese, di quartiere, di caseggiato, su
reti parentali, di colleganza, di amicizia. In Italia, dove il fascismo ha
frantumato l'opposizione e infiltrato le strutture sociali e dove i gia'
deboli sentimenti civici sono sbriciolati, la funzione dei  reticoli
informali e' dominante.
Ma nelle rappresentazioni ufficiali e nell'immaginario d'epoca, resistente
e' chi ha combattuto in montagna, e nei giorni della liberazione, ha sfilato
nelle citta' incarnando anche visivamente l'irrompere del nuovo. In seconda
istanza viene l'esponente dei partiti del Cln. Figure inermi e debolmente
organizzate come i deportati e gli internati militari restano sullo sfondo,
e i criteri per l'attribuzione delle qualifiche partigiane rispecchiano
questa gerarchia. In Italia - stabilisce il decreto luogotenenziale del 21
agosto 1945 - e' dichiarato partigiano chi ha portato le armi per almeno tre
mesi in una formazione armata "regolarmente inquadrata nelle forze
riconosciute e dipendenti dal Comando volontari della liberta'", e ha preso
parte a almeno tre azioni di guerra o di sabotaggio. A chi e' stato in
carcere, al confino, in campo di concentramento, la qualifica viene
riconosciuta solo se la prigionia ha oltrepassato i tre mesi; almeno sei
sono necessari nel caso di servizio nelle strutture logistiche. A chi,
dall'esterno delle formazioni, abbia prestato aiuti particolarmente
rilevanti viene attribuito in qualche regione il titolo di benemerito.
Parametri simili vigono negli altri paesi europei, mentre solo il Belgio
introduce per pochissimi casi lo statuto di resistente civile.
Con questa consacrazione dell'iniziativa in armi e del legame politico - di
partito, di gruppo, di organismo di massa - si sancisce una strettoia che
penalizza molte forme di opposizione e moltissimi uomini e donne, comprese
le partigiane, che in vari casi non sono state inserite negli organici, e le
miltanti dei Gruppi di Difesa della donna.
Partigiana deportata a Ravensbrueck e coautrice di un libro di memoria e di
analisi sulla prigionia femminile (28), Lidia Beccaria Rolfi ricorda
l'atteggiamento con cui i compagni la accolgono al suo ritorno dal lager:
"Quando tu tentavi di raccontare la tua avventura, tiravano sempre fuori
l'atto eroico: '... pero' noi!'. I tedeschi li avevano ammazzati loro, i
fascisti li avevano fatti fuori loro... e noi eravamo prigionieri..." (29).
Dove l'ironia prende di mira, insieme all'autocelebrazione, i valori
celebrati: orgoglio militare, enfasi sulla morte, primato del combattente in
armi (30).
E' una critica che va alle radici, e non e' un caso che a farla sia una
donna. Nella resistenza e nello Stato che ne nasce, la spinta al
rinnovamento tocca aspetti decisivi dell'assetto politico e istituzionale.
Ma resta saldo, sul piano simbolico se non a livello giuridico, uno dei
fondamenti tradizionali della cittadinanza, che lega la sua pienezza al
diritto/dovere di portare le armi, facendo degli inermi per necessita' o per
scelta figure minori, cittadini in seconda. E' il modello consegnato alla
modernita' dalla rivoluzione francese e dalle sue leve di massa, paradigma
maschile e guerriero del rapporto individuo/Stato (31).
All'attualizzazione di quel primato contribuisce un intarsio di modelli
irriducibile a una posizione politica o di partito: dalla tradizione
marxista di appoggio alle guerre di liberazione alla figura del ribelle
risorgimentale, dalla memoria del combattente di Spagna al sogno del
proletario armato come avanguardia del movimento patriottico. A imporlo e a
farlo apparire naturale e' la stessa realta': quella di resistenza e' una
guerra. Che la guerra non si combatta solo con le armi e che la politica non
sia solo quella organizzata, e' un'idea lontana dall'Italia di allora.
Per le donne, si aggiunge il peso delle costruzioni simboliche sul femminile
da cui, a dispetto dei suoi sogni di cambiamento, il movimento resistenziale
non e' affatto immune. Perdura l'ideologia dell'inconciliabilita' fra donne
e  politica, in omaggio alla quale azioni simili hanno uno statuto diverso a
seconda di chi le compie: di una donna che cucina per i partigiani, cura i
feriti o segnala la presenza di tedeschi, si dice che da' un aiuto;
dell'addetto alla sussistenza di una formazione, del cuoco, dell'infermiere,
dell'informatore, si dice che sono partigiani. Lo stesso maternage dell'8
settembre, che salva fra l'altro la "materia prima" della resistenza armata,
viene dato quasi per scontato: le donne avrebbero agito come madri e spose,
ed e' come madri e spose che si cerca di guadagnarle alla causa - e che
nello stesso tempo se ne diffida per il loro "egoismo" familistico.
Sebbene la guerra sottoponga il concetto di politica a tensioni fortissime,
pochi fra i protagonisti sembrano capaci di vedere nelle pratiche delle
donne qualcosa di diverso dal prolungamento dei ruoli di assistenza e di
cura, espansi al di fuori del privato in deroga alla "naturale" divisione
degli spazi. Che a singole esponenti politiche siano assegnati incarichi di
rilievo in qualcuno dei territori provvisoriamente liberati dai partigiani,
e' un segnale importante, ma coesiste con il fatto che in nessuna di queste
zone viene riconosciuto alle donne il diritto di voto per l'elezione degli
organismi di autogoverno.
Perdura - ed e' stupefacente se si pensa ai pericoli per i civili, alla
fame, all'imprevedibilita' del domani - l'assimilazione fra vita quotidiana
e routine, con quel suo risvolto simmetrico che identifica emergenza e
caduta peccaminosa nel lassismo. Se la Chiesa rimprovera alle donne di
sfuggire la domesticita' con il pretesto della guerra e di non saper piu'
educare cristianamente le figlie, in una lettera della XL brigata Matteotti
(32) si arriva a invitare le compagne a impegnarsi per procurare quanto
necessario alla formazione, "abbandonando la vita metodica e casalinga"
(sic).
Nonostante il coraggio con cui una parte della dirigenza partigiana
stigmatizza i pregiudizi maschili, perdura anche l'ideologia
dell'incompatibilita' fra donne e armi, mentre in banda la divisione dei
compiti si modella sulla gerarchia di genere. Per molte che combattono,
poche accedono a ruoli politici o militari di rilievo, pochissime diventano
comandanti o commissari politici. E' cosi' in tutta la resistenza europea,
ma nei paesi latini si arriva al grottesco: una donna italiana si vede
attribuire la qualifica di soldato semplice proprio dal giovane partigiano
che lei stessa aveva messo a capo di una formazione quando esercitava in via
provvisoria il comando della piazza di Torino (33).
Lo stereotipo forse piu' imbarazzante per la sensibilita' dell'oggi e'
l'associazione tra femminilita' e impurita', contaminazione, disordine
sessuale, che nella resistenza solo piccole minoranze si propongono di
smontare. Mentre i rapporti di genere restano associati al privato, e il
privato viene temuto come luogo del cedimento e della perdizione (34), si
esaltano madri e sorelle putative, si guarda con diffidenza alla
femminilita' di ogni altra, comprese le partigiane. Un caso limite - rimasto
isolato, ma inizialmente proposto a modello dal comando generale del Corpo
volontari della liberta'  - e'  quello della piemontese XIX brigata
Garibaldi, dove le 38 donne del distaccamento femminile non solo lavorano di
cucito al chiuso sotto il controllo di un'anziana, non solo sono diffidate
dall'avere rapporti con i civili, ma vengono sottoposte a visita medica
settimanale per evitare casi "di malattie piu' o meno contagiose" (35). La
partigiana ideale e' la protagonista dell'Agnese va a morire (36), il
romanzo modello sulla resistenza femminile: informe, materna, in eta' non
sospetta.
Le altre, come e' risaputo, inquietano. Giovani, uscite non episodicamente
dal privato e mischiate ai maschi nelle formazioni, sfidano troppe
costruzioni ideologiche, a partire da quella per cui donne e uomini devono
avere spazi separati; e fanno a tal punto da catalizzatore del biasimo
antipartigiano che, in ossequio alla mentalita' diffusa, vengono non di rado
messe ai margini a emergenza finita. Che il "racconto" della resistenza come
nuova epopea nazionale nasca su questa rimozione del femminile non ha mai
occupato i pensieri degli storici.
Eppure affrontare quel vuoto aiuterebe a capire da dove veniamo, in
particolare per quanto riguarda modelli e politiche di genere, su cui forse
non esiste un rivelatore potente quanto il tempo della guerra.
Basta pensare, per esempio, all'impegno di tanti dirigenti politici e
militari italiani nell'evitare un'immagine promiscua della resistenza. Per
lo piu' lo si e' letto come un adeguamento all'arretratezza sociale e
culturale del paese e un residuo interno all'orizzonte nord-occidentale,
come se l'Italia non fosse invece fortemente legata alla tradizione del
bacino mediterraneo. Senza dimenticare lo scarto temporale e le differenze
che ci separano dai paesi della riva sud, sarebbe utile una riflessione
centrata sia sulla pretesa delle religioni a regolamentare direttamente o
indirettamente la vita delle donne e la morale privata, sia sul
riconoscimento che le forze politiche  sono costrette, avvezze, spesso
interessate, a dare a quella intromissione.
La riluttanza a far sfilare le partigiane nei cortei della liberazione come
versione evoluta del velo? Sarebbe un'ironia, se si pensa che nella guerra
appena conclusa a garantire la vita sono state donne visibili a livello di
massa nella sfera pubblica come mai prima (37); ma darebbe un elemento in
piu' per comprendere alcuni aspetti che ci sta a cuore sottolineare,
innanzitutto l'enorme legittimazione accordata al materno in quei momenti e
la sua poca resa in termini di liberta' e visibilita' femminili a emergenza
finita.
*
4. Interpretazioni
Questi orientamente hanno modellato per decenni i modi e tempi della
ricerca, che, come in tutta Europa, ha quasi ignorato la resistenza delle
donne e le lotte non armate.
Per quanto riguarda la prima, la sua marginalizzazione era evidentissima nel
disinteresse per il nodo donne/politica. Un problema lungamente dibattuto a
proposito degli scioperi del marzo 1943 - il rapporto fra organizzazione
politica e concertazione informale - e' stato del tutto trascurato per  le
donne. Le stesse divergenze fra partigiane, fra organizzazioni femminili e
al loro interno, venivano eluse a favore di un'immagine di quieto
unanimismo. Gia' a partire dagli anni settanta alcune studiose denunciavano
queste cecita' (38); ma in quella fase, e per vario tempo ancora, nella
comunita' delle storiche dominava la diffidenza verso i binomi che accostano
le donne agli eventi della cosiddetta grande storia (gli intrecci
donne/guerra, donne/resistenza e cosi' via), quasi fossero un cedimento alle
sue gerarchie di rilevanze. Anche per questo la storiografia reistenziale
poteva continuare indisturbata a "spiegare" l'opera delle donne in termini
di rapida politicizzazione (senza pero' verificarla), o di naturale
oblativita' femminile e di umanitarismo (seducenti parole tuttofare che
andrebbero a loro volta spiegate, perche' quei sentimenti non scattano
sempre ne' per chiunque).
In termini simili, e con la stessa distrazione, si guardava alle lotte senza
armi. Pochissime le ricerche, assolutamente imparagonabili alla mole di
studi sulla resistenza armata e sui gruppi politici, e dovute quasi soltanto
a esponenti e gruppi della nonviolenza.
Lo scarto era ancora maggiore per la sistemazione storico-teorica. Sul nodo
guerra di liberazione / guerra civile sono state scritte cose decisive e
probabilmente definitive (39), su quello lotta armata / lotta non armata e
sul modello di cittadinanza uscito dalla resistenza si e' pensato e detto
poco. A tutt'oggi manca del tutto, per esempio, una riflessione su quanto, e
se, abbiano influito su quel modello il carattere volontario
dell'arruolamento, la struttura meno gerarchica delle formazioni militari,
gli obiettivi di pace. Non in modo decisivo, a giudicare dall'indicatore
rappresentato dal linguaggio, che continua a fare del caduto la
personificazione eroica e virile del morto.
Certo la nostra realta' e' imparagonabile alle grandi mobilitazioni popolari
e istituzionali di altri paesi, e sovradimensionarla avvalorerebbe il mito
nazionale degli "italiani brava gente". Per quanto riguarda l'aiuto agli
ebrei, banco di prova della resistenza civile europea, non si hanno da noi
prese di posizione ufficiali ne' da parte di personalita' della cultura, ne'
di istituzioni religiose e civili o di ordini professionali; dissociazione
dalla politica razzista e sostegno concreto si realizzano in gran parte a
livello individuale o nelle reti di rapporti di piccolo raggio. Quanto
basta, pero', a rifiutare lo stereotipo speculare di un popolo geneticamente
afflitto da opportunismo e inclinazioni fascistoidi - la categoria di
carattere nazionale e' cosi' volatile che la si puo' tirare in qualsiasi
direzione.
Comunque si valuti la dimensione quantitativa, non perdono la loro vitalita'
i significati che l'area dei comportamenti conflittuali inermi offre, e che
ne' la cultura di sinistra ne' quella cattolica hanno colto e accolto. La
prima li ha trattati quasi come una componente ambientale che aderisce,
sabota o si astiene in una partita giocata tra fascisti e partigiani. La
seconda ha puntato a valorizzare sia l'azione disarmata sia la pietas che si
sforza di salvaguardare beni e persone, ma identificandole come espressioni
della coscienza cristiana e forme proprie della partecipazione cattolica
alla resistenza (40); a volte rivendicandole in esclusiva (41). Quasi che
atti e sentimenti simili non appartenessero anche all'esperienza del
combattente, o non potessero avere altra matrice che quella religiosa (42).
Si puo' dire, schematizzando, che questi orientamenti si sono riprodotti per
decenni, con le due parti che rivendicavano l'una il primato della lotta
armata nella guerra antifascista e nella fondazione democratica, l'altra
quello della resistenza senza armi. Restava cosi' irrisolto il problema di
una concettualizzazione della lotta civile che non ne facesse un puro
complemento di quella armata (43), ne' un fenomeno indistinto buono a
legittimare qualsiasi condotta, ne' il blasone dello schieramento cattolico;
e nell'opinione pubblica si tramandava la vecchia e settaria divisione dei
ruoli che assegna alle sinistre, in particolare ai comunisti,
l'organizzazione e la violenza, ai cattolici la spontaneita' e la pietas.
Il risultato e' che un intero universo di comportamenti rimaneva fuso e
confuso nello scenario della guerra civile, mentre il senso comune
storiografico recalcitrava di fronte alla prospettiva di riconoscergli il
titolo di resistenza. In qualche caso - per esempio i 600.000 militari
internati in Germania che rifiutano di arruolarsi nell'esercito di Salo' -
si parlava di "resistenza passiva", un termine gia' in uso all'epoca, che
per la cultura occidentale ha un segno negativo e che risulta davvero
stonato. Come si fa a definire "passivo" un no opposto ai nazisti
dall'interno di un campo di prigionia?
Ecco perche' il concetto di resistenza civile risulta prezioso. Individuare
nella societa' un luogo di antagonismo anziche' uno scenario, nei cittadini
e nei gruppi sociali i protagonisti anziche' le comparse, equivale a mettere
in questione automatismi fra i piu' radicati: non solo la polarita' fra un
maschile associato alla guerra e un femminile associato alla pace, ma anche
l'equiparazione fra comportamento attivo e presa delle armi, e
l'identificazione altrettanto arbitraria della scelta non violenta con
l'equidistanza dagli schieramenti. Se la resistenza civile puo' e spesso
deve cercare la mediazione, lo fa a partire da una scelta di campo.
Pensiamo dunque che meriti un posto a se' nel dibattito avviato in questi
anni su "zona grigia" e attendismo. Un posto contiguo, perche' spesso ne
condivide il contesto sociale e una frazione di percorso, e nello stesso
tempo lontanissimo, perche' non ne e' la faccia nascosta ma l'esatto
contrario. Ci sembra che lo sia anche se si adottano letture nuove e
sensibili degli atteggiamenti delle popolazioni, per esempio sottolineando
la fatica di sopravvivere e la sofferenza comuni, o rifiutando di assimilare
esitazioni e sentimenti di estraneita' a una palude opportunista (44). Sono
modi di rendere giustizia a chi, pur non facendosi parte attiva della lotta,
puo' aver condiviso momenti di solidarieta' o sforzi per limitare il peso
dell'emergenza.
Ma perche' la resistenza civile abbia a sua volta giustizia, il primo passo
e' proprio distinguerla da questo sfondo. Chi protegge un perseguitato non
si mette in posizione di attesa, non delega la salvezza dell'altro alla fine
vittoriosa della guerra, un evento che potrebbe arrivare troppo tardi.
Sceglie, si espone, e con il suo comportamento esemplifica il rapporto
semplice e cruciale che esiste fra il tema della resistenza civile e quello
della responsabilita' individuale. Se si indica come sola forma di
opposizione qualificata quella in armi, come solo antagonista decisivo il
partigiano, si finisce implicitamente per legittimare chi ha scelto di non
agire, e puo' giustificarlo invocando principi e infinite ragioni pratiche.
E' vero che non tutti possono sparare, lasciare la famiglia e la casa,
vivere in clandestinita', reggere grandi fatiche. La lotta armata,
soprattutto quella in montagna, chiede corpi giovani e sani.
Molto cambia se si afferma l'idea di una resistenza diversa, praticabile in
molti piu' luoghi e forme, accessibile a molti piu' soggetti, dalla madre di
famiglia al prete al nonviolento, ma anche a chi ha un'eta' anziana, o e'
infermo, magari fisicamente inetto. "Fai come me" e' un invito che il
resistente civile puo' estendere molto al di la' di quanto possa fare il
partigiano in armi. Il problema della colpa diventa cosi' meno
tranquillamente eludibile, sia sul piano individuale sia su quello
collettivo (45).
Qualcosa puo' cambiare anche per quanto riguarda un altro crocevia storico e
ideologico. Si discute da tempo in Italia sulle difficolta' della resistenza
a porsi come matrice dei sentimenti di appartenenza, sui modi di affrontare
le fratture politiche che segnano l'identita' nazionale. Ma esistono
divisioni legate al genere sessuale, alle fasce di eta', alle diverse
tradizioni, alla geografia, a cominciare da quella che giustappone un nord
cuore della lotta armata, virilmente attivo, innovatore, a un sud
"femminilmente" passivo, cooptato in un riscatto cui sarebbe rimasto
estraneo. Sono problemi non solo italiani, visto che tutti gli stati europei
hanno preso a simbolo della rinascita postbellica la figura minoritaria del
giovane maschio combattente.
Dare valore alla resistenza civile rimette in discussione questo assetto
politico e simbolico, fino a prospettare una ridefinizione di quel che si
intende per contributo di un gruppo, di una categoria, di un paese, alla
lotta antinazista. Oggi lo si valuta ancora in termini di morti in
combattimento; sarebbe giusto misurarlo anche sulla quantita' di energie, di
beni e soprattutto di vite strappate al III Reich.

5. Prove di dialogo
Quasi cinque anni fa, scrivendo questa introduzione alla vigilia del
cinquantennale del 25 aprile, abbozzavamo un bilancio sia interno alla
storia delle donne sia esterno. Mentre il censimento delle ricerche indicava
che il rapporto donne/guerra/resistenza stava entrando a pieno titolo
nell'agenda delle storiche, i programmi culturali e celebrativi mostravano
un disegno in chiaroscuro. I limiti di militarismo insiti nei criteri per
l'assegnazione delle qualifiche partigiane venivano ormai riconosciuti (46),
e nel dibattito almeno due punti sembravano acquisiti: che la resistenza e'
un oggetto plurale e differenziato su cui era necessario lavorare ancora a
livello di ricerca e di concettualizzazione; che lo studio delle lotte
inermi poteva essere una tappa importante di questa nuova fase (47). Anche
la presenza femminile era in genere ricordata piu' di frequente; sarebbe
ormai stato difficile giustificare un vuoto totale proprio in un momento di
massima visibilita' dell'evento.
Ma si persisteva a usare un concetto come "solidarieta' femminile", che
mette l'accento sull'aiuto offerto ad altri e sull'aspetto umanitario, si
esitava di fronte a quello di resistenza civile, che sottolinea invece il
rapporto fra comportamenti delle donne e forze occupanti e il suo
significato politico e di lotta. Nonostante alcune sollecitazioni a
"complicare" anche in Italia i contenuti del termine resistenza (48), la
tendenza era ancora a trattare l'esperienza di genere come una enclave
all'interno di convegni, libri e mostre, per di piu' limitandosi a vicende e
immagini del femminile senza affrontare ne' quelle del maschile ne' i
concreti rapporti donne/uomini: un'area su cui c'e' stato, e in parte c'e'
ancora, un vasto non detto e un piu' vasto non pensato.
Nel frattempo l'espressione "resistenza civile" continuava ad apparire
vagamente abusiva, concorrenziale alla lotta armata, comunque inessenziale
alla comprensione sia delle tante iniziative di donne (e non solo di donne),
sia degli scioperi operai - che, se si accetta la categoria di guerra
civile, inaugurano nel marzo '43 la resistenza al fascismo.
Oggi la nostra impressione e' che il momento delle rigidezze sia superato.
Nella ricerca e nel dibattito la resistenza civile e le lotte delle donne
compaiono in modo meno episodico, il termine "resistenza passiva" ha perso
credito e la gerarchia armati/inermi non e' piu' intoccabile, mentre voci
autorevoli hanno invitato a ridefinire le caratteristiche e i confini della
minoranza attiva tenendo conto delle lotte non armate (49). E' un processo
lento, non lineare, con varie componenti: la crescita quantitativa e
qualitativa degli studi delle donne e dei gruppi della nonviolenza, le
posizioni di studiosi/e che anche sull'onda del crollo dei regimi comunisti,
invitavano da tempo a considerare nuove categorie e nuovi oggetti di
ricerca; l'incrinarsi di alcuni tabu' storiografici (50); infine ma non da
ultimo il ruolo di quelle partigiane, deportate "razziali" e politiche,
militanti antifasciste, che  hanno pubblicamente guardato con simpatia alla
resistenza civile e spesso hanno offerto notizie preziose in merito. Fra il
concetto di resistenza civile e quello di resistenza tout court, fra i
criteri e i referenti sociali che sono alla base dell'uno e dell'altro, si
e' inaugurato un dialogo.
Lo stesso concetto di resistenza civile si e' aperto al confronto con gli
studi delle donne. Inizialmente, quel concetto privilegiava le mobilitazioni
istituzionali e le iniziative tendenzialmente di massa e politicamente
organizzate, riservando a quelle individuali e di piccoli gruppi lo statuto
piu' debole di disubbidienza o dissenso; oggi si ammette che quell'accezione
lasciava in ombra molti soggetti a pieno titolo attivi, e si tende a
ricomprendere anche le azioni individuali e di microgruppi, l'area a
maggiore presenza femminile.
Ma il legame fra donne e resistenza civile ci sembra piu' un punto di
partenza che di arrivo (51). Quella categoria ha aperto una strada, riunendo
sotto un titolo forte iniziative senza nome, azioni ritenute sussidiarie e
grandi lotte; ha mostrato che quell'area di comportamenti non e' il braccio
disarmato del movimento partigiano ne' un sottoprodotto dei partiti, e
neppure un limbo inorganizzato e impolitico. Ha spostato alcune storie
importanti dalla memoria privata a quella pubblica. E' moltissimo, e non
avrebbe senso pretendere di piu', a maggior ragione perche' il concetto ha
una storia in larga parte autonoma dal discorso di genere.
Il punto e' che, sgombrato il campo dalla gerarchia armati/inermi, diventano
ancora piu' evidenti altri fattori di esclusione. Anche nella resistenza
civile ha corso lo stereotipo secondo cui le donne sarebbero incompatibili
con la sfera politica, e sono all'opera meccanismi che possono tenerle ai
margini.
Non e' soltanto antifemminismo. Vincolata agli imperativi della
clandestinita', organizzata a maglie larghe, spesso poco omogenea, la
resistenza civile nelle sue forme piu' strutturate si regge su una struttura
autoritaria che non prevede ne' criteri di avvicendamento della dirigenza,
ne' regolari meccanismi di controllo e di confronto. Come fa notare Semelin,
non potrebbe essere altrimenti. Ma a essere penalizzate sono in primo luogo
le donne, presenti soprattutto nelle realta' di base, per lo piu' ancora
prive di uno stile politico autorevole, comunque raramente cooptate nelle
leadership. E' un paradosso della resistenza civile antinazista usare
pratiche associate al femminile, e uno stile politico e modelli
organizzativi tipicamente maschili (52).
Persino nelle azioni piu' informali e di base agiscono strutture in cui le
donne possono scomparire. Innanzitutto la famiglia, che nell'Europa occupata
e' un bersaglio delle politiche di sfruttamento e terrore, e nello stesso
tempo un luogo primario di radicamento e concertazione. Non per caso si e'
parlato di politicizzazione dei ruoli familiari e di pubblicizzazione della
sfera privata (53). Spinte e legittimate ad agire in nome e per tramite
della famiglia, le donne restano spesso impigliate nella sua immagine di
unita' organica, che tende ad assumere il ruolo di protagonista in loro
vece, o a assegnarlo al marito, padre, fratello. Come mostrano anche alcune
storie raccontate in questo libro, la figura di moglie e madre puo'
sovrastrare quella della resistente, la sua iniziativa tornare ad essere
classificata come contributo.
E' dunque utile proseguire nella "contrattazione" con la categoria di
resistenza civile - il che equivale a mettersi in cerca dei modi in cui si
esprime l'azione delle donne, a distinguerla dallo sfondo che potrebbe
annettersela e a farla pesare nella concettualizzazione.
In questa prospettiva ci limitiamo a sottolineare il legame privilegiato con
la mutevole zona di separazione/sovrapposizione tra sfera pubblica e sfera
privata che la guerra movimenta fino a scardinarla (54). Le donne - una
minoranza di donne - non solo operano per lo piu' in aree a confini incerti
come la tutela della comunita', l'assistenza ai piu' vulnerabili, la
protezione dei perseguitati, ma quei confini manipolano sistematicamente in
ogni loro attivita'. Scrivono e ciclostilano in case che sono nello stesso
tempo abitazioni e centri di resistenza. Frequentano mercati e botteghe
facendo insieme spesa e propagand

pro dialog